Al termine della seconda edizione di Traffic – Festival delle anime gentili – 13/14/15 settembre 2019 – la redazione di ATPdiary ha intervistato i curatori Matteo Binci, Pietro Consolandi e Bianca Schröder, per conoscere più a fondo l’evoluzione e la realizzazione del festival in grado di coinvolgere performance, teatro, musica, laboratori e un progetto espositivo.
Lisa Andreani: Perché un festival anziché un progetto espositivo? Ci sono degli esempi storici dai quali avete preso ispirazione?
Il termine festival è arrivato in maniera naturale, sin dall’inizio sapevamo di voler creare un’atmosfera e una comunità estese su più giornate. Non siamo particolarmente attaccati alla terminologia, tanto più essendo un festival per le anime gentili è una capanna capace di dare il benvenuto; l’etimo di festivalis (dies) indica quei giorni in cui ci si riposa o si festeggia insieme. Traffic è una festa, un progetto espositivo, una partecipazione attiva, una simultaneità di accadimenti straordinari e ordinari, condivisione di storie e di cibo; in sunto, persone che giocano alla vita vivendo. Mostre, performance, letture di poesie, musica, laboratori e talk di varia natura: questo è per noi sintomo della volontà di interesse per l’interdisciplinarità e per un approccio diretto in prima persona.
Per quanto riguarda il passato non c’è un esempio singolo, prendiamo ispirazione da diversi eventi e festival dedicati a diverse discipline che sono nati e stanno nascendo in tutta Italia. Forse romanticamente Legarsi alla montagna, l’azione di Maria Lai svolta nel 1981 nel suo paesino di Ulassai, in Sardegna, in cui l’artista legò insieme agli abitanti tutte le porte, le vie e le case con circa 27 km di nastri di stoffa celeste, rappresenta metaforicamente lo spirito, il coraggio e il tipo di contatto che ci auguriamo possa svilupparsi anche qui.
Nel presente e per la zona specifica in cui ci troviamo, bisogna riconoscere invece un merito particolare ai festival Animavì e Blooming di Pergola e Terminalia.Cantieri nomadi, progetto che attraversa i territori marginali dell’entroterra marchigiano; pur con metodi differenti hanno a cuore un tipo di infiltrazione e promozione culturale simile a quella del nostro spirito. Un importante esempio affine alla nostra filosofia, vicino sia nello spazio che nel tempo, è il Festival dell’arte contemporanea di Faenza che dal 2008 al 2011 ha portato nella cittadina romagnola i più grandi nomi del settore, per quanto il nostro approccio sia molto più rivolto agli artisti emergenti, in linea con il territorio, cercando di fondere maggiormente l’arte contemporanea ad altre discipline. La nostra è più – come suggeriva la stessa Angela Vettese – una “sagra” dell’arte contemporanea, nel cui pentolone cerchiamo di vivere, altrimenti ci saremmo chiamati “Festival dell’Arte Contemporanea di San Lorenzo in Campo”, che suona un po’ assurdo. Il nome “Traffic – Festival delle Anime Gentili” viene dall’idea di creare un movimento e una predisposizione a imparare dal contatto con l’altro.
Andando indietro nel tempo, nel paesino di Monteciccardo (ancora più piccolo di San Lorenzo in Campo), si è svolto dal 1988 al 1994 il premio “Borderline” che ha dato origine anche a una piccola collezione in cui si trovano opere di Hidetoshi Nagasawa, Paolo Icaro e Claudio Costa – tra i fondatori del premio e da una cui poesia abbiamo tratto il titolo della mostra dell’anno scorso – ma anche Paolini, Merz, Spalletti e Enzo Cucchi…
Geograficamente più lontani, concettualmente meno, si potrebbero citare anche i festival europei di Fluxus, in cui gli artisti si ritrovavano insieme alla ricerca di uno zeitgeist, contaminandosi a vicenda tra musica, performance e arte visiva: i festival sono stati un continuo laboratorio per gli artisti Fluxus, dal contatto personale nascevano idee e opere. Questo è probabilmente il senso più prezioso della condivisione delle giornate “festive” che vorremmo riuscire a generare a San Lorenzo in Campo.
LA: Come avete effettuato la selezione dei partecipanti in relazione al topic della creolità?
Il tema della creolizzazione non è stato scelto puramente per un nostro interesse teorico, ma a partire dalle riflessioni su quel che ci aveva lasciato la prima edizione: l’arrivo di tanti giovani artisti in un piccolo paese ha generato un clima vibrante e collaborativo. Una creolizzazione fra San Lorenzo e gli artisti invitati, perché se da una parte gli abitanti del paese sono entrati in contatto con pratiche e parole diverse, dall’altra gli artisti si sono confrontati con un pubblico attento e con il dover lavorare al di fuori degli spazi abitudinari, generando un incontro fertile, una ‘turbolenza’ per citare Glissant: dall’incontro tra due venti distinti non se ne genera un terzo in cui i due si fondono; piuttosto, mantenendo ognuno la propria essenza, sorge un cambiamento spontaneo, una vibrazione nuova che è la stessa “forza poetica del mondo”. Abbiamo invitato degli artisti seguendo questa logica da punti di vista diversi, per creare una mostra (e un festival) che potessero esprimersi su più livelli. Oltre a questo, è stato sicuramente fondamentale un lungo periodo di ricerca per individuare e creare una comunità di artisti che affrontassero già nel loro percorso artistico tematiche affini a quella della creolità.
