In occasione di Art City 2024, l’interno dell’Oratorio di San Filippo Neri di Bologna è posto a soqquadro e si trasforma in un paesaggio in penombra di barricate e rifugi, abitato da protesi postumane abbandonate. Qui si dipana l’impalpabile Storia di un onest’uomo, un “chiunque” che tenta di rintanarsi per sfuggire alle oppressioni un mondo in costante emergenza. L’installazione site-specific di Luca Monterastelli (Forlimpopoli, 1983), curata da Alessandro Rabottini e proposta fino all’11 febbraio nell’Oratorio da Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna in collaborazione con la Galleria Lia Rumma, ci parla della crisi del presente con le vestigia di un futuro che, apparentemente, è già stato. Abbiamo chiesto all’artista di rievocare questo racconto per noi.
Federico Abate: Ci puoi descrivere l’installazione che hai concepito per l’Oratorio di San Filippo Neri?
Luca Monterastelli: Essendo un luogo così connotato ho deciso da subito che fosse necessario inserire le opere che avevo in mente all’interno di un’installazione che ne tenesse conto. Ho dunque disegnato degli ambienti in alluminio: vani di una sola dimensione corporea, unità architettoniche minime come delle garitte, delle cabine elettorali o degli spogliatoi, destinati ad ospitare a loro volta altre sculture sempre generate sulle misure del corpo. Volevo che questi biomi di metallo diventassero delle porte temporali dal cui limite il contenuto apparisse come un miraggio di un tempo percepibile, fermo, denso fino al lattiginoso. L’installazione si è poi mossa nella stessa direzione. Ho scelto di riarrangiare le panche, che normalmente compongono la platea dell’Oratorio, in modo da dare questa sensazione di un luogo lontano nel tempo anche se nel tempo presente. Quasi come quando da bambini si gioca nell’accumulo di un magazzino o di una soffitta e la luce che trapela dalle cataste di cose crea quella sensazione di un momento astratto dal tempo. Anzi, che rifiuta il tempo. Per questo si è consolidata questa storia di questa persona che rinnega il presente.
FA: Precisamente chi è l’“onest’uomo” di cui racconti la storia?
LM: Come dicevo, questo personaggio è quasi comparso in autonomia date le premesse. La vedo come una persona qualsiasi, un chiunque, che come chiunque vive con paura questi tempi su cui la storia ha ripreso a marciare in modo terrificante. Vediamo tutti giorni il rischio che questo accumulo di paura porta con sé e come è utilizzata per continuare a legittimare ogni violenza che l’occidente si sente in diritto di ignorare. Credo, così, che questa figura qualunque sia consumata dal desiderio di rimpicciolire il mondo solo alle cose vicine, a ricalibrare la propria scala di valori a un’area raggiungibile a mano, toccabile, a fare finta che il mondo fuori non sia poi così in burrasca e che il buio che avanza dall’orizzonte sia controllabile, o che almeno non lo riguardi. Ho pensato come creda di meritarselo, lui. Che valutasse la sua vita come ben vissuta e a come sia disposto a qualsiasi compromesso pur di essere lasciato in pace, certo della propria caratura morale.
Ho pensato tanto ad una figura così ma non mi è riuscito di definirla più di quanto detto: rimane un’ombra, una sagoma in controluce di un rischio che non possiamo correre. Gli ho costruito tutto attorno questo rifugio in cui lo immagino aggirarsi mentre ammira nella penombra la sua collezione di armature funzionali, disposto a sopperire a un’estetica che allo stesso tempo ne decora ma mortifica i movimenti. Me lo sono immaginato così, al buio che cerca come può di chiudere tutti gli spifferi del Reale che fuori soffia sempre più forte.
FA: L’Oratorio settecentesco reca al suo interno ampie cicatrici dei bombardamenti avvenuti il 29 gennaio 1944. In che modo ti sei interfacciato con il contesto e con il suo portato storico?
LM: La connotazione del luogo, come dicevo, non è indifferente. Le ferite lasciate dall’ultima guerra sono state lasciate molto presenti dall’ottimo restauro e credo che questo contribuisca a consolidare la magia del posto. Come associazione mentale posso dire che il primo istinto che mi ha portato a pensare alla mostra come a un rifugio sia da imputare alla vicinanza semantica leggibile dai traumi subiti dal luogo. Di sicuro sono stati i segni che hanno connotato la mia scelta in modo più incisivo.
FA: Riguardo a questa installazione hai scritto che si concentra sulla scultura intesa come segno applicato al corpo, come “opera indossabile, capace di amplificare i gesti e mortificarli”. In quest’operazione pare essere insita, pertanto, una certa ambiguità tra l’idea di un sostegno o supporto e quella di un ostacolo alla più congrua articolazione dei movimenti; dunque, anche tra la libera espressione di un pensiero e la sua repressione? Come si relaziona l’installazione rispetto alla corporeità del visitatore?
LM: Sì, mentre ti stavo rispondendo mi sono reso conto che potrei azzardare a definire l’intera installazione quasi un’opera morale. Alla fine è un lavoro che, se accolto, vuole forzare non solo una riflessione sulla nostra posizione etica, cioè su come affrontiamo lo spazio politico del nostro tempo, ma che anche obbliga a una scelta conseguente.
Ci sono questioni che riguardano l’orrore che non sono di certo una novità ma che abbiamo ingenuamente creduto facessero parte ormai del passato, mentre, semplicemente, accadevano altrove. Ora riappaiono come fantasmi che ci fanno volgere lo sguardo mentre avanzano. Comunque, credo che lo spettatore possa “sentire” come questi oggetti si misurino al suo corpo, come potenzialmente lo potrebbero abitare e mi piace pensare che ne pensi anche le conseguenze. Ogni protuberanza, ogni protesi e aggiunta al corpo porta in sé la duplice questione dell’amplificazione del gesto e della sua censura. Credo che tutto si riduca ancora alla questione dell’onest’uomo che ti dicevo prima e a quanto saremo capaci di gestire queste pulsioni.