Nel 1987 Mikel Dufrenne pubblicava con l’editore canadese “L’Hexagone” quella che sarebbe divenuta a posteriori la sua impresa conclusiva, il saggio L’oeil et l’oreille, tradotto in italiano nel 2004 con il titolo L’occhio e l’orecchio. Tra gli estetologici più ragguardevoli e forse oggi meno ricordati della fenomenologia francese di secondo Novecento, Dufrenne descriveva l’incontro tra individuo e mondo — soggetto e oggetto — nei termini di un confronto anti-gerarchico essenzialmente polisensoriale. La “pluralità dei sensi” (Franzini, 2014) su cui Dufrenne andava ragionando, nel solco della tradizione aperta da Sartre e Merleau-Ponty, rinveniva nella cooperazione sinergica di visione, udito, tatto e gusto l’essenza dell’atto conoscitivo. Ciò nella ferma convinzione che l’originario — la chair du monde di Merleau-Ponty —, raccogliendo in sé e addirittura precedendo l’esperienza differenziale dei sensi, rappresentasse da ultimo “l’unità originaria del sensibile” (Franzini, 2014).
Il desiderio di richiamare qui – introducendo la personale di Trisha Baga The eye, the eye and the year, inaugurata il 19 febbraio negli spazi di Pirelli HangarBicocca a cura di Lucia Aspesi e Fiammetta Griccioli— il pensiero di Mikel Dufrenne, non si esaurisce nell’occasionale “quasi” omonimia offerta dal titolo. Tale singolarità emerge infatti prepotentemente qualora si considerino le implicazioni messe in campo dall’intrecciarsi di un testo pubblicato poco più di trent’anni anni fa – testo, quello di Dufrenne, che idealmente chiudeva gli anni Ottanta, affondando le radici nelle riflessioni filosofiche di almeno due decenni — con la pratica di una giovane artista di stanza a New York, ma nata in Florida (Venice, 1985) e originaria delle Filippine.
In cosa dunque riconoscere le ragioni di questo dialogo mai avvenuto, eppure pervasivo? Innanzitutto nell’importanza che l’artista attribuisce alla fisicità delle percezione e alla materialità insita nelle tecnologie digitali, una materialità stratificata, pellicolare, concettualmente palpabile. Trisha Baga immagina realtà fortemente immersive, racchiuse in unità temporali e sequenze video. Sono microcosmi dedalei, germinazioni autoctone dell’era post-digitale: installazioni multisensoriali da scoprire con gli occhi, talvolta con l’ausilio di “iridi aumentate” (le lenti 3D), generalmente attraverso il proprio corpo in movimento e, specialmente, per mezzo dell’udito. I confini tra virtualità e fattualità sono resi estremamente labili, in quanto oggetti appartenenti al mondo reale invadono i territori della proiezione: lo spettatore stesso, indossando le lenti stereometriche, partecipa attivamente a questo progressivo smarrimento dei riferimenti corporei.
Come dirà l’artista in conferenza stampa “il mio modo di operare è una ricerca all’interno del sé, attraverso oggetti frammentari”. La figura gotica e prometeica di Frankenstein, ricordata da Baga in questo contesto, assurge ad esempio par excellence di un’entità (e di un’identità) in costruzione. L’impressione che si può avvertire entrando in mostra è quella di immergersi in un’estensione planare densa d’ombra, satura di suoni e resa intermittente dal baluginio delle luci, dal rincorrersi di schermate che avanzano e arretrano nello spazio, e dal rifrangersi di riflessi colorati. Tra gli estratti di video-clip di Madonna, autoritratti in ceramica dell’artista o di icone del Rock & Roll, “dipinti” delineati in semi e gommapiuma, sfere stroboscopiche atterrate e ancora relitti di un’archeologia dei dispositivi tecnologici, l’immersione che Baga suggerisce oscilla tra l’esplorazione subacquea di un fondale postmoderno ed il viaggio in una metropoli di un futuro distopico. Come Dufrenne, Trisha Baga pare suggerire quale traccia per una narratologia del futuro l’ibridazione e l’apertura di frontiere sensoriali, ideologiche e mentali alternative, se non addirittura periferiche. Così, l’istituzione di una visione espansa nell’udito, nel movimento, nella sfera delle emozioni. Lo stesso rapporto che l’artista intrattiene con i media sembra supportare una sorta di sistematica remediation dei medesimi, tale per cui, nuove tecnologie e mezzi più tradizionali — dall’impiego del 3D, alle finestre di dialogo sino ai filmati in due dimensioni e alla pratica della pittura e della ceramica — si avviluppano nel generare organismi ibridi, aventi una temporalità diplopica e allarmante. In fondo, la fisicità stimolata dalle proiezioni tridimensionali, richiama da vicino , attraverso i colori, la disposizione prospettica dei piani e l’alternarsi delle luci, tanto l’esperienza pittorica quanto quella scultorea. L’elemento linguistico, amplia ulteriormente suddette tensioni riconducendole nell’alveo del Web 2.0, del paratesto e di un compulsivo rigenerarsi delle parole.
Ciò a cui Baga sembra mirare, come evidenziato in conferenza stampa da Fiammetta Griccioli, risulta essere “la fisicità e la tridimensionalità della proiezione, unitamente alle relazioni che si instaurano tra le proiezioni video e lo spazio fisico. Ciò ha portato l’artista, nel corso del tempo, a lavorare con la tecnologia 3D — seppur in una versione low tech — sovrapponendo all’interno delle sue installazioni filmati tradizionali a proiezioni 3D, le quali divengono degli elementi live all’interno della narrazione. Grazie a queste ultime lo spettatore diviene consapevole del proprio ruolo e della propria presenza nello spazio”.
