A Guarene, attraverso le vie che conducono a Palazzo Re Rebaudengo, di tanto in tanto si apre una breccia tra le case e il panorama si estende verso le dolci colline del Roero. È impossibile non fermarsi a riposare lo sguardo sullo sfondo, dove i prati si dispiegano a perdita d’occhio e i filari si rincorrono all’orizzonte, accarezzati di taglio dai raggi del sole.
La zona delle Langhe e del Roero richiama ogni fine settimana centinaia di visitatori, spinti dal desiderio di assaporare prodotti autentici e panorami mozzafiato, o di immortalare le tavolozze variopinte del foliage autunnale. Tutti si spostano fin qui alla ricerca di un’esperienza davvero rurale. Ma cosa significa “davvero rurale”?
Questa domanda è al centro di Truly Rural, una mostra che interroga il significato del termine “rurale”, dalle sue radici storiche alle declinazioni più attuali, con l’obiettivo di far emergere ciò che si nasconde dietro agli immaginari più romantici e idealizzati.
Attraverso opere storiche e contemporanee, la mostra si propone di svelare come le fantasie alimentate dalle immagini turistiche, propagandistiche, pubblicitarie, e persino dall’arte stessa, spesso non coincidano con la prospettiva reale di chi abita questi territori.
Il fulcro dell’ipotesi espositiva è il potere della narrazione, o la narrazione del potere, che costruisce il discorso sulle campagne, spesso appropriandosi del folklore e della bellezza naturale di questi luoghi per accrescere i flussi turistici, alimentare sentimenti nazionalisti, o semplicemente distogliere l’attenzione da problematiche reali.
Le opere in mostra riflettono su traumi individuali e collettivi, partendo dalle intenzionalità politiche ed economiche che si nascondono dietro a un certo tipo di rappresentazione romantica e pittoresca.
Punto di partenza ricorrente è una problematica attuale che riguarda in primis il contesto europeo, dove la retorica legata al “ritorno alla terra” – inteso come recupero degli equilibri sociali e dei valori tradizionali della società contadina – diventa l’impulso per l’insorgenza di ideali nostalgici di estrema destra.
Come nel caso dell’opera di Eoghan Ryan, che dà il titolo alla mostra. Collocata all’inizio del percorso, l’installazione offre al pubblico una postazione inusuale, dove può osservare il video sedendosi su comode balle, tra lattine di birra e altri resti di una goliardica serata tra amici. Sullo schermo si alternano ricordi personali dell’epidemia della mucca pazza, filmati di un pupazzo e documentazione della tradizione del Fasching, il carnevale della germania meridionale. Immagini che rievocano la memoria del virus montate insieme a brevi interviste e scene di festa tra personaggi in costume. Queste scene, apparentemente slegate tra loro, rivelano invece un’inaspettata associazione tra l’epidemia bovina e l’insorgenza di tendenze di estrema destra nella campagna tedesca.
La memoria della mucca pazza ritorna anche nelle opere realizzate nel 1996 da Carol Rama. Nelle pitture esposte i frammenti anatomici dell’animale – zoccoli, mammelle, mandibole dentate, genitali – trovano posto insieme a elementi di gomma, cuoio, camere ad aria e altri materiali montati sui sacchi per spedizioni postali, in composizioni che trasmettono sentimenti misti di angoscia ed erotismo. I collages costituiscono dei veri e propri autoritratti, attraverso i quali Rama compie un’identificazione tra il proprio corpo e quello l’animale colpito dalla malattia che tra gli anni ‘90 e il 2000 sterminò centinaia di migliaia di bovini in seguito all’ingestione di farine animali.
Una chiave esplicitamente politica è offerta dall’opera di Athi-Patra Ruga. La serie a cui appartiene la fotografia esposta, è stata creata in seguito alla visione di alcuni manifesti della campagna del Partito Popolare Svizzero di destra, dall’eloquente messaggio xenofobo. L’illustrazione, raffigurante un gregge di pecore bianche che calcia una pecora nera oltre il confine, è stata usata dall’artista per ricavare il personaggio di Injibhabha. Una figura avvolta da un morbido manto di extensions afro, che col suo corpo nero, maschile e queer, incarna le sembianze dell’animale – così come delle soggettività straniere – di cui il manifesto promuoveva l’espulsione.
Nelle due sale attigue, le fotografie di Wilhelm Von Gloeden e Mauro Ledru ritraggono scene e paesaggi dell’Italia meridionale tra Otto e Novecento, mostrando diverse visioni del Sud, ora ancestrale e idealizzato, ora popolare e disincantato. Gli obiettivi dei due autori ci guidano attraverso narrazioni differenti ma mai neutrali, sempre sfumate in una vaga mitologia mediterranea che evoca una terra misteriosa e oscura, comunque attraente e suggestiva, rimasta inattaccata dalla modernità.
Dopo aver attraversato le diverse opere in mostra, il percorso espositivo si conclude con l’installazione ambientale di Sarah Ciracì. Nella sala debolmente illuminata, le grandi punte metalliche di una trivella emergono da terra, come a perforare il pavimento. Questa visione impattante sembra alludere alle fratture che investono il contesto rurale, prefigurando la minaccia di un processo estrattivo che, ora, ci si ritorce contro.
Fino al 10 novembre al Palazzo Re Rebaudengo è possibile visitare anche la mostra personale di Tin Ayala “There Is No Conquest Without Celebration”, organizzata in occasione del 12esimo anno di collaborazione tra Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e ENSBA Lyon – École Nationale Supérieure des Beaux-Arts, oltre alla nuova commissione per il Parco d’Arte,“FOAM”, dell’artista Tauba Auerbach.
In mostra le opere dellə artistə: Noor Abed, Massimo Bartolini, Sarah Ciracì, Mario Giacomelli, Helena Hladilová, Mauro Ledru, Marko Lehanka, Jumana Manna, Carol Rama, Athi-Patra Ruga, Eoghan Ryan, Wilhelm von Gloeden.
Cover: Wilhelm von Gloeden, Il Risposo, 1901. Courtesy Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Turin