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La celebre citazione duchampiana diviene la struttura portante di un progetto di ricerca che ruota attorno alla pittura emergente italiana. Il piacere e l’interesse che essa provoca nelle due curatrici e critiche Simona Squadrito e Rossella Farinotti apre un varco sulle relazioni tra sguardi dell’oggi e tradizioni di ieri.
Con l’intento di riappropriarsi di uno sintomo immanente capace di far emergere il recupero continuo di un modello che appare sempre diverso dal precedente, il primo episodio di Stupido come un pittore a Villa Vertua Masolo presenta i lavori di Nicola Melinelli, Valentino Vago, Sebastiano Impellizzeri, Thomas Berra e Pesce Khete.
Gli artisti “sanno ciò che fanno” ci dice il titolo del testo critico scritto da Simona Squadrito; così nella mostra il perno attorno al quale incontriamo la costellazione composta dai diversi artisti è il lavoro di Valentino Vago, recentemente scomparso. La luce che diviene colore e il colore che diviene luce, declinati dagli artisti, mostrano pigmenti puri che tendono a depositarsi e a cadere, una pittura atmosferica con superfici sporche, un approccio gestuale lirico accanto ad uno più aggressivo. Una parentela intima e spirituale è ciò che si evince mentre gli assi si spostano, mentre l’evoluzione accade.
Gli artisti e le curatrici hanno risposto per noi ad alcune domande —
Lisa Andreani: La lettura del progetto Stupido come un pittore individua un processo di evoluzione e slittamento dei vostri “canoni tradizionali”. Come state attraversando questo vostro cambiamento?
Pesce Khete: Per quanto mi riguarda l’anomalia, se così si può chiamare, rispetto ai precedenti riposizionamenti che sono comunque costanti, è stata dovuta ad una precisa richiesta da parte di Simona e Rossella, ovvero quella di non proporre in questo primo appuntamento lavori con oggetti o figure direttamente riconoscibili. Il trio portato in mostra rappresenta quindi bene la riposta ad un problema che era nelle premesse: semplificando, come ricongiungermi all’astrazione in un periodo in cui la rappresentazione e la figura erano protagonisti nel mio studio.
Diverse le premesse, diverse le conseguenze. Mi ha sempre interessato molto il modo in cui “i pittori” reagiscono mentalmente e fisicamente a questo generico principio “nel quadro” e prima di confrontarsi fisicamente con esso. Ovviamente, il cambiamento delle premesse può essere subita dall’esterno, o essere autoindotto, o autoinflitto, come mi piace intenderlo in questo momento. Nel corso degli anni ho fatto raramente a meno dell’utilizzo della carta perché è un supporto che viene perfettamente incontro alla mia necessità di operare senza avere un’idea precisa o soprattutto uno schema compositivo definito dalle dimensioni fisse del supporto. In questo caso, nelle premesse, avevo quindi già un vincolo, una indicazione di divieto, che dopo qualche giorno è stato accolto come prima regola del gioco, subíta. La prima regola autoindotta è scaturita dalla volontà di proseguire nel processo di rottura e di confrontarmi con la realizzazione di un lavoro già prefissato in mente. Un’astrazione prefigurata rappresenta per me uno dei paradossi possibili. È l’idea del progetto, dello schema. Il lavoro al centro è la realizzazione fedele dell’immagine che avevo in mente, una sintesi su tre livelli di una costruzione. Una pantomima. Un impulso già in-paginato, come se si trattasse di una pagina di un libro o meglio di un libretto delle istruzioni in cui vengono elencati i passaggi per arrivare al lavoro costruito (da qui il titolo).
I due laterali sono al contrario testimonianze delle rottura dello schema. Resistenze alla progettualità. Iniziati paradossalmente con l’idea di realizzare l’idea compiuta (il lavoro centrale), rappresentano variazioni indipendenti, o per rientrare nell’argomento, diverse reazioni pittoriche alle stesse premesse.
Sebastiano Impellizzeri: Ho sempre inteso la pittura come un instancabile processo di ricerca senza soluzioni di continuità, più che come un avanzamento per fasi o un perfezionamento di canoni personali via via più netti. Una ricerca dinamica, con accelerazioni e rallentamenti, che fa i conti con la propria esistenza e che non è avulsa dal quotidiano, ma che abita soprattutto le ragioni intime della pittura stessa. In questo modo penso si possa intendere il mio lavoro, che da lungo tempo si occupa di fondamenti: segno, forma, superficie, colore, luce.
Per queste ragioni, per Stupido come un pittore, che è a un tempo una mostra e un dialogo lungamente coltivato e che si occupa proprio degli elementi essenziali della pittura adottando uno sguardo aperto e non preordinato, porto un lavoro che è il risultato di oltre un anno della mia ricerca. Riposo: quattro segmenti rosa è un’opera che ha a che fare con una traiettoria per me essenziale: il rapporto tra il colore e lo spazio.
Qui provo a spostare il segno dalla tela per inserirlo direttamente nello spazio, pur continuando a servirmi degli stessi elementi pittorici di base: la tela e il pigmento. Non si tratta di una scultura, ma di un tentativo estremo che la pittura fa per “disegnare lo spazio”. Attraverso il cambiamento cromatico e il passaggio dal colore alla luce, ovvero la stessa grammatica e la stessa sintassi di quel discorso pittorico che intrattengo da lungo tempo all’interno delle tele.
Thomas Berra: La pittura è sempre un processo in evoluzione. Alle volte semplicemente ci si annoia di percorrere una strada e se ne sceglie una nuova, diversa. Affronto il cambiamento con curiosità, cercando di sorprendermi sempre.
Lisa Andreani: Come avviene la rilettura della storia dell’arte passata? Come vi relazionate con il frammento?
Pesce Khete: Se si chiedesse ad una persona dotata di una profonda conoscenza della storia dell’arte e ad un’altra idealmente all’asciutto di disegnare una mela si avrebbero due risultati completamente differenti. Onestamente non saprei quale scegliere aprioristicamente, ma so che molto probabilmente la seconda rappresenterebbe una mela più saporita, perché a guidare la mano ci sarebbe prevalentemente la conoscenza della forma e del gusto. Detto tra noi, non è vero ciò che ho scritto perché ovviamente sono molteplici i fattori in ballo, ma, nel paradosso…
Non credo di aver mai orchestrato volontariamente un richiamo a qualche episodio della storia dell’arte, mentre è chiaramente vero il contrario, ovvero che sono i riferimenti ad entrare di continuo nei miei lavori (come sempre). Ma non si tratta mai di una relazione prestabilita, quanto di…sopraggiunte accoppiate di fatto su cui ragiono a posteriori. Tra i mille esempi, mi ha colpito come durante l’inaugurazione molte persone mi abbiano detto che il mio lavoro sulla destra riecheggiasse una forma di nudo femminile di Matisse (io ascoltando pensavo ad esempio a Blue Nude II).
Ovviamente non ci avevo pensato, intento come ero a stendere un primo livello di olio di lino, primo passaggio per la realizzazione di Senza Titolo (o Istruzioni n.2). La pittura per me, si era innescata in quell’istante, quando compiendo un’operazione inizialmente meccanica riconoscevo al contrario il valore della pennellata data (in pittura non esiste casualità, in quanto il suo frutto deve comunque essere riconosciuto e accolto, o scartato) e assecondavo il fatto che il gesto sinuoso sembrasse delineare una qualche forma organica, viva, e autonoma. Ricordo di aver detto a qualche amico passato a trovarmi in studio che quella forma viva mi ricordasse anche una macroscopica mosca. Ciò che per me quindi rimandava ad una mosca, per molti è una contorno flessuoso di Matisse, ma in fin dei conti, credo che parlassimo esattamente della stessa cosa: vita-Matisse-segno-vita.
Nicola Melinelli: La storia delle immagini che ci hanno preceduti, entra costantemente nel mio lavoro. E’ sempre in un continuo palleggio, uno contro uno, come quello di due pallavolisti divisi da una rete.
La flessione di un tessuto panneggiato dipinto a Firenze nel ‘500, diventa analoga alla pennellata che disegna lo spazio intercostale di una carcassa in un quadro di Francis Bacon. Il gonfiore grasso e morbido ma spigoloso degli abiti nei dipinti di Rogier Van Der Weyden, si fa materia plasmata in certe sculture di corpi di santi velati, troppo di marmo per esser dipinti, e poi troppo poco caldi per credere all alchimia della celebre cappella Sansevero, ma in fondo; i personaggi di Van Der Weyden hanno forse dei corpi sotto quelle vesti?
