Tracce visibili e invisibili ad Habitat Ottantatre

Intervista ai curatori
18 Gennaio 2022
Aubertin cerhio fiammiferi

Negli spazi di Habitat Ottantatre, coerentemente con l’indagine sul linguaggio performativo che ha proposto la diciassettesima Giornata del Contemporaneo, è visitabile fino al 14 febbraio 2022 la mostra Tracce visibili e invisibili.
L’esposizione è strutturata in due parti: una più storicizzata; l’altra, invece, per quanto fortemente collegata alla precedente, analizza tramite installazioni fotografiche e video, pratiche che insistono e stimolano l’aspetto relazionale nel contesto delle relazioni sociali umane di oggi.

Qui un’intervista a In Habitat, che ha curato il progetto.

Valeria Marchi: Come è nata l’idea del progetto espositivo Tracce visibili e invisibili? A partire da quali riflessioni sul linguaggio performativo si è sviluppata la proposta? Il contesto è quello della Giornata del Contemporaneo – che si è tenuta l’11 dicembre 2021 e come ogni anno è stata promossa da AMACI – ma immagino che l’idea della mostra sia nata prima: Habitat Ottantatre sembra avere una vocazione “performativa” fin dalla sua nascita. Sbaglio?

L’idea del progetto espositivo nasce da una riflessione sulla componente oggettuale che rimane dopo un’azione performativa e da un ragionamento sul “segno” lasciato da quegli artisti che si esprimono tramite performance. Da tale pensiero si sviluppa il concetto di traccia, intesa come documentazione visiva, necessaria per narrare questi processi postumi. 
Identifichiamo come “tracce visibili”, quelle basate sulla presenza fisica e mentale di pubblico e artista insieme, in uno spazio e in un tempo comuni. Questa è la parte più storicizzata della mostra costituita principalmente da poster storici, fotografie e documentazioni di azioni performative dagli anni ’70 fino al 2015.
L’altra parte di mostra, quella delle “tracce invisibili”, si sofferma invece su quei gesti che cercano di esprimere ciò che non si vede con gli occhi, in una dinamica strettamente relazionale. Sono esposti lavori di artisti emergenti che analizzano tramite installazioni fotografiche e video, l’influenza del singolo sull’Altro, proponendo l’immagine di un corpo-plurale
Il tema individuato per l’edizione del 2021 per la Giornata del Contemporaneo è quello della performing art, scelta per la sua capacità di catalizzare e di attivare relazioni e azioni che possano generare nuove forme di coinvolgimento di pubblici e aumentare l’impatto sociale del museo nella comunità di riferimento. Per noi è stato un pretesto per inserirci con coerenza nel tema dell’arte performativa e proporre le nostre riflessioni e ricerche.
L’associazione di promozione sociale In Habitat, che si è occupata della curatela della mostra, ha sempre posto un’attenzione particolare all’arte performativa. Quest’interesse nasce dall’identificazione della performance come un’azione creatrice di senso e di contenuto. Non unicamente un atto dell’osservare ma un’azione comunicativa e didattica tra due elementi, fruitore e opera, soggetto e oggetto dell’interazione. Questo approccio ci permette di lavorare su questioni sociali e politiche tramite la relazione diretta con il pubblico, ottenendo risposte immediate e senza filtri. 

Relazione nel tempo, 1977, stampa offset manifesto tratto dalla performance eseguita da Marina Abramović e Ulay il 7 ottobre 1977 alla Galleria Studio G7

VM: Mi pare di capire che dietro il percorso espositivo – visitabile fino al 14 febbraio 2022 – c’è una curatela collettiva da parte di In Habitat, l’associazione di promozione sociale che si occupa di arte contemporanea e che è costituita da diverse anime, tutte allocate presso il coworking Habitat Ottantatre. Mi raccontate chi siete e come avete regolato questa particolare modalità di curatela? 

L’associazione di promozione sociale In Habitat nasce a giugno nel 2021 tra le mura di Habitat Ottantatre, uno spazio polifunzionale dedicato all’arte e alla cultura. In Habitat APS offre servizi di progettazione, avviamento e sviluppo di attività culturali. Si occupa di ricerca, curatela e coordinamento di progetti culturali in tutte le loro fasi: dalla pianificazione, al monitoraggio, dallo studio strategico al coinvolgimento del territorio e della comunità. Sono presenti professionalità differenti e complementari tra loro che spaziano dal fotografo al videomaker, dallo storico dell’arte al giornalista, dal grafico al mediatore culturale museale, dall’artista all’art advisor. 

Il progetto è nato con l’avviamento di uno spazio di coworking tra professionisti del settore artistico e culturale, al fine di collaborare mettendo reciprocamente a disposizione le proprie competenze specifiche. Un approccio sinergico, funzionale sia al proprio lavoro che a quello in progetti partecipati. Questo processo di condivisione di informazioni, competenze e attitudini lavorative si rispecchia anche nei nostri progetti interni, come le mostre o gli eventi. In Habitat, in quanto soggetto giuridico autonomo, ha deciso di considerare anche le curatele come frutto di un lavoro e di un processo collettivo, mettendo da parte gli individualismi. 

