Domenica 16 febbraio 2020 lo CSAC – Centro Studi e Archivio della Comunicazione dell’Università di Parma riapre i suoi spazi inaugurando il programma di mostre e residenze intitolato Through Time: integrità e trasformazione dell’opera che vede coinvolti gli artisti Massimo Bartolini, Luca Vitone ed Eva Marisaldi. Non avrebbe potuto esserci modo migliore per incominciare questo nuovo anno, dopo la chiusura del complesso dovuta agli interventi di restauro e manutenzione e la nomina di Parma Capitale Italiana della Cultura 2020. Per l’occasione abbiamo intervistato Francesca Zanella, presidente dello CSAC, e Massimo Bartolini.
Antongiulio Vergine: Through time inaugura la riapertura degli spazi dello CSAC in un anno che vede Parma Capitale Italiana della Cultura 2020, riconoscimento che porterà la città a godere di una grande affluenza. Quanto conta sensibilizzare il pubblico riguardo le attività che svolge un’importante istituzione come questa?
Francesca Zanella: Una delle “missioni” dello CSAC e dell’Università di Parma è quella di condividere gli esiti della ricerca con un pubblico ampio, non solo, quindi, con gli specialisti, o gli studenti, ma anche con chi abita il nostro territorio – e il nostro territorio, coerentemente con la vocazione della università, è un territorio globale. Potere contribuire al programma di Parma Capitale, un programma con un titolo importante come La cultura batte il tempo, è per noi importante, ed è anche un’ulteriore occasione per misurare le nostre capacità di comunicazione, interrogandoci costantemente sul senso del nostro lavoro. Per noi è stato naturale proporre nel Dossier di candidatura un programma incentrato sull’archivio inteso come patrimonio a disposizione di nuove ricerche.
A. V.: Massimo Bartolini, Luca Vitone ed Eva Marisaldi lavorano in stretta connessione con lo spazio in cui operano. Quando un artista si confronta con l’archivio, lasciate piena libertà o stabilite delle metodologie da seguire?
F. Z.: Abbiamo scelto di invitare questi tre autori che, pur lavorando sui luoghi e sugli spazi in cui sono chiamati ad operare o che scelgono come territorio di indagine, hanno modi di procedere ed esiti differenti. Per questo abbiamo deciso di non partire da precondizioni: abbiamo “aperto” il nostro archivio e lasciato ad ognuno di loro il tempo e il modo di esplorare, di cercare, perché ci interessa anche fare emergere differenti modi di intendere l’archivio come deposito, come stratificazione, come luogo della classificazione… E li abbiamo accompagnati in questo viaggio.
A. V.: Il fulcro del programma è quello di mettere in relazione gli artisti con la storia di questo luogo. Come è cambiata l’identità dello CSAC nel corso degli anni?
F. Z.: Nella storia dello CSAC il rapporto con artisti e designer è sempre stato un elemento fondante. Come archivio, che ha prodotto più di 100 esposizioni dal 1968 con il fine di restituire una riflessione critica a fianco dell’azione di preservazione, il colloquio con gli artisti è stato sempre un momento importante di confronto. Non è forse esatto parlare di cambiamento di identità, ma piuttosto di un costante aggiornamento, necessario per rispecchiare o “commentare” le nuove prospettive di indagine visiva o progettuale. Certo, la crescita dell’archivio, della entità e quantità del patrimonio raccolto in cinquant’anni, oggi impone anche una riflessione sui modi di gestire, ma soprattutto di condividere un tale bene. Una delle scelte è stata quella di creare uno spazio espositivo permanente, una palestra per l’indagine, per il racconto e il confronto. Una delle azioni che abbiamo avviato è stata quella di ricominciare a lavorare con gli artisti realizzando opere che siano l’esito di uno scavo all’interno delle collezioni. Un modo per riattivare l’archivio, offrendo nuove letture, ma anche e soprattutto realizzando nuove opere che si immergeranno nella nostra abbazia e che saranno commentate con tre libri monografici, concepiti insieme all’editore All Around Art come una contaminazione tra il genere del catalogo e quello del libro d’artista.
Through Time: integrità e trasformazione dell’opera ha coinvolto come primo artista Massimo Bartolini, la cui mostra On Identikit sarà aperta fino al 22 marzo 2020.
