Sophie Calle | Musée de la Chasse et de la Nature
Nella prima sala della mostra, al piano terra, c’è una fotografia di un ariete imbalsamato che Sophie Calle tiene a casa sua. Le corna a spirale coprono totalmente gli occhi: “Non vede più, ma senza aver perso la vista”. Sotto alla fotografia, c’è una cornice che contiene questo testo: “Quando mio padre si è ammalato, io mi sono ammalata. Ho avuto un Fuoco di Sant’Antonio e un infarto. Come se volessi costringere il medico a prendersi cura di sua figlia per l’ultima volta, o accompagnarla in questa prova, sposare la sua malattia, dileguandomi allo stesso tempo, grazie a questa scusa incontestabile, alla visione straziante di questo padre ormai debilitato. In sintesi. Fuoco di Sant’Antonio: abbassamento delle difese immunitarie. Infarto: morte di una parte di cuore. A differenza degli infarti detti dolorosi, il mio fu silenzioso. Fui minacciata di mutismo per la perdita imminente di quello sguardo che aveva guidato la mia vita”.
Tutto nasce a partire dalla morte del padre, il grande collezionista Bob Calle, medico francese, morto ultra novantenne a Parigi. Figura centrale nella vita e nel lavoro dell’artista, tanto da aver sempre detto che è solo per conquistarlo che ha cominciato a fotografare e a scrivere. L’arte di Sophie Calle attinge alla figura di quest’uomo il cui sguardo, per la prima volta, non si poserà più su una sua nuova mostra, che gli dedica. Sotto una fotografia delle mani di lui, incorniciata in una cornice spessa in legno di noce, sono riportato queste parole: “A Bob Calle, primo spettatore di tutte le mie mostre. Fino a questa. Il cui sguardo mi mancherà”. Esposto c’è anche uno schermo che riproduce, a intermittenza, una fotografia del padre anziano e un testo dell’artista: “Perché aveva 94 anni e sapevo che non gli restava molto tempo / Perché l’ho incrociato a FIAC e ho pensato che presto non avrei più sorpreso la sua silhouette nelle manifestazioni d’arte contemporanea / Perché ero sempre felice di vederlo e perché volevo conservare un traccia di ogni incontro / Perché portava il berretto che gli stava così bene / Perché aveva il dolce sorriso e lo sguardo malizioso, benevolo, che non inganna, dei giorni belli / Perché era davanti ad un quadro di un artista che ammirava / Perché su quest’opera c’era scritto SILENZIO / Perché lui rifiutava di farsi fotografare, per la sua bocca che non gli piaceva, e perché possiedo poche immagini di lui […]”.
La morte, d’altra parte, è un aspetto centrale nel lavoro dell’artista. In Italia era stato esposto il video degli ultimi 11 minuti della morte di sua madre, prima alla Biennale di Venezia, poi al Castello di Rivoli. Sophie Calle ha registrato per ore e ore sua madre sul letto di morte, non voleva rischiare di perdere una sua ultima parola, un suo ultimo sorriso. Voleva anche vedere e cogliere l’istante della morte. Invece i minuti di questo video mostrano quanto questo sia invisibile, e indicibile. Anche l’assenza è un aspetto ricorrente nel suo pensiero. L’assenza della madre e del padre, dell’uomo che ama, l’assenza della vista, l’assenza di soldi, l’assenza di idee. Sophie Calle crea un’arte che parte dalla sua vita, da situazioni vissute in prima persona. Si impone rituali e regole per vivisezionare il vissuto e per viverlo in modo obiettivo, scongiurando cadute sentimentali o stilemi emotivi. Si immerge in dinamiche ben studiate e in situazioni al limite della possibilità per giostrare il suo agire e, da qui, creare un’opera d’arte. Utilizza il linguaggio per scrivere testi super calibrati in cui vengono sondati pensieri e umori nei più intimi pori. L’elemento più personale perde l’emotività di chi lo vive e si dona allo spettatore spesso con ironia, con semplicità e schiettezza.
In mostra sono presenti lavori vecchi e nuovi, alternati da alcuni interventi e sculture dell’amica artista Serena Carone. Tra gli ultimi lavori, ci sono delle cornici con all’interno una selezione di annunci raccolti su giornali e siti d’incontri. Sono uomini in cerca di una donna, e la suddivisione dei testi è in base al tipo di ricerca messa in opera: donne alte, donne ricche, donne semplici, donne all’antica. Siamo al Musée de la Chasse et de la Nature, l’artista evidenza il linguaggio animale e predatoriale di questi brevi testi. Viene da sorridere, ma l’esposizione di un linguaggio così basso e diretto, la messa a parete sotto vetro e in una cornice di tutti quei messaggi che si leggono e inviano quotidianamente è alla fine un soppesare le modalità di comunicazione, la situazione in cui se ne serve, le tonalità precise.