Alcune opere hanno approcciato la questione in maniera diretta, ma la creolità non avviene solo fra due persone o culture: passa attraverso la terra, si intreccia con luoghi specifici o ecosistemi interi, è lo shock culturale che si genera nel cambiare città, paese, continente, nel tentativo di preservare le proprie radici. La mostra nella Ex-chiesa di San Francesco è per sua natura il centro del festival, il cuore da cui si dirama tutto il resto. Per Vento fuso Canto scisso abbiamo selezionato artisti molto diversi tra loro per background e pratica, in modo che ognuno potesse entrare in contatto con gli altri, trovando la vibrazione ideale per scatenare quella turbolenza poetica in grado di dar vita a cose nuove.
L’opera più esplicita nell’incoraggiare l’animo a viaggiare e incontrare realtà esterne è stata l’Invito al movimento di Giacomo Gerboni, che dalla collina di San Vito sul Cesano ha incorniciato con il semplice verbo “VAI!” la cima del Monte Catria, dietro cui tramonta il sole, risaltando sempre più durante le ore del crepuscolo. Daniele Marzorati ha portato nel cuore di San Lorenzo, nell’antica cisterna del Palazzo della Rovere, Déplacement: una riflessione fotografica tra luoghi distanti (Parigi e Shangai), i cui oggetti ed eredità coloniali vengono riportati sulla medesima pellicola, annullando distanze di spazio e tempo e ricomponendo secoli di imperialismo, esoticismo culturale, ibridazione e interpretazione, lavorando anche con alcune vetrine del Museo archeologico del territorio di Suasa che conservano una piccola collezione novecentesca locale di oggetti esotici africani. Dal punto di vista performativo invece la danzatrice e coreografa portoghese Teresa Noronha Feio ha presentato il primo capitolo di A tale for the rootless, progetto che si svilupperà nei prossimi anni e che è direttamente ispirato dalle idee di Glissant. Teresa è partita da un assemblaggio di tracce che risalgono alle decadi ‘60-’70, al fine di indagare attraverso il corpo la sua identità: il libro di poesie paterne Longinqua Hora, una foto regalata alla famiglia al termine di un lungo passaggio in Mozambico e le solenni sonorità canore recuperate del Coro Gulbenkian.
Questi progetti sono stati prodotti o adattati da una versione precedente specificamente per il festival, in dialogo con gli artisti, al fine di poter interagire profondamente con il luogo in cui agiamo e creare per il pubblico qualcosa che possa lasciare un segno e rimanere nella memoria.
LA: Avete percepito dei cambiamenti rispetto allo scorso anno?
Sicuramente sì, diciamo che se lo scorso anno il fattore di shock e novità è stato notevole, quest’anno il tutto è risultato naturalmente meno improvviso, più graduale, progressivo e per questo forse più vicino alla realtà locale. È stato bello notare un cambiamento a partire proprio da quelle persone che sin dalla prima edizione sono state più coinvolte: i bambini che si sono impegnati in un laboratorio più lungo e specifico, gli appassionati di teatro in paese – l’Associazione Spartito Libero in primis, le persone del Comune e Pro Loco e la gente venuta apposta da paesi e città circostanti. Siamo soddisfatti dell’obiettivo perché significa che stiamo riuscendo a crescere in maniera organica, inserendoci nelle tempistiche naturali del paese – tutt’altro che frenetiche – lavorando con l’ascolto e a partire dai riscontri della gente a cui offriamo il nostro lavoro in maniera, ça va sans dire, gentile.
Si è venuta a creare un’atmosfera positiva e di aiuto reciproco anche con i partner di Casa Sponge e Villa Tereze, oltre all’interesse di Provincia Pesaro-Urbino e Regione Marche, che ci auguriamo possa durare nel tempo, diventando una collaborazione culturale capace di rendersi responsabile della portata potenziale di un evento del genere. Un momento simbolico è stato Ventre e fuoco, la cena-happening pensata da Andrea D’Amore proprio per Villa Tereze, spazio con cui siamo entrati in contatto grazie all’interesse generato con la prima edizione: artisti e pubblico si sono riuniti in un giardino riscaldati da un falò, condividendo cibo proveniente dalle colline circostanti in maniera naturale, senza fretta. Così la prima giornata si è conclusa in maniera quasi rituale, con un momento di “raccoglimento” come suggerito dallo storico gallerista Pio Monti, presente al Festival.
Un altro cambio di ritmo, questa volta nel tessuto sociale, è stato dato dallo sviluppo del progetto di Pietro Ballero e Teresa Satta per il lavatoio pubblico del paese: Ciao, siamo umani strani ha mischiato la sensibilità degli artisti coinvolti a quella degli abitanti di San Lorenzo per dar vita a un’installazione semplice ma potente, che ha animato per i giorni del festival un angolo (in passato) molto vissuto dal paese, comunicativo per sua stessa natura, creando una connessione fra i luoghi pubblici e quelli privati e manifestando i pensieri e le percezioni di chi vive attualmente le case e le mura.