Antongiulio Vergine: L’archivio è un luogo affascinante perché incarna due aspetti totalmente differenti: quello della conservazione, e quindi della memoria, e quello della continua ricerca, che invece si rivolge al presente e al futuro. Era la prima volta che ti confrontavi con un contesto simile?
Massimo Bartolini: Il mondo archivio l’ho incontrato varie volte nel corso della mia attività artistica: ad esempio nel 1996 nell’ambito dei progetti Head n.3 e Head n.4: il primo consisteva in un suono (il jingle di switch on del mac) che innescava una luce ogni volta che si entrava in una biblioteca; il secondo prevedeva una sala ove degli assolo di musicisti venivano registrati e da ultimo ricomposti in un’unica musica che sarebbe stata poi per sempre suonata nella stanza. Altri esempi che posso citare sono il lavoro Desert Dance, dove un’architettura-libreria di soli libri tecnici conteneva all’interno una sala di lettura per una persona sola, e il Laboratorio di Storia e storie nel quartiere Mirafiori di Torino presso la scuola media “Alvaro-Modigliani”, le scuole d’infanzia ed elementare “Franca Mazzarello” e la adiacente Cappella Anselmetti. Lì il lavoro, così come in Bookyard, era incentrato sull’hardware dell’archivio e su come il suo modo di essere modificava i dati che conteneva. In On writing il lavoro si basa sui dati stessi, su come si combinano e su cosa c’è dentro di essi.
A. V.: I tuoi lavori nascono dalle relazioni che instauri con i luoghi. L’archivio, però, è evidentemente diverso da altri contesti di residenza. Come ti sei approcciato a questo luogo?
M. B.: Lo CSAC è una specie di scatola magica dove escono meraviglie da ogni angolo. Credo che l’eccitazione un po’ bambinesca di combinare insieme gli elementi sia la sensazione che ho vissuto con maggiore intensità e che ha guidato il mio lavoro.
A. V.: Come nasce l’idea di On Identikit? Come si è sviluppato il lavoro?
M. B.: Citando: quando colleghi due cose che non sono mai state insieme prima, il mondo cambia. Così è stato per il progetto On Identikit, in cui si è aggiunta la voglia di vedere cosa c’era “dentro” all’immagine di Luigi Ghirri. Nella fase preliminare del progetto, mi sono concentrato infatti sulla ricerca di tutti i dischi in vinile fotografati da Ghirri nella serie Identikit del 1979, dove l’artista restituiva un proprio “rtitratto” attraverso quello della propria libreria. I titoli dei vinili, quasi illeggibili sulla spina dei 33 giri, hanno provocato in me una curiosità da archeologo, così ho deciso di sfilare finalmente i dischi dalla libreria e di ascoltarli, rigorosamente su vinile, in un luogo ben preciso e in compagnia di qualcuno. Questo qualcuno è Lo Spirato di Luciano Fabro (1968-73), opera allestita in una delle cappelle nobiliari della Chiesa dell’Abbazia di Valserena, una scena che per me sta a metà tra un letto sfatto ed un letto posseduto, dove il corpo è allo stesso tempo presente e invisibile. La musica è nascosta dentro l’immagine di Identikit così come la figura è nascosta dentro il gesso de Lo Spirato. Con il lavoro On Identikit, vorrei fare incontrare l’essere invisibile e presente dello Spirato con l’essere, invisibile per natura, della musica, che risuonerà negli spazi della Chiesa.
A. V.: Perché hai scelto di focalizzarti proprio sulle opere di Luigi Ghirri e Luciano Fabro?
M. B.: Perché stare accanto a due grandi maestri ti migliora, o almeno dovrebbe.
A. V.: Nei tuoi lavori ricorri all’uso di diversi media. Quale rapporto, nello specifico, ti lega alla fotografia e alla scultura?
M. B.: Il fatto che apparentemente siano agli antipodi, e che nonostante tutto si cerchino sempre in continuazione.
On Identikit – Massimo Bartolini
Dal 16 febbraio 2020 – al 22 marzo 2020
Through Time: integrità e trasformazione dell’opera
CSAC – Centro Studi e Archivio della Comunicazione dell’Università
Abbazia di Valserena, Parma