Ci sono mostre che hanno il potere di proiettarti in un tempo diverso rispetto a quello corrente. Non solo per la presenza di opere realizzate alcuni decenni fa – e che, nonostante questo, risultano comunque straordinariamente attuali – o per quella di artisti che hanno segnato, e continuano a farlo, il corso della storia dell’arte contemporanea, ma perché riescono a produrre una scossa improvvisa e veemente che rompe, e a volte disintegra, le mura dell’ordinario. The soft parade, collettiva curata da Marcello Tedesco e promossa da Fondazione Rusconi a Bologna nell’ambito del progetto Arte negli Spazi Temporanei, lanciato poco prima di ART CITY 2022 per riattivare luoghi non utilizzati, rientra in questa categoria di fenomeni.
Eppure, le opere dei sedici artisti coinvolti – Sergia Avveduti, Kengiro Azuma, Valentina D’Accardi, Flavio Favelli, Eva Fischer, Niccolò Morgan Gandolfi, Marina Gasparini, Ester Grossi, Corrado Levi, Yari Miele, Sabrina Muzi, Luigi Ontani, Chiara Pergola, Andrea Renzini, Martina Roberts e Antonio Violetta – pur dando l’impressione di astrarsi da quel che riguarda il consueto flusso spazio-temporale, non mancano di confrontarsi con tutto ciò che concerne il presente. Anzi, come riportato nel comunicato stampa, la mostra tenta di “ricreare un’atmosfera di confronto, di superamento di rigide categorie interpretative della realtà”, in rapporto all’attuale “periodo storico connotato da una visione fortemente polarizzata e unidirezionale della società”. D’altronde, anche la scelta del titolo risente della volontà di dar vita a un’“atmosfera di pluralità e tolleranza, di democratica, pacifica vitalità”, essendo ispirata dall’omonimo album dei Doors, il quarto della band americana capitanata dal leggendario Re Lucertola (1969), a sua volta dedicato alla “variopinta umanità che popolava Sunset Boulevard” a Los Angeles in quegli anni.
Forse è anche per questo che, percorrendo la lunga sala espositiva che ospita i lavori, si ha la sensazione di assistere allo scorrere di una qualche pellicola in bianco e nero, girata in chissà quali giorni di chissà quale tempo indefinito, magari avente come colonna sonora proprio una canzone di quell’album dei Doors – Wild Child, oppure la stessa The Soft Parade. Non si tratta di un viaggio a ritroso che procede da un estremo all’altro della sala – dalle Tre stelle (2019) di Flavio Favelli poste all’ingresso, all’ultima Five in Flag (2022) di Marina Gasparini (o viceversa) – ma di un’esperienza espansa e assoluta, che non ha nulla a che fare con le coordinate cui siamo convenzionalmente abituati – è solo il comune ideale romantico-nostalgico a vestirla dei toni di cui dicevo prima.
Così, se, da una parte, il “super linguaggio” col quale comunica si rivolge al nomos vigente, bisognoso, come sostiene Tedesco, di un evento “traumatico e […] fortemente rivitalizzante” – come quando fu per il ritorno di Dioniso in Occidente – dall’altra, si avverte pienamente l’atmosfera musicale e festosa della quale è avvolta – questa sì, dal sapore d’altri tempi – con le opere stesse a fare da “‘frasi musicali’ che si sommano ad altre in continue ed infinite combinazioni”. Tra i citati lavori di Favelli e Gasparini, custodi di possibilità opposte e complementari, lo spartito della mostra si sviluppa come il moto di un torrente, tra oscillazioni persistenti e pause calibrate: dal Torso (2020) di Violetta, fondato sull’“attrito […] tra una dimensione diurna, legata alla rappresentazione, e un’altra notturna e inconscia”, si passa alla tela Appendice (1948) di Fischer, giocata sui binomi tra “svelato e occultato, affermazione e negazione”; la pausa ritmica di Roberts, impostata su un’“inaudita tonalità sonora vicina al silenzio”, introduce allo “spaesante, fantasmagorico, labirinto” comunicativo di Pergola, a sua volta connesso all’imprevedibile, siderale Costellazione Nootropica (1996) di Renzini; l’immagine atemporale di D’Accardi ci ricorda come la realtà sia “tutt’altro che qualcosa di noiosamente monolitico”, proprio come le opere di Ontani e Avveduti, inafferrabili e “apparentemente incongrue”, allo stesso modo dei “lontanissimi orizzonti” di Azuma e della sensualità geometrica di Grossi; alla ricerca sul rapporto tra uomo e paesaggio, condotta da Gandolfi, succede “la natura […] nomade e inquieta” di Muzi, mentre alla “tenacia ritmica e inesauribile del vivente” concretizzata da Miele, sembra ben corrispondere l’“improvvisa inesorabile emanazione di luce” che esplode in Levi.
Come non pensare, osservando i lavori in mostra, al brano The Soft Parade contenuto nell’omonimo album, così variegato nella struttura testuale e compositiva? Lo stesso Tedesco, non a caso, allude a una sorta di improvvisazione musicale quando descrive l’intero impianto della mostra, a riprova di quanto la pluralità sia lo sfondo principale sul quale storie e personaggi si sviluppano e si susseguono. E, tuttavia, mi piace intendere la collettiva come la fanciulla dell’altro brano ricordato prima, anch’esso contenuto nell’album in questione: Morrison la racconta come “selvaggia, piena di grazia”, “naturale [e] terribile”, con la “faccia impassibile” e la “libertà negli occhi”. E, soprattutto, “salvatrice della razza umana”.
The soft parade
A cura di Marcello Tedesco
Dal 6 maggio 2022 al 4 giugno 2022
Fondazione Rusconi – Arte negli Spazi Temporanei
Bologna, Via Giuseppe Petroni 22/A