Per poter descrivere l’opera grandiosa di Ettore Spalletti occorrerebbe usare le parole, quelle stesse parole che, davanti alla sua opera, risulterebbero sterili e apparentemente prive di significato. Provare a individuare quelle giuste, in grado di descrivere in modo completo la storia di questo gigante indiscusso dell’arte contemporanea italiana e internazionale, risulterebbe ridondante ed effimero, poiché basta la densa profondità delle sue creazioni a restituirne la grandezza.
Per poter raccontare il genio di un Maestro che ha scritto una fondamentale pagina di storia dell’arte del secolo scorso, occorrerebbe ritornare indietro agli anni della sua affermazione artistica nei primi Anni Settanta, anni nei quali la sua predilezione di forme geometriche pure e la completa dedizione nei confronti di quelli che diventarono i suoi colori di elezione: il bianco, il grigio, il rosa, il porpora e, primo fra tutti, quell’azzurro che gli riporta alla mente il colore del mare visto da bambino e il candore del cielo.
Una storia, quella di Spalletti, di un uomo artista spesso concentrato e solitario, per tutta la vita fedele al paese di Cappelle sul Tavo in provincia di Pescara, luogo che gli diede i natali. Una storia profondamente caratterizzata dall’uso del monocromo, che ne diventa chiaramente cifra stilistica che lo accompagnerà nel corso di tutta la sua produzione. L’immersione in quelle forme scultoree – ellisse, colonna, anfora – è una catarsi emozionale assoluta, che raggiunge una sfera altra, meditativa nell’atto di contemplare le campiture di colore, la cui matericità resta evidente nelle superfici, concentrato di substrato di pigmento. Tra le finiture in oro e le superfici che si distaccano dal muro sorrette da fragili matite bianche, perfettamente collocate ad incastrarsi nello spessore intangibile del pensiero, che spazia verso la dimensione dell’infinito, abbandonato nella poesia di queste opere, il cui stesso titolo è già evocazione – La Bella Addormentata (1975), Rosa, fior di pesco (2015), Dentro l’acqua. Napoli (2011), Il cielo entra in me come se io fossi trasparente (2017).
Non a caso Eric de Chassey – che firma la curatela della grande mostra retrospettiva che La Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma presenta al pubblico sino al prossimo 27 febbraio 2022 – prende in prestito le parole della celebre canzone di Gino Paoli – Il cielo in una stanza per l’appunto – a sottolineare quello stato d’estasi estetica che subentra quando l’occhio, talmente immerso nell’azzurro di quel cielo, non riesce più a definirne i confini, tanto che la stanza tutto intorno sembra non avere più pareti. Un’estasi che il curatore – già Direttore dell’Accademia di Francia a Roma a Villa Medici dal 2009 al 2015 e attualmente direttore dell’Institut National d’Histoire de l’Art (INHA) a Parigi – ha potuto provare personalmente e che, attraverso questa mostra, tenta di restituire al pubblico dei visitatori di oggi pur sapendo che non sarà possibile ricostruire esattamente la medesima esperienza, come egli stesso racconta: << Ho curato questa mostra con l’obiettivo di permettere ai visitatori della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di sperimentare quella gioia profonda, quell’esperienza improvvisa che ho provato visitando le mostre ideate da Ettore Spalletti quando era in vita, anche se so bene che si tratterà ora di una gioia diversa>>.
Seppur lontana nel tempo da quella provata dal curatore, l’esperienza di gioia si diffonde nello spazio dilatato del colore: l’azzurro si espande e si eleva verso il cielo.
Accompagnano a compendio delle opere nel Salone Centrale – generosamente concesse in prestito dagli eredi della famiglia presenti nello Studio Spalletti – una serie di lavori appartenenti alla collezione permanente della Galleria, presentati nell’allestimento come inserti di Time is Out of Joint.
Fino al 27 febbraio 2022, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma