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Il lavoro di Theaster Gates vuole eliminare il gap tra arte e vita, impresa titanica che lo porta a sondare più pratiche e metodologie di lavoro, dalla scultura all’installazione, dalla performance agli interventi urbani. Tutto è volto all’inclusione totale e partecipata del pubblico, nell’intenzione di creare delle vere e proprie comunità culturali, cercando spesso la collaborazione di architetti, ricercatori, performers. In lavori a metà tra la scultura e il progetto urbano, molte volte Gate include oggetti di recupero, specialmente provenienti dai quartieri in cui egli è (o viene chiamato ad essere) coinvolto per la realizzazione di un progetto espositivo. Artsy lo ha posto nella classifica The Top 10 Living Artists of 2015, dicendo che Gate sa elegantemente bilanciare il successo commerciale con un’attività intrinsecamente coinvolta nelle lotte di classe, nello sviluppo urbano, nell’attivismo politico. I suoi lavori sono stati presentati in alcune delle manifestazioni d’arte più importanti al mondo, dalla Whitney Biennale (2010), alla dOCUMENTA del 2013, fino alla 56esima Biennale di Venezia, dove Gate ha presentato un’installazione che dava nuovo respiro a piastrelle, statue e a una campana provenienti da una chiesa di Chicago, recuperate prima della sua demolizione.
Tra le altre cose, Gates ha fondato, nel quartiere Greater Grand Crossing di Chicago, la no-profit Rebuild Foundation, di cui è direttore artistico: “To rebuild the cultural foundations of underinvested neighborhoods and incite movements of community revitalization that are culture based, artist led, neighborhood driven” (dal sito). Questa promuove lo sviluppo culturale all’interno delle comunità poco sviluppate, proponendo progetti in quartieri disagiati. A Chicago edifici precari sono stati ristrutturati e convertiti nelle Archive House e Listening House: la prima accoglie 14 mila libri d’architettura recuperati da una vecchia libreria e la seconda 8 mila dischi provenienti dalla chiusura della Dr. Wax Records. Gates insegna anche nel dipartimento di Arti Visive dell’Università di Chicago, in cui è anche direttore della sezione Arts and Public Life.
La Fondazione Prada di Milano ospita fino al 25 settembre 2016 la personale Tre Value dedicata al lavoro di Theaster Gates, a cura di Elvira Dyangani Ose. Al primo piano del Podium è stata ricostruita una ferramenta abbandonata: si trova un grande ripiano che, sulle due facce, espone tutti quegli attrezzi che si possono trovare in una ferramenta: viti, chiodi, martelli e martelletti, taglierini, fili di ferro, guarnizioni per caffettiere, prolunghe, metri, attrezzi da trapano, lampadine, … Al di sopra c’è un enorme cartellone color ruggine con scritto “True Value” da una parte, e “Hardware” dall’altra. Lo spunto iniziale non è invenzione, ma un luogo reale e situato a Milano nelle vicinanze della Fondazione Prada stessa. È la costante e sempre presente attenzione che Gates rivolge alle storie locali, ai modelli socio-politici e alle realtà culturali marginali. Poco più avanti c’è una libreria in cui sono stati posizionati i libri più importanti della formazione emotiva e culturale di Gates, messi a disposizione dell’artista medesimo. Di fronte a questa ci sono dei cestini di ferro arrugginito contenenti scope, rastrelli, spazzole di paglia, o altri utensili d’uso pratico. Su basamenti in legno di vario tipo ci sono delle sculture, quasi ancestrali nei loro colore e forma, primitive, compattissime. Sono quasi feticci magici, legati ad una dimensione rituale collettiva, di condivisione di credenze. I vari “strumenti” (“Hardware”) rimandano all’uso pratico che se ne fa, ad un immaginario lavorativo, meccanico o manuale, operaio. Ciò che vuole sollecitare Gates, però, è anche il rinvio alle persone che si servono di questi oggetti, alla fatica