Alla Conferenza delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile tenutasi a Rio nel 2012 il film Welcome to the Anthropocene, ha raccontato la favola spaventosa di come una specie – umana, bianca e occidentale – abbia cambiato il pianeta, con una forza paragonabile a un processo geologico, nei 250 anni successivi alla Rivoluzione Industriale. II globo terrestre centra l’inquadratura, la riempie, ruota attorno a se stesso e dissolve la sua immagine canonica in una costellazione di punti luminosi, brillanti all’incrocio di infiniti filamenti che lo avvolgono e lo configurano come bozzolo di interconnessioni. La voce narrante pacifica e un po’ sadica ci dà il benvenuto in un’era che ha inventato le emissioni di gas serra, l’acidificazione degli oceani e l’innalzamento della temperatura.
Lo stesso anno Donald Trump ha tweetato “The concept of global warming was created by and for the Chinese in order to make U.S. manufacturing non-competitive.” Non è una puntata di Black Mirror e viene da chiedersi in che mondo siamo finiti, ma soprattutto a che punto siamo della catastrofe.
Il PAV – Parco d’Arte Vivente, nel suo decimo compleanno, con la mostra The God-Trick curata da Marco Scotini e il simposio Antropocene, crisi e potenzialità trasformative dell’arte, prova a rispondere a queste domande.
Vincenzo Santarcangelo (filosofo) modera la prima giornata e introduce il tema con il suo corollario fatto di materiali nucleari, crisi climatica, emissioni di carbonio, e altri oggetti che incombono sulle nostre esistenze restando, paradossalmente, sempre impalpabili, in uno spazio-tempo intangibile. Sono entità filosoficamente problematiche, che frustrano la nostra capacità di definire cosa sia di fatto un oggetto.Timothy Morton li ha definiti Iperoggetti nel testo omonimo di cui Santarcangelo ha curato l’edizione italiana per Nero. Secondo il filosofo non solo la fine del mondo è già avvenuta, ma bisogna sbarazzarsi degli strumenti di un ambientalismo datato e un po’ naïve per trovarne di più efficaci in un’era in cui umano e non-umano convivono nell’Antropocene.
Volendo guardare indietro un’ultima volta prima di pensare a qualcosa di più efficace lo scenario è abbasta frustrante e il climatologo Luca Mercalli, primo intervenuto alla tavola rotonda, ci regala un racconto lucido della non giovanissima ma ancora acerba, sensibilità ai problemi ambientali, percorrendone le tracce fondamentali. La fondazione dell’Intergovernamental Panel on Climate Change nel 1988, la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici nel 1992, la redazione del Protocollo di Kyoto nel 1997, l’Accordo di Parigi 2015. Esperienze che hanno portato nel migliore dei casi a delle nicchie di sostenibilità senza riuscire a mutare il quadro generale né tanto meno a compiere una vera rivoluzione a livello globale.
La domanda di Mercalli è “Cosa stiamo aspettando?”. La nostra cecità volontaria davanti alla catastrofe è imperdonabile e ci avvicina storicamente alla Germania anni trenta e alla sua inerzia davanti al nazismo. Siamo tutti complici e un po’ fascisti. I toni si fanno più fiduciosi, e a tratti incantati, con l’intervento di Serge Latouche (economista e filosofo) che prova a capire come l’arte possa contribuire, se non a impedire, a contenere la catastrofe, e a fornire gli strumenti per la costruzione di un altro mondo.
Secondo il filosofo bisogna contrastare la rotta del capitalismo neoliberista fondato sul consumo generatore di bisogni non reali, e su una produzione non curante dell’uso delle risorse né dell’inquinamento. E attuare al suo posto una rivoluzione ispirata da una teoria (est)etica della decrescita, che abbia al centro un’arte memore del suo originario sodalizio con l’artigianato, e che riesca ancora a suscitare meraviglia. Latouche auspica un nuovo processo di civilizzazione che abbia il gusto come sensibilità e la bellezza come realtà, capace inoltre di fondare una nuova sacralità, con la decrescita come nuova religione.