Ecco in questo modo mi piace pensare alla storia dell’Arte. Come un grande terreno fitto di oggetti singolari, e sensoriali, dove ogni angolo, ogni centimetro rimanda ad un altra visione, dove ogni sensazione è la risulta di un accurato studio formale dell’immagine.
Il frammento è molto spesso ciò che ci resta di qualcosa di lontano nel tempo, o invece di qualcosa che ha subito un processo di deterioramento, il frammento parla di una permanenza, continua a parlare di un suono. Malinconico e austero il frammento diventa una nuova forma, che si carica di nuova significazione.
Credo infatti che quando osserviamo oggi, un frammento dal passato, non si debba sempre ragionare a priori sull’idea del suo esser ‘parte di’.
Un affresco che ha subito dei crolli, o una scultura a cui mancano gli arti, diventano delle testimonianze di un processo. Del tempo che agisce sulla materia. E forse in fondo, quelle voragini mancanti su testi d affresco, ne denotano la loro lontananza, la loro apparenza attuale è ciò che ci è dato da leggere, ma soprattutto, ciò che dobbiamo farci bastare.
Lisa Andreani: Alcuni di voi (Sebastiano Impellizzeri, Thomas Berra, Nicola Melinelli) collaborano con una delle curatrici, Simona Squadrito, da molto tempo. Come reagite alle analisi critiche sul vostro lavoro?
Sebastiano Impellizzeri: Simona ed io ci conosciamo da molti anni. Il nostro è un rapporto costituito principalmente da un lungo scambio di riflessioni che aiutano entrambi nelle nostre ricerche. Scambio di letture, visite alle mostre, sguardi sul nostro lavoro, indicazioni e commenti. La cura di questa mostra e l’analisi critica fatta sul mio lavoro sono anch’esse uno strumento di dialogo: conferma delle direzioni che intraprendo, formulazione di nuove domande, apertura di percorsi di indagine.
Nicola Melinelli: Le analisi critiche sul mio lavoro, mi servono sempre come cartina di tornasole, come metro di giudizio per comprendere l’effettivo funzionamento delle immagini che produco, diciamo come controprova delle mie idee. Quando parlando con Simona sento quelle parole, e quelle figurazioni, o suggestioni che mi danno conferma di un funzionamento, ecco in quel momento l’analisi critica ha raggiunto la sua massima utilità. Le pagine imbandite di asterischi servono poco a tutti, agli artisti in particolar modo.
Thomas Berra: L’approccio con Simona è differente dal classico rapporto Artista\critico. La considero più una sorta di guida dell’ignoto. Le analisi critiche vanno prese come quelle del sangue. Le leggi e non ci capisci niente. Roba da esperti
Lisa Andreani: Pittura atmosferica e continuità. Come vi vedete Sebastiano e Nicola posizionati su questa linea con Valentino Vago?
Sebastiano Impellizzeri: Dalla nascita di questo progetto molti hanno accostato il mio lavoro a quello di Valentino Vago. Credo che ciò che ci avvicini di più sia quel che potremmo indicare come “l’intenzione atmosferica”. Nel mio caso, tuttavia, riguarda lo spazio, in quella di Vago l’oggetto/opera. Ed è questa distinzione, a dire il vero, che segna la distanza delle nostre ricerche.
Nell’opera di Vago infatti mi sembra di trovare un’atmosfera che ha come confine la tela. Tutto avviene lì, in quelle immagini create dal colore e in quelle sfumature, custodite all’interno della cornice. Nel mio lavoro, invece, il quadro è solo un mezzo per creare un atmosfera. Che straborda dall’immagine per riversarsi nello spazio come sorgente di luce.
Per pittura atmosferica intendo la luce che il colore emana nell’ambiente, come proiettato dalle tele nello spazio circostante. Nel mio lavoro il colore ha in sé una funzione autonoma, che si basa sulle sue intrinseche qualità. Il colore è, in se stesso, luce. In natura, è la luce che crea il colore; in pittura, è il colore che crea la luce. Ogni tono e ogni sfumatura di colore emana una luce del tutto caratteristica: non esiste fungibilità.
