
Due mostre complementari che s’interrogano sull’esigenza, quanto mai contemporanea, di un equilibrio tra l’uomo e la natura prendono corpo negli spazi annessi a Villa Rospigliosi a Prato e alla galleria ME Vannucci di Pistoia. Rispettivamente Ad naturam (fino al 23 giugno) e ri-NASCIMENTO (fino al 28 luglio), a cura di Marina Dacci, instaurano così un dialogo continuativo, e allo stesso tempo apparentemente ossimorico, in cui gli ambienti di una villa toscana con sottobosco e giardino all’italiana compenetrano idealmente nelle ruvide e suggestive architetture industriali della galleria. Attraverso il recupero di uno stato di purezza percettiva da una parte e l’assorbimento di vibrazioni di un’energia vitale dall’altra, si viene così a riscrivere il nostro rapporto con l’ambiente, si creano nuove connessioni in un mondo in cui l’uomo e la natura coesistono in armonia. Questa riflessione diventa un processo di metamorfosi universale, dove ogni elemento, ogni opera, contribuisce a un rispecchiamento continuo e unificante. Superato il vialetto d’ingresso e giungendo in prossimità di villa Rospigliosi, ci immergiamo fin da subito nel prato in cui sono posizionate le sculture dell’artista Antonio Fiorentino (Barletta, 1987), qui invitato dall’associazione ChorAsis a rapportarsi con la natura del luogo attraverso la mostra personale Ad naturam. Trattasi di tre forme di corpi umani realizzate con elementi vegetali (Untitled, 2023), le cui teste sono radicate nel terreno dal quale sembrano nutrirsi, come delle piante. Evocando la simbiosi tra uomo e natura, le opere suggeriscono un ciclo vitale di fotosintesi che esprime la dipendenza reciproca e la fragilità di questo equilibrio. La luce del sole di una tiepida mattinata di maggio li riscalda, come se prendessero vita sotto i nostri occhi, respirando all’unisono con l’ambiente circostante. Proseguendo all’interno, un gruppo di cianotipie (Selfportrait all’alba #1 e #3, 2023; Selfportrait #1, 2023; La notte, 2023) ha catturato quella stessa luce solare in diversi momenti della giornata a cui il volto dell’artista si è sottoposto. Le opere sono appese alle pareti, o incastonate in preesistenti rientranze, alcune disposte a dittici quasi volessero assurgere a pale d’altare; la candela della scultura antropomorfa Insomnia (2022) sembra per questo voler rendere loro omaggio. Trapelando dal lucernario dell’ultimo ambiente, probabilmente un tempo adibito a deposito degli attrezzi agricoli, la luce irradia ancora una volta le opere qui disseminate. Il pavimento è cosparso di foglie e si ha come l’impressione che le fronde degli alberi nel giardino da poco superato si siano lasciate trasportare all’interno da una folata di vento. Eppure, tutto è immerso in quell’apparente staticità in cui la natura da sempre e silenziosamente progredisce. Come presenze archetipiche, una serie di cinque maschere che condividono il titolo MASK (2021-2022) sembrano emergere dalla parete. Realizzate con resina, sale, becchime e sabbia, dunque in materiali organici, simboleggiano una perfetta sinergia tra architettura e natura. Quasi volessero essere indossate, le maschere sembrano evocare l’idea di un antico rito propiziatorio attorno al Magic tree (2023). Quest’opera, con i suoi rami intricati e le corna di animale – forse dono di un precedente offertorio – si erge dal pavimento della stanza, come un totem che richiama l’attenzione e l’energia dei presenti. È un atto di immersione nell’ancestrale quello che siamo chiamati a compiere, in nome di una connessione con le forze invisibili che regolano il ciclo della vita, cercando di ristabilire un equilibrio perduto. La stanza è a tutti gli effetti un santuario, la natura è la sua divinità e noi ne siamo i fedeli.