Un piano splendido che, sebbene si fatichi a visualizzarlo nella realtà fuori dall’universo teorico, può dare una direzione al cambiamento, come ideale trascendentale cui tendere.
A seguire Stefano Mancuso (Istituto internazionale di Neurobiologia delle piante) con l’attitudine scientifica per i dati e le misure porta del relativismo sul tavolo, e ci ricorda che su scala geologica la nostra esistenza è ridicola e che stiamo parlando della distruzione del mondo umano, mentre le piante, il 99% degli esseri viventi, non sono e non son mai state a rischio di estinzione. Questo deve portare a riconsiderare la nostra percezione della superiorità del genere umano, e dei suoi grandi cervelli, poco vantaggiosi su un piano evolutivo, per abbandonare quindi l’uso che s’è fatto dell’organismo umano – centralizzato e gerarchico – come modello per la costruzione di ogni aspetto della nostra civiltà.
Per scampare al disastro ambientale Mancuso invita a una rivoluzione radicale, ad abbracciare il modello distributivo delle piante, più egualitario, creativo e resistente, già alla base del successo di Internet, del Bitcoin, di Wikipedia. Il piano è continuare in questa direzione e imparare dalle piante.
La sezione teorica si chiude con l’intervento di Serenella Iovino, filosofa dell’ecologia e docente di letterature comparate, con un originale esperimento di stratigrafia narrativa, di lettura dell’Antropocene nelle sue quattro sfere attraverso la produzione calviniana. Con un gesto antigeologico Iovino legge il fenomeno postumo, attraverso l’incredibile sensibilità di Calvino al cambiamento epocale in atto: nell’atmosfera, figurativamente e letteralmente inquinata (La nuvola di smog 1958), nella litosfera, teatro della dissennata corsa al consumo di suolo (La speculazione edilizia 1957), nella biosfera, e quindi nella vita dei singoli, che può sprofondare da un momento a un altro, in uno stato di incertezza e angoscia ineluttabili (La formica argentina 1952) e infine, nella sociosfera, caratterizzata dall’emerge di una nuova stupefatta umanità urbana, schiacciata dall’acromia della città industrializzata (Marcovaldo 1963).
Con la genialità lungimirante di Calvino si chiude la sezione teorica del simposio che passa il testimone alla sezione artistica, moderata dal critico d’arte Franco Torriani, che cucirà un dialogo a cinque voci sulla capacità reale dell’arte di attuare una trasformazione sociale.
La tavola, ha inizio con l’intervento di Gaia Bindi (Accademia delle belle arti di Carrara) che ci conduce in un viaggio nell’immaginario generato dall’Antropocene, in una infilata di immagini che vogliono andare all’origine dell’assuefazione visiva, e progressiva desensibilizzazione, ai disastri ambientali, nonché di una violazione dei parametri della percezione.
Tornando all’immagine filamentosa della Terra di Welcome to the Antropocene evocata in apertura, sembra lontana quella scattata a bordo dell’Apollo 17, che restituiva alla Terra un aspetto uniforme, compatto, e rassicurante nella prospettiva spaccata degli anni della guerra fredda.
Nel tempo una sovraproduzione di immagini spettacolari dal fascino ambiguo e controverso – vortici di rifiuti nel pacifico, esplosioni di piattaforme petrolifere, fiumi rossi come il sangue, pellicani neri di petrolio – ha fatto emergere un’estetica del sublime che va al di là delle intenzioni più o meno di denuncia con cui esse sono state prodotte. La sfida che viene quindi posta all’arte è di ragionare su nuovi sistemi di figurazione, attivando una polisensorialità integrata, capace di rendere visibile l’invisibile e concorrere a una presa di coscienza del mondo che viviamo, nel bene e nel male.
Un’arte che in questa prospettiva ritrovi una connessione tra l’ambiente e le nostre vite, i nostri corpi, il nostro futuro.
