Dopo Artisti Russi Contemporanei (1990) a cura di Amnon Barzel e Claudia Jolles e Progressive Nostalgia (2007) a cura di Viktor Misiano, con The Missing Planet si conclude un’ideale trilogia sulla situazione post-sovietica portata avanti dal Centro Pecci di Prato.
A trent’anni dalla caduta del muro di Berlino la mostra racconta, attraverso un percorso a ritroso che parte dalla scena artistica attuale e arriva agli anni Settanta, la storia e i cambiamenti che hanno segnato l’ex Unione Sovietica. Per l’occasione sono state selezionate oltre ottanta opere e numerosi materiali d’archivio, suddivisi in tre sezioni tematiche: Viaggi spaziali in un altro mondo; Lo spazio post-sovietico e la transizione impossibile; Lo spazio della Perestrojka e la fine di un mondo.
The Missing Planet apre una nuova serie di mostre ideata dalla direttrice Cristiana Perrella e dedicata ad approfondire temi, periodi e linguaggi della collezione del Centro Pecci, affidandone la cura ad un esperto invitato come guest curator e affiancato dal responsabile delle collezioni e archivi.
Di seguito alcune domande al curatore della mostra Marco Scotini.
Martina Matteucci: The Missing Planet nasce dall’idea di accostare una parte della collezione del Centro Pecci di Prato con prestiti provenienti da importanti collezioni pubbliche e private. Da questo incontro è nato un universo composto da visioni e pratiche appartenenti ad artisti attivi nelle ex repubbliche sovietiche dagli anni Settanta a oggi. Come si struttura la mostra?
Marco Scotini: Non è stato facile aggiungere un terzo capitolo alle prime due mostre fatte al Centro Pecci o, meglio, un capitolo che fosse all’altezza dei precedenti. La prima mostra “Artisti Russi Contemporanei” era stata presentata, con un tempismo eccezionale, tra la caduta del Muro di Berlino e il crollo dell’Unione Sovietica. La seconda, “Progressive Nostalgia”, era ampiamente rappresentativa della scena artistica post-sovietica e si apriva alla vigilia della crisi finanziaria del 2008. Se una testimoniava l’entusiasmo dell’apertura all’Ovest, l’altra registrava invece la disillusione della globalizzazione e dunque una visione critica di quella stessa apertura. È stato necessario, prima di tutto, capire i tempi in cui la nuova mostra si sarebbe posizionata per poterne riproporre le condizioni di urgenza, assieme ad un aggiornamento della scena artistica attuale, che potesse presentare al pubblico le nuove ricerche teoriche, le nuove produzioni estetiche. Da un lato, dunque dovevamo fare i conti con le insorgenze dei nuovi nazionalismi e dei nuovi populismi di destra, dall’altro di quanto di inedito la Russia poteva ancora presentare non solo all’Italia ma ad un contesto internazionale. La mostra che ho pensato, assieme a Stefano Pezzato, è così una grande sintesi delle precedenti con una estensione tanto all’oggi che ai tempi che hanno preceduto la Perestroika. Abbiamo voluto ripensare al significato che ha ora, per noi, quel bordo che ha unito/diviso l’Unione Sovietica e la fase post-Sovietica non solo nell’attuale Est Europa ma nel mondo intero. Personalmente, nonostante i tempi siano molto mutati, non sono mai riuscito a staccarmi da quel confine temporale che vedo come un momento nevralgico per ripensare intera la nostra contemporaneità. Ho dedicato a quel momento pure molte mostre dalla metà degli anni 2000 in poi e, anche in questo caso, era giusto che proponessi un’altra macchina espositiva e di pensiero. Da “Der Prozess”, curata per la Prague Biennale, a “Il Piedistallo Vuoto” ho articolato una serie di mostre attorno allo stesso tema. E ora, dunque, cos’altro? The Missing Planet, appunto!
MM: A cosa si riferisce The Missing Planet, il titolo della mostra? A che tipo di perdita allude?
