Il profilo è familiare, la vegetazione inflazionata, la torre aragonese obbligatoria a un occhio educato: un’isola deserta, da qualche parte a largo delle coste sarde, ospita ISLAND (sculptural mirages / a psycho exhibition), un progetto curato da Enrico Piras e Alessandro Sau, insieme Montecristo Project. Un’occasione per riflettere sul valore dell’arte e del suo display, tra icona e natura.
Island è un altrove: altro che nella verità, secondo le poliedriche possibilità della finzione e nella statutaria divisione con la realtà. Neppure esiste, si direbbe. Perché se anche fosse localizzata, se pure la si raggiungesse con la fatica che qualsiasi isola richiede, questa frastagliata composizione vulcanica nel Mediterraneo rimarrebbe un miraggio. Almeno nella sua nuova e temporanea configurazione: cinque oggetti, scultorei come i loro piedistalli, in una narrazione preziosa come lo spazio che li ospita.
Come in una classica leggenda di tesori, Montecristo Project interviene sull’isola facendola diventare ciò che si merita di essere: allegoria, contrasto, riflessione. Parabola di una terra, quella sarda, spesso poco attenta al potenziale immaginifico e culturale del suo territorio; poi critica all’arte contemporanea, a cui non serve più il cubo bianco o etichette professionali, piuttosto – e qua letteralmente – derive intelligenti e fluide.
La logica è sovvertita a partire dalla sua fruizione: impossibile raggiungere Island se non si è invitati, problematico se non si è accompagnati. Ma arrivano le immagini di questa narrazione rapsodica, di un’estetica, per contrasto, tutt’altro che naturale. Un groviglio di tessuto e schiuma finge di essere materia vulcanica, ammasso apparentemente informe che ha tutto dell’icona che dissimula nel titolo: compattezza, compostezza, sensualità (C.Fernandez-Pello, A futile attempt at producing cult objects, 2017). Come Bodybuilding (A.Rodriguez, 2018) metafora del corpo vuoto, fuori vetro e gelatina d’argento, fragile come la virilità dei corpi cui allude. Ammiccano entrambi al corpo dell’isola, sono interpretazione della materia vulcanica l’uno, dell’opacità del miraggio l’altro; sono segni estranei, totemici tra le pale di fico d’india.
Questo nuovo animismo si fa artificiale in French curve (K. Gil 2017), dove due riproduzioni del leone Peugeot in acciaio e argento si ruggiscono l’un l’altra gli anacronismi estetici di cui sono portatrici, figlie di due generazioni differenti della medesima casa automobilistica. Una diatriba che si risolve Veloce come luce (A.Vizzini, 2018), una scultura sensualmente futurista, bianca di resina smaltata, immagine di una perizia umana o forse calco di una raffica di maestrale, là in mezzo nel Mediterraneo.
Ogni miraggio ha il suo piedistallo, pensato per sorreggerlo e valorizzarlo. Ogni immagine ha il suo scopo documentale e narrativo, come unica opportunità di racconto. Infatti la cura è tanta, pur venendo da artisti, ed è rassicurante; ma Montecristo è un progetto trasversale in grado di essere più esperienze sotto un’unica identità. Island è solo la prima mostra collettiva, naturale prosecuzione di una programmazione sperimentale nata con l’esigenza di prendersi cura di altri artisti e ridare dignità a maestri dimenticati troppo velocemente.
Segue una conversazione con Enrico Piras e Alessandro Sau (MP).
Stefano Mudu – Island (sculptural mirages) è l’ultima tappa di un percorso progettuale che nasce con Occhio Riflesso (2015), il momento inaugurale della vostra collaborazione ma anche, direi, di uno studio sul display dell’arte contemporanea. Sembra quasi una riflessione sulla potenza del genius loci. Con riferimento a entrambe le occasioni progettuali, come avete maturato artisticamente il rapporto tra il fare arte e la sua esposizione nella complessità di un sito.
MP – Crediamo che il discorso si concentri più propriamente nel rapporto tra il fare arte, esporla e documentarla, cioè nella sua riduzione o trasformazione in nuova immagine. Si tratta di un processo complesso che rimette in gioco un insieme di valori simbolici relativi all’immagine stessa, soprattutto economico-politici. Così, esporre e fotografare un’opera nelle bianche mura di una galleria di chiara fama, è già di per sé la creazione di un nuovo significato visivo che comprende tanto l’opera esposta quanto la ridefinizione del suo valore linguistico e simbolico. Il rapporto tra sfondo e rappresentato è ricorrente in tutta la storia dell’arte e gli artisti son sempre stati molto attenti al nesso dialettico in grado di rappresentarlo. Per esempio: se l’architettura classica veniva dipinta con lo scopo di legittimare storicamente ed eticamente il ‘rappresentato’ (pensiamo allo sfondo architettonico della Scuola di Atene di Raffaello), ora questo ruolo appartiene agli installation shot sotto la forma del white-cube.