Sull’estetica del sublime dell’Antropocene tornerà Nathalie Blanc del French National Center for Scientific Research, un terrore sacro che se nella tradizione romantica solo la natura poteva esercitare ora si è trasferito a un’umanità investita da un potere di cui è essa stessa la diretta succube. Quale ruolo sociale è quindi possibile attribuire alla produzione artistica nella prospettiva di una trasformazione sociopolitica? Da questo dipende non solo la relazione tra arte e società ma la configurazione di un nuovo regime estetico.
Blanc risponde con un’arte che sia a sostegno della vita e le dia significato, un’arte legata a doppio filo all’ecologia, e che a partire da contesti locali riesca a relazionarsi a problemi globali, allo stesso tempo sperimentale e portatrice di conoscenza a livello estetico, tecnico e accademico.
E Valerie Da Costa, dell’Università di Strasburgo, in perfetta sintonia con questa proposta, porta l’esempio di tre artisti di tre generazioni diverse che hanno in-formato la sensibilità ecologica nella loro pratica artistica. Il primo è Michel Blazy classe ‘66, presente in mostra con Forêt de Balais, un’installazione ambientale di scope, la cui saggina a contatto con la terra si trasforma in materia vivente, e viene in un certo senso restituita al suo stato di natura, elemento ricorrente nel lavoro dell’artista che attraverso uno sguardo paziente sulle cose lascia che la natura si riprenda lo spazio che le è stato tolto dalla tecnologia. La seconda è Anita Molinero classe ’53, la cui predilezione per i materiali plastici, tagliati, manipolati e plasmati, va invece in una direzione post apocalittica. Infine Pauline Julier classe ’81, con un approccio più concettuale, indaga il paesaggio attraverso immaginari leggendari e mitologie recondite, in cui l’essere umano è sparito da scenari sospesi tra il paradisiaco e l’angosciante.
Ma perché se gli artisti non possono risolvere i problemi legati ai cambiamenti climatici dovrebbero occuparsene? Si chiede la curatrice Sue Spaid. L’arte si rivela uno strumento efficace nella costruzione di una nuova percezione di dati di fatto, che pur manifesti restano inosservati. L’arte riesce a esporre il suo pubblico a nuove scale di valori e, nel migliore dei casi, riesce a mutarle, eleggendosi a potente alleata della distruzione di fenomeni come scetticismo e negazionismo legati dalla comune radice dell’ignoranza.
A insistere sulla portata critica che riesce ancora ad avere l’arte è il curatore Marco Scotini, che riflette sul futuro del concetto di Antropocene, ancora non completamente definito, ma già ridotto a un brand e a un trend, in cui arte e natura galleggiano come una nuvola passeggera che rischia di diventare solo un capitolo della storia dell’arte.
È necessario un sabotaggio radicale, secondo il curatore, e senza dissenso non può esserci ecologia, c’è quindi poco da star comodi.
Siamo come gli abitanti di Ottavia, città ragnatela delle Città invisibili di Calvino, legata alle creste di un precipizio, con soltanto una rete a fare da passaggio e da sostegno.
“Sospesa sull’abisso, la vita degli abitanti di Ottavia è meno incerta che in altre città.
Sanno che più di tanto la rete non regge.”
THE GOD-TRICK
Lara Almarcegui, Michel Blazy, Critical Art Ensemble, Piero Gilardi, Bonnie Ora Sherk, Nomeda e Gediminas Urbonas
A cura di Marco Scotini
Fino al 21 ottobre 2018
Il PAV Parco Arte Vivente presenta The God-Trick, mostra collettiva, curata da Marco Scotini, con la quale il Centro intende celebrare i dieci anni d’apertura. La mostra verrà inaugurata in occasione di un importante convegno internazionale. Attraverso i lavori di artisti che già in passato sono intervenuti nel contesto del PAV, ovvero Lara Almarcegui, Michel Blazy, Critical Art Ensemble, Piero Gilardi, Bonnie Ora Sherk e Nomeda e Gediminas Urbonas, l’obiettivo della mostra quanto del convegno, è quello di affrontare (e ancor più problematizzare) uno dei dibattiti che, negli ultimi anni, si è maggiormente imposto sulla scena internazionale dell’arte contemporanea, ovvero la questione relativa all’Antropocene. Un dibattito pervasivo e corale, che attraversa trasversalmente ogni ambito della conoscenza. Dalla scienza ai cultural studies, dalla filosofia alle pratiche sonore, dalla politica fino alle arti visive, una moltitudine di voci ha creato un complesso reticolato di opinioni, teorie e proposte pragmatiche a partire dall’urgenza imposta dal cambiamento climatico e dalle modifiche ambientali di matrice antropogenica.
Il titolo della mostra prende le mosse da una figura centrale al dibattito come Donna Haraway. Nota ai più come madre del pensiero Cyber femminista, Haraway in più occasioni ha cercato di disarticolare ogni attitudine convenzionale alla lettura dell’Antropocene, arrivando a formulare alternative praticabili e metafore cariche di potere narrativo e generativo. “Non vogliamo teorizzare il mondo, ed ancor meno agire nel mondo, in termini di Sistemi Globali” scrive Haraway. Al contrario, si tratterebbe di sottoporre qualsivoglia pretesa di “oggettivazione” del piano del reale ad un attento e puntuale esercizio di scetticismo, di analisi destrutturante, di dubbio. Un esercizio atto a svelare quello che Haraway definisce provocatoriamente il “Trucco di Dio”: un trucco che si fonda sull’illusione di eliminare il corpo dalla conoscenza. Per Haraway la conoscenza è sempre situated knowledge, innestata all’interno e dall‘interno di un corpo la cui capacità di fare esperienza è sempre determinata da un preciso carico di memoria, da un preciso carico di storia. Un tema trattato, a sua volta, da Jason W. Moore, in rapporto all’opposizione uomo / natura.
Dall’invito alla situated knowledge di Haraway, si dipana il percorso della mostra The God-Trick; il percorso è inaugurato dalle sperimentazioni sull’energia alternativa di Nomeda e Gediminas Urbonas, attraverso la documentazione di Folk Stone Power Plant, progetto originariamente concepito per la Triennale di Folkestone (UK) in cui un’installazione attiva un network internazionale di scienziati. A questo si aggiunge l’analisi relazionale e collettiva delle acque con la quale il Critical Art Ensemble si interroga sull’organizzazione delle nostre scelte in termini ecologici, proponendo un processo laboratoriale, atto ad inaugurare una necessaria conversazione su questo importante problema. Lara Almarcegui presenterà una formalizzazione inedita dell’opera Scavo, realizzata al PAV nel 2009, nella quale portare alla luce i differenti strati del suolo significava anzitutto analizzare il passato dell’area indagata, un trascorso in cui si sono intrecciate natura e storia, sociale e industriale. Si arriva poi alla pedagogia della Living Library di Bonnie Ora Sherk, un’inedita cornice sistemica, una strategia ed una metodologia per pianificare, progettare, implementare e mantenere nel tempo operazioni di ‘ecologizzazione’ e rinverdimento di luoghi specifici in differenti scuole e comunità. Concludono la mostra i grandi interventi in esterno di Michel Blazy e Piero Gilardi. Se Blazy, con l’installazione Forêt de balais ci svela le inaspettate meraviglie di cui è capace la natura nel suo riappropriarsi degli spazi che l’uomo le ha sottratto, Gilardi ci propone Labirintico Antropocene, un percorso labirintico, atto a supportarci nell’altrettanto labirintica percezione della crisi ambientale e del cambiamento climatico, resa ancora più nebulosa dalle retoriche manipolatorie dei media mainstream.
Ognuno di questi lavori ha il compito di ricordarci che i processi di accumulazione capitalista non hanno nulla di naturale, nulla di oggettivo, nulla di inevitabile, incoraggiandoci così ad uscire da quella gabbia del pensiero che ci impedisce di vedere un’alternativa al sistema.
(Comunicato stampa)