Come sottolinea la medesima curatrice, le tematiche affrontate da Baga risultano di cogente attualità, sia per quanto concerne le questioni di genere e di superamento del genere, sia relativamente all’ambiguo connubio tra uomo e tecnologia: “La questione dell’identità di genere, i cataclismi climatici, ma anche quei fenomeni scientifici destinati a segnare il nostro futuro, tra i quali le manipolazione del DNA, sono tra i temi trattati dall’artista. Trisha Baga utilizza con grande disinvoltura la tecnologia e i linguaggi contemporanei, da un lato per comprenderne gli effetti sulla nostra realtà, dall’altro per rivelarne i meccanismi ed i limiti, creando ovunque all’interno dei sui lavori video una stratificazione di immagini, parole e suono”. La presenza del corpo, nella sua dimensione fisica, percettiva ed identitaria, rappresenta inoltre una sorta di fil rouge all’interno del percorso espositivo: “Un altro tema cardine del lavoro di Trisha è costituito dalla riflessione attorno al corpo, come il titolo della mostra suggerisce. Abbiamo deciso insieme all’artista di riunire cinque installazioni video che attraversano più di quindici anni della sua produzione. A partire dal primissimo lavoro “There is No “I” in Trisha” (2005-2007/2020), che realizza quando è ancora studentessa all’età di diciannove anni e che tuttavia contiene già in nuce la struttura dei suoi lavori successivi, ovvero la triangolazione tra lei stessa, gli oggetti di scena e la videocamera”.
Ancora, la natura tecnicamente intermediale e culturalmente erratica della pratica di Baga, origina entità stratificate nel tempo e inaspettate nei contenuti: “Un altro aspetto che abbiamo voluto sottolineare del lavoro dell’artista, forse meno conosciuto, ma altrettanto importante, è il lavoro da lei sviluppato con il medium della ceramica. Trisha Baga lavora con tale medium dal 2007: le sculture presentate in mostra spesso ricalcano oggetti altamente caratteristici della nostra quotidianità, quali possono essere cornici fotografiche, una stampante oppure un microscopio, venendo materialmente presentati come dei reperti archeologici del nostro presente. Il lungo corridoio che Trisha ha denominato “Hyphotethical Artifact” (2015-2020) presenta alcune figure simboliche del mondo dei media di oggi come la drag queen RuPaul e la rockstar Elvis Presley”.
In conferenza stampa è inoltre emersa l’importanza dell’allestimento espositivo— tema tra l’altro caro ad HangarBicocca — in relazione a quell’archeologia dei dispositivi di cui sopra si faceva cenno, come Lucia Aspesi ha chiarito: “L’allestimento espositivo richiama il modello degli allestimenti naturali e si caratterizza per un approccio classificatorio inconsueto, che pone in relazione l’idea di fossile a quella di dispositivo tecnologico di ultima generazione, creando così dei cortocircuiti temporali. La mostra pare raccontare un film attraverso i suoi oggetti, dove anche gli elementi tecnologici — come i proiettori, oppure il suono dei video — diventano dei veri e propri personaggi insieme alla ceramiche”. Dopo aver ricordato come il tema della sovversione critica del linguaggio, volta a denudare i meccanismi che regolano le relazioni individuo-macchina e individuo-genere, sia centrale nella poetica di Baga, Aspesi ha tracciato un’efficace panoramica dei lavori in essa presenti, sfiorando molteplici nuclei d’interesse. “La narrazione e il racconto, che costituiscono il cuore del lavoro di Trisha Baga, caratterizzano la natura della mostra. La stessa si apre con l’opera “Orlando” (2015-2020), un testo murale che riporta l’avvertenza di possibili errori di stampa di un volume scritto dal naturalista e scienziato William Beebe nel 1934, in cui Baga ha sostituito le parole “book” con “man” e “it” con “her”. Il lavoro è esposto nella parete d’ingresso della mostra, quasi a crearne un titolo fittizio, e risulta nuovamente riproposto, questa volta ribaltato, sulla parete di uscita, innescando da subito un meccanismo di trasposizione e mutazione tra generi e specie. Sono inoltre ospitati in mostra sei dipinti della serie “Seed Paintings” (2017) realizzati da Trisha Baga nel 2017 e composti da una serie di materiali organici, come i semi di sesamo e gommapiuma, che paiono evocare i pixel di cui il video si compone. E’ fruibile inoltre con gli occhiali 3D “Mollusca & The Pelvic Floor” (2018) che si configura in un insieme di narrazioni: da un lato vi è infatti il racconto dell’evoluzione del mollusco, e dall’altra si assiste ad una sorta di relazione interspecie tra Trisha e Mollusca, nome che l’artista ha dato alla sua assistente personale di Amazon, Alexa. Per Pirelli HangarBicocca l’artista ha realizzato una nuova installazione video in 3D dal titolo “1620” (2020), girata in occasione di una residenza di Trisha alle Asturie” e avente quale oggetto di riflessione un fittizio programma sperimentale di natura genetica, programmato per rispondere ad una presunta “malattia” degli Stati Uniti d’America, e ambientato nel luogo simbolo della leggendaria nascita dei medesimi, la Roccia di Plymouth.