VM: Una domanda per Collettivo Plurale – collettivo artistico e soggetto promotore attivo di In Habitat. Voi vi trovate in una posizione ambivalente in questo progetto: siete soggetto e oggetto dell’esposizione. Mi interessa in particolar modo capire che contributo avete dato alle fasi di progettazione della mostra e di realizzazione dell’allestimento. Quale il vostro ruolo di artisti all’interno del board curatoriale?

Ci piace guardare In Habitat come un altro modo per tentare di reificare i nostri principi: in questo caso specifico abbiamo strutturato tutta la parte di mostra relativa a Tracce invisibili, che “visibilmente” corrisponde al cuore della nostra pratica. Per quanto riguarda l’allestimento abbiamo semplicemente offerto anche il nostro sguardo, ma il lavoro è stato di squadra con il resto del team presente: volevamo un allestimento pulito che non dividesse realmente in due le mostre, ma le accorpasse.

Giuseppe Chiari
Nello spazio di mezzo, performance, Andrea Bonetti e Chiara Ventura PH Genadi Rangelov Dimitrov

VM: Mi piacerebbe conoscere più da vicino la natura duplice della mostra soprattutto analizzando i materiali storici e i prestiti che siete riusciti a ottenere, penso ai collezionisti Alberto Geremia, Simone Carcereri e all’Associazione AGIVERONA. Possiamo approfondire le documentazioni inerenti Giuseppe Chiari, Peter Moore, Michele Zaza, Ulay, Ulla von Brandenburg, Giovanni Morbin e John Cage, oltre che di Bernard Aubertin e il lavoro con i fumogeni di Armando Marrocco. 

La duplice natura della mostra, per quanto l’una fortemente relazionata all’altra, vuole essere un tentativo di affiancare artisti storicizzati con artisti emergenti, per strutturare un dialogo fatto di rimandi, contaminazioni e sviluppi. 
I prestiti provenienti da AGIVERONA, Alberto Geremia e Simone Carcereri, propongono artisti storicizzati e riguardano la parte di mostra individuata come “tracce visibili”. L’altra, le “tracce invisibili”, tramite installazioni fotografiche e video, vuole stimolare l’apertura a un’idea di relazione intesa come atto volto all’unità in un contesto sociale, suscitando una riflessione profonda sull’influenza che le nostre azioni possono avere sull’Altro. 
L’opera di Bernard Aubertin è espressione del suo periodo artistico più significativo risultato anche  delle contaminazioni con il Gruppo Zero. Si tratta dell’esito di una performance, peraltro testimoniata da scatti fotografici coevi, in cui l’artista accende un circolo di fiammiferi la cui combustione rimane negli effetti materiali della modificazione della materia. Il fuoco diviene colore pittorico; non è l’artista a bruciare qualcosa, bensì il fuoco a trasformare la realtà e autore e pubblico sono parimenti spettatori della trasformazione. 
L’opera Michele Zaza è del 1979 e appartiene al ciclo neo-terrestre, costituita da 5 scatti in cornice d’artista. Iconica espressione dell’universo intimo e magico che lega uomo e terra e che si concretizza nello spazio grazie al mezzo fotografico e alla plasticità che una narrazione di oggetti e persone (la famiglia dell’autore) riesce a trasmettere. Il corpo è la dimensione della rigenerazione, di sé, dell’ambiente e delle relazioni. 
La tela colorata con combustione di fumogeni di Armando Marrocco risale al 1979 e costituisce un frammento fisico di una performance messa in atto presso la Galerie Senatore di Stoccarda presso la quale l’autore ha percorso fisicamente un’intera stanza tappezzata di tele vergini gettando fumogeni accesi e fornendo al fuoco la possibilità di tracciare causali e libere espressioni di combustione della materia. L’autore ha poi estratto questi frammenti ricomponendo il caso in una nuova dimensione conscia e agita. 
Lo scatto fotografico di Ulla von Brandenburg dal titolo Ghosts è espressione performativa della poetica dell’autrice che mette in relazione psicanalisi, teatro e fotografia allestendo una scena, uno scatto “familiare”, che soverchia la tradizione attraverso la scelta di popolare lo spazio con dei fantasmi o, meglio, con un sostituto iconografico dell’essere fantasmi. 
Il cuore del lavoro da Dinamismo Interno – Ibrdazione 8 di Giovanni Morbin è una piccola stampa fotografica descrittiva di una sua performance del 2012. Mentre il pubblico attende che qualcosa accada nel luogo convenuto (località Sorte, Verona, cippo commemorativo della morte di Boccioni) l’artista sfreccia davanti a loro a bordo del treno che conduce a Trento. Solo pochi l’hanno visto, molti hanno la sensazione che nulla sia accaduto e/o d’aver perso qualcosa: dopo cento anni dalle teorie boccioniane guardiamo ancora in modo prospettico centrale.
Dopo più di un’ora Morbin incontra il pubblico nella sala d’aspetto della stazione FS di Rovereto tra quelli che vanno e quelli che restano. 

Giovanni Morbin
Ulla Von Brandenburg
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