e alla costanza di lavori spesso marginali e poco retribuiti. Esporre in uno spazio d’arte istituzionale oggetti di tutti i giorni crea anche un ossimorico contrasto tra il milionario sistema dell’arte e il piccolo lavoratore domestico: ed è proprio qui che parte l’attività e il pensiero dell’artista, dalla rivalutazione di luoghi dismessi, dalla riqualificazione di aree poverissime, dalla partecipazione di persone bisognose e culturalmente diseducate. È come se i lavori esposti qui, o nelle gallerie con cui lavora, o nelle manifestazioni d’arte dove è invitato, fossero solo un rimando alla sua principale attività, o il significante che assume il significato della sua ricerca. Se tutto ruota attorno alla necessità di agire a livello sociale — come ha fatto al South Side di Chicago, a St Louis, all’Omaha o anche, in qualità di consulente, in città come Detroit, Akron e Gary, in cui le sue iniziative di ri-pianificazione urbana e politica si sono mescidate al suo intuito di ricerca artistica — il lavoro che poi presenta ne è il feticcio, il souvenir che ci consente di prendere atto del suo lavoro. Perché è un lavoro da attivare attraverso la nostra fruizione (da agenti e non da visitatori). Altro spazio coinvolto per questa mostra è la Cisterna, in cui c’è un lavoro esemplare di tutta questa ricerca: Graund Rules (2015), la ricostruzione di una pavimentazione ottenuta dall’accostamento di listelli di parquet provenienti dalle palestre di decine di scuole abbandonate dopo la diffusione delle politiche neoliberali che hanno smantellato il sistema educativo di Chicago. Questa attitudine trasformativa, nell’intenzione di riplasmare ciò che ha perso valore e funzione, sia nel pavimento, sia nelle scaffalature, sia nelle bacheche, sia nella libreria, non trasforma l’oggetto di base in sé, ma lo trascende lasciandolo intatto. È quello che Elvira Dyangani Ose definisce un’operazione basata su “segni immateriali”. Proprio grazie a all’esposizione di lavori in gallerie e fondazioni d’arte il messaggio di Gates si amplia: “Si dovrebbe parlare di una riformulazione dell’inimmaginabile come causa comune. Sarebbe un errore credere che la sua attenzione verso la rieualificazione urbana, il sociale e la blackness si limiti unicamente alle comunità nelle quali i progetti sono realizzati. Al contrario, i segni immateriali di Gates, tanto quanto gli oggetti che produce e le esperienze che fa vivere, sono essenzialmente una ‘chiamata alle armi’”. Insomma, è un lavoro che vuole portare alla consapevolezza di essere tutti uniti in un tutto e “in un unico intento”. Messaggio certamente non nuovo, ma base della civiltà e della società. Parlarne e rifletterne è certamente un’impresa molto faticosa: farne riflettere ancora di più.
Il percorso della mostra acquista una narratività e una linearità esplicite, nell’esposizione di reperti concreti provenienti da contesti reali. Tra questi, però, compaiono anche elementi anomali, non immediatamente riconducibili a qualcosa di definito, come le varie sculture (come il proto animale costruito con feci d’elefante) che ricordano degli idoli misterici legati a pratiche sacrificali… Nella narrazione della mostra, che l’occhio attento può ricostruire logicamente grazie ai diversi rimandi fornitici, si incontrano dei punti poco chiari, offuscati, dei gap che lasciano aperte aree di respiro. Lo scopo socio-politico, l’origine di oggetti e strumenti da contesti di degrado, il messaggio impegnato non costringono lo spettatore in una morsa iper-responsabilizzante, ma lo inducono alla riflessione e all’intuizione, a metà tra criticismo e vaporosità. Theaster Gates è a metà tra l’essere operatore sociale e artista visivo, ma a volta collassa nello spirito di uno sciamano. E noi siamo forse come quegli omini in argilla invetriata che aspettano di fronte all’enorme essere nero posto in alto, da adorare.