LA: Che significa per voi appartenere a “Luoghi”?
Oltre alla pura appartenenza di una persona a un luogo, abbiamo voluto spostare l’attenzione sulla contemporanea appartenenza di un luogo a una persona. Un dettaglio che sembra apparentemente quasi solo semantico, poco più che un gioco di parole, che è però importante; Derek Walcott nella sua poesia “A Far Cry from Africa” maledice il colonialismo inglese ma al contempo si rispecchia nella sua lingua, non è ancora mai stato in Africa ma sente al contempo di appartenerle e che l’Africa gli appartenga:
“Io, che sono avvelenato dal sangue di entrambi,
Estratto da [da Mappa del nuovo mondo, Adelphi, Milano 1992; Traduzione di Barbara Bianchi] –A far cry from Africa
Dove mi volgerò, diviso fin dentro le vene? Io che ho maledetto
L’ufficiale ubriaco del governo britannico, come sceglierò
Tra quest’Africa e la lingua inglese che amo?
Tradirle entrambe, o restituire ciò che danno?
Come guardare a un simile massacro e rimanere freddo?
Come voltare le spalle all’Africa e vivere?”[1]
I luoghi appartengono alla gente che li vive e che li porta con sé, viaggiano metaforicamente con il muoversi delle persone e sopravvivono alle generazioni: esiste una Grecia in Puglia, un’Italia in Argentina e Uruguay, un’Africa nei Caraibi, in Brasile e negli USA.
Per dirla con Glissant, vogliamo considerare la “Mondialità” un tentativo nel quale non appartenere a patrie esclusive, bensì a “Luoghi”:
[…] “Luoghi”, tempeste linguistiche, dèi liberi che non esigono di essere adorati, terre natie che avremo scelto, lingue che avremo desiderato, geografie tratte dalle terre e visioni che ci saremo forgiati. Tutti questi “Luoghi” diventeranno permanenti, entrando in relazione con tutti i “Luoghi” del mondo. È il sussurro di tutti questi “Luoghi” che conduce all’insurrezione infinita della libera immaginazione, alla Mondialità.[2]
E sentiamo la necessità di farlo in prima persona, dal “Luogo” dal quale scriviamo, ovvero da San Lorenzo in Campo. È impensabile pensare di sviluppare un intero festival in un luogo del genere senza intessere un vero dialogo con esso, è molto diverso dal concepire un progetto espositivo capace di viaggiare da una galleria all’altra, da un white cube a un altro e funzionare ugualmente. La proposta che abbiamo sviluppato avrebbe tutto un’altro senso trapiantata, per dire, nel centro di Milano.
LA: E ora?
Quello che desideriamo è ovviamente muoverci in avanti nella direzione tracciata con le prime due edizioni: vorremmo invitare altri artisti a lavorare direttamente sul territorio e continuare a dare possibilità di libertà e sperimentazione. Mettere sulla mappa di tante anime gentili San Lorenzo in Campo e i colli circostanti, perché possa crearsi una rete che si incontri qui una volta ogni anno. Quest’anno ci siamo accorti che può esserci un interesse e un supporto importante, e soprattutto che gli artisti dopo aver lavorato qui ed essersi immersi nello spirito del festival tornano in città con nuove idee ed energie, continuando a sviluppare anche relazioni nate durante questi giorni, anche tramite il potenziamento della nostra offerta di laboratori didattici, che ci piacerebbe espandere oltre ai soli bambini.
Vorremmo anche creare delle residenze teatrali e performative più lunghe, capaci di dare agli artisti le condizioni necessarie a sviluppare e presentare pubblicamente a San Lorenzo i propri percorsi: sarebbe un completamento ottimale del festival. A tal riguardo, invitiamo tutti a suggerirci possibili soluzioni e disponibilità – ospitare, ad esempio, gli artisti nelle case del paese sarebbe una cosa bellissima e coerente con il nostro spirito.
C’è molto spazio per tutti, anche perché la direzione artistica che questo esperimento sociale prenderà è dettata dalle sensibilità delle persone che ne contribuiscono, naturalmente. Saremmo molto felici di avere proposte autonome di collaborazioni su tutti i fronti e restiamo curiosi dei suggerimenti e sogni degli altri.
Dunque non abbiamo bisogno di stravolgere quanto già fatto, bisogna ovviamente migliorare tanto, limare le imperfezioni naturali in un festival giovane e ancora piccolo, ma va fatto con la consapevolezza che ci han dato i tanti sorrisi raccolti in questi giorni, con l’aiuto della gente intorno a noi e insistendo su questi temi cercando di raccogliere tutte le energie possibili intorno a tutto questo. La strada è questa, il paesaggio anche.
[1] https://giugenna.com/2012/06/21/derek-walcott-poesie/
[2] http://www.abitare.it/it/wp-content/uploads/2011/02/476_14-Glissant.pdf