MS: Il titolo, volutamente mantenuto in lingua inglese, allude a un pianeta perduto e a un pianeta che manca (o che è sempre mancato) allo stesso tempo. In fondo l’Unione Sovietica ha coinciso con uno spazio e un tempo (il Secolo Breve) della modernità che si è concluso, ma l’idea che avrebbe voluto incarnare (un’idea di giustizia egualitaria per tutti gli esseri) veniva da molto prima e muove molto oltre. Per ciò questo pianeta è qualcosa di finito storicamente ma anche qualcosa che non abbiamo mai posseduto e di cui l’Unione Sovietica è stata la grande occasione mancata. Ma ora, nello spazio cosmico del neoliberismo attuale, in cui le stelle del capitale sono libere di muoversi lungo le proprie orbite senza più pressioni o attriti con corpi alieni, che senso ha ritornare al pianeta rosso? Che senso ha chiedersi, dunque, se un tempo gigantesco sia ora scomparso dall’orizzonte o se, piuttosto, non sia mai apparso – così come vorrebbe la storia del riavvolgimento (in rewind) del suo passato fino al momento della Rivoluzione d’ottobre. Proprio a partire da queste domande abbiamo cercato di costruire un itinerario rovesciato che va dall’oggi alla Perestroika, tornando indietro. L’idea è quella di una strana macchina del tempo per la quale abbiamo voluto creare un percorso circolare (come un orbita planetaria) per cui la mostra comincia con lo spazio della immortalità -dedicato al recupero del Cosmismo – e si chiude con l’Ultima Cena di Andreij Filippov. Ma ricominciando da capo incontriamo uno spazio della resurrezione dei corpi, ecc. ecc.
MM: Per l’occasione lo spazio espositivo del museo è stato trasformato in uno Space Shuttle, un contributo dell’artista Can Altay, interessato a ripensare i significati e le funzioni dello spazio pubblico. Nella riconfigurazione dello spazio espositivo del Centro Pecci di Prato, come dialogano museo, lavori in mostra e pubblico?
MS: Can Altay ha risolto magnificamente la nostra idea di definire uno spazio che fosse simile a quello del film “Solaris” di Tarkovskij. Lavoro sempre partendo dal contesto ma quasi mai dal contesto fisico: intendo l’edificio che ospita la mostra. Ma in questo caso è stato d’obbligo confrontarsi con la nuova conformazione del Centro Pecci fatta dall’architetto Maurice Nio: una vera e propria navicella spaziale color bronzo! Il corto circuito tra l’architettura del museo e il film Solaris è stata immediata. Di fatto dentro questo edificio futuristico avremmo dovuto riallestire la memoria storica del museo. Dunque la somiglianza con la storia di Kelvin che va in orbita nello spazio per non ritrovare altro che la propria biografia ci è sembrato una coincidenza perfetta. Altay è riuscito a definire un allestimento che fa il verso agli exhibition displays sovietici degli anni ’60, con finestre circolari spaziali e tessuti isotermici e metalline, mantenendo sempre l’idea di set cinematografico temporaneo, in cui tutto diventa artificiale e visibile: il retro delle tele, i cavi elettrici, le strutture di proiezione e di illuminazione, ecc. Non mutando mai lo stile dell’allestimento, il pubblico può percepire il passaggio attraverso le tre sezioni e può intendere correttamente l’eterogeneità dei materiali presentati.
MM: Il film Solaris di Andrej Tarkovskij apre e chiude l’intera esposizione. Tra gli anni ’50 e ’70 l’immaginario sovietico è stato per la maggior parte legato al cosmo, tanto che il culto della scienza e della ricerca aveva preso il posto di quello religioso. Qual è l’interpretazione artistica contemporanea sulla visione cosmista del mondo?
MS: Gli anni ’50 e ’60 sono anni in cui il programma spaziale sovietico diventa un elemento imprescindibile della Guerra Fredda, a livello politico e di immaginario. Le forze bipolari si contendono a quella data la conquista dello spazio. Tuttavia niente rimane del Cosmismo originario della fine dell’Ottocento che avrebbe poi condotto alla Rivoluzione d’Ottobre. Forse “Solaris” del 1971 è un film cosmista e l’installazione di Kabakov, L’uomo che volò nello Spazio dal suo appartamento, del 1988 ha a che fare con questo retaggio. Riscoprire il Cosmismo è stato il compito della nuova generazione che lavora con l’archeologia come Arseny Zhilyaev, Anton Vidokle ma anche Vladis Shapovalov ed è interessante che gli artisti contemporanei siano andati così indietro nel tempo, in un momento in cui alla tecnologia digitale e al Pianeta va restituito un senso etico specifico e complesso. Tuttavia “Solaris” è stato il vero motore dell’intera operazione e si trova una sua citazione anche sul film di Anton Vidokle. Non solo apre e chiude la mostra ma foto in bianco e nero del grande regista nel set del film, accompagnano e costellano tutta la mostra. I rimandi curatoriali, poi, al lavoro di Tarkovskij (ai suoi film) sono tanti e non sempre così evidenti.
MM: In mostra è presente anche una selezione di opere prodotte prima del crollo dell’Unione Sovietica e all’epoca considerate “arte non ufficiale”. Quali i temi affrontati dagli artisti coinvolti?
MS: Come accennavo all’inizio della nostra conversazione, abbiamo esteso tanto in avanti che indietro il blocco storico già presentato nelle due mostre del Pecci. Se l’attualità è rappresentata dalla sezione sul Cosmismo, rispetto alla fase della Perestroika abbiamo incluso in mostra un gruppo di opere davvero rilevanti che erano state presentate dalla mostra “Terza Roma”, supportata nell’89 da Giuliano Gori e le cui opere fanno ora parte della sua collezione. Mi riferisco al grande “Angolo Rosso” di Dmitry Prigov, alla “Iconostasi in stile Imperiale” di Boris Orlov e alla già citata “Ultima Cena” di Andreij Filippov. Ma nella mostra figura anche un’artista mongolo come Balbar Gombosuren che aveva disegnato il logo della missione spaziale Mongolo-Sovietica, una serie di disegni di Akhunov degli anni ’70 della collezione Righi, un intero gruppo fotografico di Boris Mikhailov, un video pornografico di Andris Grinbergs e una serie di documenti straordinari come libri, gadget, ephemera, della collezione Italo Rota. Tuttavia erano già presenti nella collezione del museo opere rare e straordinarie di Medical Hermeneutics, di Kabakov, del gruppo Perzi, di Sergei Volkov e altri. Il grande Erik Bulatov, che ci ha raggiunto per l’opening, ha ripresentato un suo quadro sotto forma di enorme wall painting. Difficile sintetizzare i temi affrontati da tutti questi artisti. Si va dal dissenso esplicito ad una sorta di babele priva di senso, da un precoce archivio di cimeli sovietici fino al timore di affrontare un mondo nuovo, che non sarebbe stato altro che l’Occidente.
MM: Come accennavi prima, il Pecci ricorda anche altre due importanti mostre sulla scena artistica sovietica: Artisti Russi Contemporanei (1990), nata sulla scia dell’ottimismo storico segnato dalla caduta del Muro di Berlino e Progressive Nostalgia (2007) in cui viene messa in discussione l’euforia iniziale. Qual è la visione sul presente (e sul futuro) in The Missing Planet?
MS: Non possiamo fare a meno di confrontarci con la geopolitica attuale: questo mondo frammentato e agonistico che ha preso il nome di globalizzazione. D’accordo con Sandro Mezzadra pensiamo che se l’assetto della Guerra Fredda è entrato in crisi non si deve tanto al tentativo della cancellazione dei confini nazionali da parte del capitale quanto alla loro proliferazione. Che poi il neo-sovranismo si sia imposto su questo puzzle territoriale non significa che il progetto del capitale transnazionale si sia interrotto. Il messaggio del Cosmismo come anticipazione della Rivoluzione d’Ottobre è ancora tutta una miniera teorica da scoprire e ripensare per far fronte alle forme delle posizioni reazionarie del contemporaneo. Stando alle previsioni, diciamo che The Missing Planet sa che l’immediato futuro sarà tutt’altro che confortante. Ecco perché la mostra diventa qualcosa da visitare!
The Missing Planet. Visioni e revisioni dei ‘tempi sovietici’ dalle collezioni del Centro Pecci ed altre raccolte
A cura di Marco Scotini e Stefano Pezzato
Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci
Fino al al 3 maggio 2020
Artisti: Vahram Aghasyan Vyacheslav Akhunov, Said Atabekov, Babi Badalov, Ilya Budraitskis – Alexandra Galkina – David Ter-Oganjan, Erik Bulatov, Alexey Buldakov, Vajiko Cachkhiani, Olga Chernysheva, Chto Delat (What is to be done?), Ulan Djaparov, Factory of Found Clothes, Andrei Filippov, Alexandra Galkina – David Ter-Oganjan, Balbar Gombosuren, Andris Grinbergs, Dmitry Gutov, Alimjan Jorobaev, Ilya Kabakov, Flo Kasearu, Gulnara Kasmalieva & Muratbek Djumaliev, Yakov Kazhdan, Anastasia Khoroshilova, Olga Kisseleva, Nikolaj Kozlov, Vladimir Kupryanov, Medical Hermeneutics, Jonas Mekas, Boris Mikhailov, Deimantas Narkevičius, Nikolay Oleynikov, Boris Orlov, Anatoly Osmolovsky, Perzi, Dmitry Prigov, Radek Community, Koka Ramishvili, R.E.P. Group, Andrei Roiter, Vladislav Shapovalov, Leonid Sokov, Andrey Tarkovsky, Leonid Tishkov, Jaan Toomik, Andrei Ujică, Nomeda & Gediminas Urbonas, Anton Vidokle, Sergei Volkov, Yelena & Viktor Vorobyev, Arseny Zhilyaev, Konstantin Zvezdochotov