La porta a vetri della galleria ME Vannucci di Pistoia, con il suo affaccio sull’esterno, porta avanti la presente narrazione in un proseguo più che mai “naturale” con la mostra ri-NASCIMENTO. Come guardiani di un antro, oltre il quale la nostra identità è chiamata a un mutamento, ci accolgono due sculture senza titolo di Antonio Fiorentino (2023), ulteriormente scarnificate nella loro essenza antropomorfica. Un’indicazione di ciò che ci attende all’interno si manifesta nel richiamo alla maschera, rappresentato dall’opera di Nazzarena Poli Maramotti (Montecchio Emilia, 1987), Uomo con la barba (2023). Questo volto in ceramica, privato dei suoi connotati fisiognomici, tende a dissolversi sotto il nostro sguardo, sfidando la comune percezione della realtà e dell’identità. La maschera, privandosi dei tratti distintivi, suggerisce una perdita di individualità e una fusione con qualcosa di più grande e indefinito. E la ceramica, di contro, incurante rispetto alla sua rigida composizione, assolve qui all’obiettivo di restituire la precarietà della forma e dell’essenza. A fianco, in Sich Schmelzen III (Sciogliersi) (2011) Poli Maramotti dipinge un corpo come se stesse perdendo la sua forma, “sciogliendosi” per l’appunto, intravedendone così una parte naturale del ciclo della vita e non una semplice scomparsa, in un processo continuo di decomposizione e rinascita. Lo stesso albero dipinto in Metamorfosi III (2024) si fa emblema di una tale ciclicità. La polarità intrinseca a tale dinamismo si riflette nei lavori di Chiara Bettazzi (Prato, 1977), dove la fotografia cattura e restituisce la “bidimensionalità” di una volumetria di oggetti, spazi e movimenti, trasformandola in un atto simbolico. Opere come Still life (2019) e Spostamenti (2021) già nei titoli racchiudono questa dicotomia. Nonostante l’apparente immobilità, tutto è in costante movimento, e Bettazzi, in questo contesto, trascende il momento in cui le cose si immobilizzano, rivelandole semplicemente per ciò che sono. La mano che muove gli oggetti nella serie Spostamenti sembra assurgere ad un compito divino: sposta, combina, in sostanza decide. Le mani sovrapposte nella fotografia Il giorno in cui (2023) di Bianco Valente – Giovanna Bianco (Latronico, 1962) e Pino Valente (Napoli, 1967) –, aiutano a ripensare un sistema di relazioni in cui i gesti sono capaci di incidere sulle nostre esperienze, esplorando la trasformazione e la manipolazione come strumenti per creare nuove forme di comunità. Bettazzi, con la sua attenzione al movimento degli oggetti, e Bianco Valente, concentrandosi sulle dinamiche umane, mettono in luce l’importanza di intervenire attivamente per contrastare la frammentazione e l’isolamento. In Entitàrisonante (2009), la scrittura diventa un atto performativo che risuona con le stesse intenzioni, una pratica che mira a trasformare e rigenerare le connessioni umane, integrandole con le energie cosmiche. Questo approccio alla scrittura come codice di trasmissione non solo di pensieri, ma di vibrazioni ed energie universali, promuove un senso di appartenenza e comunità che trascende le limitazioni fisiche e culturali. Bertozzi & Casoni – Giampaolo Bertozzi (Borgo Tossignano,1957) e Stefano Dal Monte Casoni (Lugo di Romagna, 1961 – Bologna, 2023) –, attraverso la riproduzione mimetica in ceramica di avanzi di cibo, stoviglie in disordine, rifiuti e farmaci, conferiscono una nuova vita a ciò che è marginale, creando una sorta di “assemblage” che incorpora elementi della nostra esistenza ordinaria; celebrano così la capacità dell’uomo di trovare significato e bellezza anche nelle cose più semplici e trascurate. Questo, in linea con le opere precedenti, riafferma l’idea che ogni oggetto, indipendentemente dalla sua origine o condizione, può essere trasfigurato e riutilizzato per raccontare nuove storie. Piccola composizione con fauno (2011) sembra cristallizzare un momento in cui la natura mitologica – per la presenza della piccola figura appartenente alla classicità – e la realtà quotidiana coincidono, assieme al Tavolino emisfero con composizione floreale (2022), tripudio di “scarti” che riflettono la bellezza effimera della vita quotidiana e la capacità dell’arte di immortalare e nobilitare anche gli elementi più semplici e apparentemente banali del nostro vivere.