Buona parte del nostro lavoro è un’indagine visiva su questo concetto cardine della rappresentazione. Esiste chiaramente una componente che riteniamo legata al luogo, ben visibile in OR, ma non è mai il presupposto dell’opera, quanto uno sfondo appunto, la cui complessità non ha a che fare con i lavori che vi sono esposti se non al livello di un’ulteriore rappresentazione dell’opera. In questi termini, come abbiamo specificato in altre occasioni, non sono i lavori a essere prodotti per un determinato luogo, ma è quest’ultimo a venire scelto per ospitare e amplificare l’immagine dell’opera.
SM – Ho trovato che tutti i lavori di Island ambissero, riuscendo negli intenti, a creare immagini iconiche. Ho parlato di nuovo animismo tanto per l’impatto totemico che risulta dal dialogo della singola opera con il piedistallo quanto per l’immersione in un ambiente naturale connotato come quello dell’isola. Credo che questa valutazione possa tanto ingenuamente derivare dalle caratteristiche insite nella scultura come disciplina, quanto dal valore di un’ottima documentazione. Ma se penso all’icona mi viene in mente anche un valore didascalico, allegorico. Credete in questo potenziale? Quanto valore contenutistico rimane oggi all’immagine oltre il suo potere estetico.
MP – Quest’idea animistico-totemica è molto coerente con quelle che erano le nostre idee per la mostra. Come hai notato molti di questi lavori si prestano a un’immagine quasi cultuale, vuoi per le sembianze o per i materiali utilizzati, oltre che per i plinti che abbiamo realizzato. La posizione delle opere sull’isola, e il loro essere isolate (!) le une dalle altre, è legata alla volontà di disseminare questi idoli nel paesaggio come a protezione del territorio, delimitando uno spazio sacro e, appunto, non visitabile e accessibile. Questo approccio iconico si riflette come hai giustamente notato anche nella documentazione delle opere.
L’idea di animismo ha molto a che fare con il modo in cui oggi concepiamo lo spazio espositivo: una lettura possibile del white cube è, per esempio, quella di uno spazio animistico-magico nel quale gli oggetti mutano nominalmente e sostanzialmente, divenendo arte. Il nostro punto di vista è opposto: è l’opera a legittimare lo spazio e non viceversa. Solo in questo senso l’immagine possiede un valore contenutistico oltreché estetico: è una forma profanatoria nel ribaltamento dei valori.
SM – A proposito di icone e parlando di territorio; tanto personale apprezzamento per il vostro lavoro deriva dal saper manipolare un’identità difficile come quella sarda. Che si basa su figure inviolabili che voi, tra le altre cose, approcciate calandole in nuove estetiche. Anzi parte del vostro lavoro si configura come un omaggio a figure ibride troppo velocemente dimenticate pur nell’indubbio lascito culturale. Mi riferisco a Ugo Ugo, storico direttore della Galleria Comunale d’Arte Moderna di Cagliari il cui recupero della collezione è avvenuto, parziale, solo recentemente. Che rapporto avete con questa memoria, con quali figure lo avete sviluppato e perché?
MP – Uno dei privilegi di vivere e lavorare in Sardegna è quello di poter entrare in contatto con artisti fenomenali quanto poco conosciuti, come ad esempio Ugo Ugo e Tonino Casula.
Il nostro vuole essere un omaggio a queste figure ma, oltre a calarle in nuove estetiche, ci proponiamo di attualizzarne le storie per mostrare come il loro lavoro abbia anticipato dibattiti teorici o temi formali ormai ricorrenti. Se prendiamo come esempio Ugo Ugo (1924) ci troviamo davanti a una figura inedita. Si tratta infatti di un artista che, a partire dagli anni ’60, è stato direttore di un’istituzione artistica pubblica come la Galleria Comunale d’Arte di Cagliari, che ha diretto e curato fino al 1985. In Ugo Ugo: the artist as director (una lunga intervista con gli artisti Enrico Corte ed Andrea Nurcis), abbiamo ricostruito la sua storia che giaceva dimenticata. Questa vicenda è fondamentale in quanto Ugo è riuscito a costruire, grazie a un incredibile lavoro, una collezione di arte contemporanea che comprende opere di Paolini, Castellani, Griffa, Riley, Bonalumi, Gilardi, Agnetti, solo per citarne alcuni. La sua collezione, dopo l’inspiegabile allontanamento di Ugo dalla Galleria Comunale nel 1985, è stata accantonata per decenni nei magazzini della Galleria (periodo nel quale diverse opere, come lo Spazio elastico di Gianni Colombo, sembravano perdute). Solo recentemente la Galleria ha deciso di esporre nuovamente una collezione che, secondo noi, è l’opera più incredibile mai realizzata da un artista per la sua comunità. Ed è anche per questo che la vita e il lavoro di Ugo rispondono alle domande che ci poniamo nella ricerca del ruolo che un artista può ricoprire, come quello del curatore-direttore.
