“More & more about less & less”: questa formula presa in prestito da Ad Reinhardt si addice a spiegare, nell’immediatezza di una frase nominale, la pittura di Stephen Rosenthal (Washington D.C., 1935). È ciò che sostiene Riccardo Venturi nel testo critico che accompagna la seconda personale dell’artista negli spazi della galleria P420 di Bologna, dal titolo Notations (fino al 15 giugno). In mostra una serie di opere su tela e su carta prodotte tra 2019 e 2022, rappresentanti l’ultimo sviluppo di una ricerca che si innesta direttamente sulla precedente serie Constellations, già presentata alla P420 nel 2018. Il titolo di quella serie allude alle “costellazioni” di segni appena accennati che emergono di volta in volta dalla superficie bianca del supporto di ogni opera, come tante foto di un telescopio spaziale puntato verso lo spazio profondo. Tracce scabre e resecate di colore, che sono il risultato di un processo di depauperamento della pittura fino alla soglia minima per poter essere ancora considerata tale: nell’iter di realizzazione, se in una prima fase davvero Rosenthal dipinge nel senso più proprio del termine, successivamente interviene con stracci e solventi sul colore steso in precedenza, operando per via di levare. Quasi tutto è rimosso; ciò che rimane è un residuo non-significante di pittura volutamente o casualmente risparmiato. Scarificato e ferito, assume un aspetto che nessuna azione pittorica costruttiva potrebbe mai sperare (o si è mai curata) di ottenere.
Vale a dire, macchie informi e slabbrate che occupano abusivamente un’area uniforme; oppure, se si vuole ricorrere ad una metafora che getta un’aura inopportunamente solenne e romantica su un processo realizzativo meccanico, i corpi dei caduti abbandonati su un campo di battaglia. Dopo questo tuffo vertiginoso verso il grado zero della pittura, meta ossessivamente ricercata da intere generazioni di artisti sin dalla fine degli anni Sessanta, negli ultimi anni Rosenthal ha rallentato e invertito il senso di marcia, aggiungendo un nuovo step di lavoro. Dopo la cancellazione subentra una rinnovata tensione costruttiva, che delinea lo scheletro caotico di una sintassi segnica scabra, fatta di scarabocchi a matita che entrano in tensione con i grumi di colore. Se nella storia dell’arte il disegno ha ricoperto per molto tempo il ruolo di strumento preparatorio per fissare sul supporto un primo abbozzo compositivo, che poi avrebbe lasciato il posto al ductus pittorico, in queste opere il tratto a matita è investito di un ruolo generativo autonomo. L’occhio non può che interrogarsi sull’esistenza o meno di una correlazione semantica tra questi segni tanto diversi, aggregati in uno pseudo-linguaggio derelitto. In questi sistemi caotici che fluttuano incontrollati, una più salda parvenza di struttura di senso viene dalla presenza di numeri, parole o frasi brevi in latino e greco.
Ma il loro ruolo nel sistema rimane misterioso: non è dato sapere se si tratta di intrusi capitati per caso o di chiavi di accesso verbali a verità sconosciute. “Limen” e “alpha”, scritte presenti un po’ in disparte su opere che da esse prendono il titolo, sono forse messaggi provenienti da un altrove? Di fronte a questo ostacolo conoscitivo, probabilmente è più opportuno leggere tali aggregati di lettere che faticano a dirsi parole come segni grafici impegnati, insieme alle tracce di colore e agli scarabocchi, in una lotta per il dominio della tela o del foglio di carta. Così, se su alcuni fronti (ad esempio Untitled 09d, 2022 e Untitled inscript, 2022) i reticoli irregolari di grafite sembrano essersi imposti sui loro avversari, in Untitled 8.20 (2022) una singola macchia color ocra, minuscola e dispersa da qualche parte sulla superficie, basta a riempire lo sguardo. Là dove il caos è più gremito e denso di segni incontrollati, i titoli delle opere invitano a vedere strane mappe del cielo, come suggerendo che in qualche modo sia possibile muoversi all’interno di esse in virtù di una qualche relazione vigente tra i segni stessi (è il caso di Untitled skychart 6.11.21 o di Untitled sky chart alpha centaurus, entrambe del 2021); ma l’occhio inevitabilmente si perde nell’entropia. Data la natura stessa di questi caleidoscopi di segni guizzanti e aggrumati, le opere faticano a divenire autonome l’una rispetto all’altra. Sono tutte irripetibili nella loro accidentalità, ma così evanescenti da sfuggire beffardamente alla memoria.