Una sospensione in cui si inserisce anche il lavoro di Silvia Listorti (Milano, 1987); per lei l’opera d’arte è un respiro del corpo, una manifestazione della materia che si concretizza attraverso un gesto quasi indotto dalla materia stessa. Nel respiro dell’ora (and all is always now) (2023) – titolo tratto da un verso di T.S. Eliot – evoca una meditazione sull’istante presente come punto di incontro tra il passato e il futuro; ancora un momento sospeso che si adagia sulla terra ma che aspira a un altrove ignoto. La valva che si apre è un elemento naturale che, pur radicato nella terra, è capace di elevarsi e trasportarci oltre la realtà tangibile. Come la sua serie Illocazione (2020), meditazione visiva che trascende il semplice atto del disegno. Sono spazi di riflessione dove la dimensione sonora s’irradia sul foglio in ogni tratto di grafite, come fosse una “sonata” su una partitura invisibile. Onde luminose sono quelle che si propagano dalla sottile linea dell’orizzonte tracciata sul muro con matite colorate da Serena Fineschi (Siena, 1973). La luce le colpisce nelle varie ore del giorno, mutandone continuamente le sfumature. Trovarsi al riparo nella convenzione (Geografia) (2024), emulando la crosta terrestre con un foglio di carta velina su cui sono visibili le pieghe – esito di un accartocciamento e fermato da una pietra serena –, invita lo spettatore a una riflessione sulla materialità e sulla stratificazione della percezione. La terra e il suo orizzonte si fanno veicoli di potenzialità, suggerendo la possibilità di esplorare nuovi confini della comprensione e dell’interpretazione del mondo che ci circonda. E in questa terra tutto è costantemente interconnesso. In (A Step) Out of Me (2017-2023), Cristina Gozzini (Firenze, 1960) esplora l’interferenza reciproca tra tutte le forme di vita e la loro continua rigenerazione. Attraverso l’uso di elementi naturali eterogenei, come tracce calcaree di foglie e vetri, l’artista riflette sull’impossibilità di controllare la materia e la sua resistenza alla plasmazione secondo la nostra volontà: un’ecosofia che allontana finalmente la visione antropocentrica del mondo, e che attraverso l’opera Teschio Fiorescenza (2022) diventa ancora più determinante grazie al coinvolgimento di un particolare tipo di fungo, i miceti, che solitamente penetra nelle radici delle piante creando un rapporto di mutuo beneficio. In questa parte finale della mostra, la terra acquista sempre maggiore pregnanza nelle opere di Elena Bellantoni (Vibo Valentia, 1975). Nella fotografia Terrena (2021), l’artista si adagia al suolo come per assorbire e accogliere le energie della terra, creando un’immagine di fusione e mimesi con l’ambiente circostante. Un gesto simbolico che rappresenta il corpo umano farsi un tutt’uno con la natura, come i miceti diventano parte integrante delle radici degli alberi. Bellantoni trasforma il suo corpo in un simbolo di memoria e continuità, facendo eco al concetto di trasformazione, che nei ghiacciai della Patagonia fotografati durante il loro attuale scioglimento in This is the end (2023) assume invece una prospettiva catastrofica. Un presagio che si espande e raggiunge il suo culmine nell’ultima stanza: in Pensate domani è la fine del mondo (2021), tratto da un frammento del film Nostalghia di Tarkovskij, una serie di donne indossano teste di corvo e reggono ciascuna una lettera formando insieme la frase ammonitoria. Un’istante che è pura rivelazione di un timore che finora ha scavato sottotraccia il duplice percorso di mostra, ma che solo alla fine diventa ineluttabile verità. Un morire per “ri-nascere”.