Nicola Melinelli: Pittura atmosferica, e continuità sono indubbiamente due termini a me molto cari, specialmente in questa recentissima fase di lavoro, anche se onestamente sento una distanza con la modalità di lavoro di Vago.
L’opera di Valentino Vago indaga una continuità luminosa, un apertura paesaggistica, onirica, su territori fatti esclusivamente di luce, e in quanto tali, infiniti.
A me interessa invece dare un termine, sento la necessità di ingabbiare le aperture, una pittura romantica e paesaggistica serve per ammorbidire la spigolosità di una improbabile struttura an-architettonica che da un lato ci seduce e dall’altro ci respinge. Le strutture che progetto dentro la tela sono fatte di materia -e non di luce- cosi come di materia sono le invasioni vaporose o volumetriche, che contaminano lo spazio dipinto. I cieli sono tanto volatili, quando marini, e quando una nuvola si riflette su uno specchio d’acqua, ti piace quasi pensare che stia li, sotto il livello del mare, vaporosa e leggera, mobile e multiforme e non si amalgami all’acqua che la circonda, nonostante lei stessa, non sia null’altro che un nugolo, un batuffolo d’acqua, evaporata appena poco tempo fa, che quasi non t’accorgi e di nuovo piove giù nel mare.
Lisa Andreani: Considerando il termine tradizione dal latino traditio – movimento di consegna ma anche atto di tradimento – come leggete questa parola in relazione al fare pittorico degli artisti selezionati?
Rossella Farinotti / Simona Squadrito: “Tradimento” e “tradizione”, inseriti nel contesto dell’operazione che stiamo conducendo, non possono stare l’uno senza l’altro. L’idea di tradizione infatti si crea a partire dall’equilibrio che si instaura tra la demolizione e la costruzione.
La sfida dell’arte contemporanea sta nel trovare un equilibrio tra «la coazione a scegliere tra l’autoconservazione in condizioni di stabilità e l’incremento per via di esperimenti» (Peter Sloterdijk, L’imperativo estetico. Scritti sull’arte).
Gli artisti selezionati possono tradire la tradizione, consegnano al mondo una nuova regola, proprio perché partono da stessa: «quando la nuova regola o configurazione si afferma, il tradimento si trasforma in tradizione […] Proprio questo è il significato etimologico della tradizione: è la storia dei tradimenti passati.» (Ada Cortese, L’aspetto evolutivo del tradimento).
Il proseguimento della tradizione con il suo arricchimento o “tradimento”, aggiungendo o sottraendo nuovi elementi o regole, è una pratica che c’è sempre stata, è come sottoporre ad un secondo sguardo qualcosa che ci è già noto, l’emergere di questa nuova visione provoca un sentimento, che notoriamente in filosofia è chiamato meraviglia. Questo sentire non è altro che un sentimento di spaesamento difronte a qualcosa che conosciamo bene. E’ questo in fondo la matrice dell’operato degli artisti presenti in mostra, che guardando e proseguendo i modelli della tradizione attuano un esercizio di resistenza e militanza rispetto a quello che, secondo il filosofo Boris Groy, è l’essenza dell’arte contemporanea, ovvero quel carattere pluralistico volto a escludere la specificità dei linguaggi e degli stili arrivando a quella piatta e ipocrita “uguaglianza estetica di tutte le immagini”.
Lisa Andreani: Potete darci qualche anticipazione sulla prossima mostra? Chi saranno gli artisti coinvolti e il prossimo fil rouge?
Rossella Farinotti / Simona Squadrito: Più che indicazioni vere e proprie sulla seconda tappa di Stupido come un pittore, possiamo dare delle informazioni in merito alla ricerca che stiamo conducendo. Vorremmo, per la prossima mostra, affrontare il tema della pittura figurativa. Rapportarci ai diversi immaginari possibili.
Non abbiamo ancora delle idee definitive, ci stiamo confrontando su alcune ricerche attuali, come ad esempio quelle di: Giovanni Copelli, Linda Carrara, Marta Ravasi, Thomas Braida, Michele Tocca, Valerio Nicolai e altri ancora.
Inoltre ci piacerebbe poter esporre una selezione di opere di Mimmo Germanà.