L’inaugurazione della mostra di Thomas Braida – alla galleria Monitor fino al 28/2022 – ha per me coinciso con l’inizio della lettura di “The Weird and the Eerie”, ultimo libro di Mark Fisher, pubblicato pochi mesi prima del suo suicidio. Il testo è composto da una serie di brevi capitoli che, a partire da esempi cinematografici, musicali e letterari, mirano a individuare e descrivere le caratteristiche di ciò che può definirsi strano o inquietante nel mondo contemporaneo.
Tendiamo a leggere la realtà mediante strutture e categorizzazioni a noi familiari, è vero. Tanto più se queste sono il frutto di interessi e approfondimenti recenti. Eppure, a distanza di settimane dalla visita in galleria, continuo ad avvertire una curiosa sensazione di straniamento, che Fisher ricondurrebbe senz’altro all’azione di un oggetto weird.
Per l’autore inglese, weird è ciò che genera un senso di non correttezza: un’entità “che non dovrebbe esistere, o perlomeno non dovrebbe essere qui”. La stranezza è quindi ricondotta alla compresenza in un determinato ambiente di elementi che appartengono a dimensioni e contesti differenti, l’incursione di un mondo altro nel nostro.
Credo che le opere di Thomas Braida ricorrano costantemente a questa associazione di oggetti incongrui, sapientemente integrati nella rappresentazione. Dettagli di carattere soprannaturale, ribaltamenti di scala, sovrapposizioni di piani temporali e contesti eterogenei evocano scenari tra il perturbante e il grottesco, dove per grottesco si intende una particolare categoria di weird, il suo volto sardonico.
In Where the sun falls asleep, il sole assume la lucentezza di un monile, un oggetto seducente e brillante, il punto più luminoso della composizione; contemporaneamente si trasforma in una stella spenta, metallica, fredda e inerte, presaga di sventura.
Toblerone World War sembra invece ispirarsi alla Toblerone Line, un sistema di difesa dai carri armati eretto in Svizzera durante la Seconda Guerra Mondiale, che deve il suo nome alla celebre barretta di cioccolato. Nel quadro, all’apertura del grande paracadute e alla presenza di una maschera antigas in primo piano, si contrappongono un lacerto di bandiera (che riproduce chiaramente il logo del dolce svizzero, sepolto forse nella neve tra gli astanti) e un arto bionico: passato e futuro, realtà e finzione si sovrappongono in un contesto che, seppur verosimile, mostra evidenti contraddizioni interne.
Pisciatina ai laghi di Fusine e Francesco non ama tenere al guinzaglio il cane non rappresentano certo semplici scheletri, ma figure dotate di commovente ironia, più vitali e gaudenti dei vivi. Quel che resta di te ostenta invece un’apparente placidità, presto smentita dall’apparizione di un avambraccio tra le fauci della tigre, un soggetto di per sé inaspettato se si considera l’ambientazione entro cui viene inserito. In Till Death Do Us Part of Cerbiattini, l’immagine rasserenante del cerbiatto assume il carattere di una visione quasi soprannaturale, in un cimitero notturno che fa dell’animale un’apparizione fantasmatica.
È come se ogni familiarità con le immagini venisse elusa mediante l’introduzione di dettagli spiazzanti, capaci di rivelare simultaneamente il potenziale inquietante e umoristico di ognuna di esse.
Si ha sempre la sensazione che qualcosa sia fuori posto, ma le qualità formali e cromatiche delle composizioni affabulano l’occhio, occultando quello stridio di fondo che somiglia al canto di una sirena. Colori e forme assurgono allora al ruolo attribuito da Fisher ai sipari di Lynch o ai portali di Tarkovskij: passaggi, dispositivi liminali che generano “mondi stratificati” e che determinano l’irruzione di qualcosa proveniente da un altrove, abitato per l’occasione da scheletri animati, cerbiatti posseduti e grandiose barrette di cioccolato.