Tonino Casula (1931) è per noi il più grande artista sardo vivente e rappresenta ancora una possibilità di dialogo con la generazione dei grandi Nivola, Sciola e Maria Lai. Il suo lavoro dalla fine degli anni ’80, come pittore prima e come artista digitale poi, è l’esempio di una ricerca che dà frutti sempre meravigliosi quanto più va avanti. Con Casula abbiamo realizzato due mostre. Nella prima abbiamo esposto delle sculture che hanno ospitato le proiezioni dei suoi video (poi diventate lavori a sei mani come immagini fotografiche) insieme a una proiezione dei suoi cortronici in una serra abbandonata – di cui abbiamo goduto solo noi e Tonino –. La seconda mostra è stata invece sull’isola, dove abbiamo esposto quelle sculture fotografiche in uno spazio appositamente costruito per ospitarle – la mostra è stata poi riproposta alla galleria Colli di Roma, con il contributo curatoriale di Daniela Cotimbo –.
Mostrare gli ultimissimi lavori video di Tonino in un’istituzione museale (come dovrebbero essere visti e con le tecnologie 3D che nessuno ha ancora fatto) è il nostro sogno nel cassetto. Anche solo per creare l’occasione di fargli sentir dire dal pubblico una cosa che non tollererebbe: Tonino, questo video è bellissimo!.
SM- Siete esempio di un dibattito aperto e controverso circa i ruoli fluidi di artista e curatore. Penso a The artist as curator – an anthology, edito da Elena Filipovic per Mousse o al workshop di poche settimane fa tenuto in Quadriennale a Roma sempre da Filipovic con Pierre Bal Blanc e James Richards. Che rapporto avete con questa ibridità anche in riferimento ai vostri progetti personali?
MP – Il dibattito che è nato intorno ai ruoli di queste figure ci interessa particolarmente, non solo in ambito contemporaneo. Cerchiamo soprattutto di estendere la definizione di queste professionalità (e delle loro competenze) a momenti storici più stratificati. Il modo in cui ci posizioniamo in questa dialettica passa attraverso una categoria non definita e che può funzionare solo a patto che rimanga tale, una nameless science, dal nome di uno dei recenti trending topics del discorso contemporaneo. Quello che ci chiediamo, anche prendendo il lavoro di Ugo Ugo come riferimento, è: in che modo l’approccio di un artista nel curare-dirigere uno spazio può creare una diversa prospettiva? Le opere che presentiamo sull’isola sono l’esempio di lavori autonomi, non site-specific, non relazionali, ma sculture, pitture o video; espressioni che si autodeterminano, formalmente parlando. Cioè noi non proponiamo a un artista un tema o uno spazio su cui lavorare, al contrario lavoriamo a partire dalla sua opera. Negli ultimi decenni (fino al recente dibattito di The artist as curator, appunto) il discorso sembra essersi invertito; l’artista che lavora sul tema-progetto del curatore ci interessa assai poco.
Il lavoro svolto da Marcel Duchamp come curatore-allestitore (pensiamo alle mostre americane di Brancusi) è un nostro riferimento nel modo di trattare spazio e opere ma, volendoci rifare a un precedente framing più lontano nel tempo, potrebbe rientrare il quadraturismo barocco come costruzione spaziale artistica di una dimensione architettonica che ospita l’opera. In quest’ultimo caso però, era l’opera a legittimare lo spazio e non il contrario, per cui ci troviamo agli antipodi rispetto a Duchamp e al suo uso dello spazio. Se, nel contemporaneo, è il contenitore a determinare il valore del contenuto, allora un lavoro sullo spazio diventa stringente e necessario; oggi il relativo si assolutizza nella forma di un framing estetico-sociale, mentre a noi interessa che sia l’opera come possibile orizzonte di verità ad autolegittimarsi e rendersi autonoma.
Con OR abbiamo iniziato a occuparci direttamente della cura (in senso esteso) delle nostre opere, seguendone contestualizzazione, allestimento e documentazione. Con Montecristo Project, esponendo opere di altri artisti, è diventato nostro il ruolo di costruttori di spazi, o di supporti (come nel caso dei plinti-sculture per Island) nei quali le opere vengono ospitate. In questi termini gli oggetti di scena, piedistalli o piani-tele che costituiscono lo spazio, sono nostre opere a due o quattro mani e insieme alla documentazione rientrano a pieno titolo nel discorso della nostra ricerca. Montecristo Project è dunque una psycho-institution: cioè non è mai uno spazio dato a priori, anzi è una costruzione formale, narrativa, concettuale che nasce e si sviluppa come progetto artistico. Crediamo che questo possa caratterizzare il nostro approccio alla curatela in maniera singolare e differente rispetto a una metodologia convenzionale.