Sono presenti testi provenienti da lavori vecchi, come Histoires Vraies, Suite Venitienne, Douleur Exquise… contenuti in piccole cornici kitsch con rappresentazioni animalesche, in plastica, ceramica o altri materiali. Le opere si camuffano, non le si vede. Lo spettatore va a caccia delle storielle che l’artista racconta. Va a caccia di Sophie Calle, sperando di potersi cibare, almeno per qualche giorno, di una nuova visione sulle cose che viviamo quotidianamente, per essere sorpresi da un incontro fortuito, per essere invogliati a forzare le situazioni, a vivere nei panni di un altro, a leggere per davvero i testi che abbiamo a disposizione. Insomma, Sophie Calle apre gli occhi a se stessa ma lo fa in un modo tale da aprirli a noi, che ad occhi aperti la guardiamo fare.
César | Centre Georges Pompidou
Nella Galerie 1 (sesto piano) del Centre George Pompidou c’è la mostra di uno dei grandi tutelari del Nouveau Réalisme, César, curata dal direttore del Museo nazionale d’arte moderna di Parigi, Bernand Blistène, con la collaborazione di Bénédicte Ajac e Hervé Derouault. Il percorso espositivo, pensato da Laurence Lebris, segue la successione cronologica della produzione di César, privilegiando le linee di ricerca che hanno caratterizzato il lavoro dell’artista. L’intento scenografico è quello di non ostacolare mai la vista della città dello spettatore, come per comunicare il forte legame che César ha avuto con essa. Nato a Marsiglia nel 1921, si trasferisce nella capitale francese nel 1946, dove incontra il lavoro di August Rodin, Alberto Giacometti, Germaine Richier e Pablo Picasso e da cui subirà un’influenza determinante per il suo lavoro. In questi anni scopre la saldatura ad arco e comincia a fare i suoi primi Fers Soudés, servendosi di piccoli pezzi di metallo – viti, bulloni, chiodi, tubi, etc. – per creare delle figure animali – gallo, scorpione, pipistrello – oppure umane – nudi, torsi, teste. Sono gli anni in cui produce le prime Ailes e Plaques, in cui si intravede già il gusto per la modularità e la ripetizione, per l’accumulazione, la giustapposizione e l’interesse per i materiali e il colore, come si percepisce nell’utilizzo dei diversi oli sulle superfici per ottenere risultati differenti. Si arriva così all’arco temporale 1959-1970, caratterizzato dal marchio di fabbrica che lo rese poi riconoscibile internazionalmente, e richiestissimo. Sono le Compressions, inizialmente quelle che lui chiama “dirigées”, in cui sceglie gli elementi di base a seconda del materiale, della forma e del colore, per poi disporli nei compressori al fine d’ottenere ricercate e volute strutture interne, calibrate attraverso lo studio della stessa pressione con cui portare a termine il processo, per ottenere un oggetto semplice e una massa precisa all’interno dello spazio, omogenea nel colore, nella resa superficiale, nelle invaginazioni interne. Il culmine del processo porterà alla compressione delle automobili, come per Dauphine 1959, dove la macchina rossa è stata appiattita ma non compressa, mantenendone invariate larghezza e lunghezza, conservando l’essenza di auto per non farla diventare cubo, in un’azione che lascia questa volte al caso della macchina il risultato finale.
Il capitolo successivo è quello delle Empreintes Humaines, nate a partire dal 1963 con la scoperta di una tecnica di “non intervento” come il pantografo e le resine sintetiche: nasce così la prima impronta del suo pollice, ingrandito di 45 cm e fatto in resina arancione. In mostra sono presenti le impronte del pollice e del seno di Crazy Horse, ricolmi di una sensualità che César ricerca nelle pieghe del dito (di per sé elemento fallico e legato al sesso per storia), nella texture e nei colori dei materiali, nella gobbosità del capezzolo bucherellato… I materiali spaziano dalla plastica, al nickel, al bronzo, al marmo fino addirittura allo zucchero. “Ingrandire un dettaglio significa dire che da una forma a tre dimensioni arrivo a una sorta di epurazione monumentale”.
La ricerca dei materiali e del colore domina anche un’altra serie-icona della scultura del Novecento, le Expansions, in cui la sensualità adiposa delle forme morbide ottenute dall’esplosione delle nuove sostanze sintetiche come il poliuretano espletano la capacità-possibilità dell’artista di giocare con i materiali e le forme, rispondendo al desiderio di uno scultore come César di “donare alla scultura una presenza sempre più forte” (Bernard Blistène). Le due sezioni seguenti presentano gli Enveloppages – con macchine da scrivere, macina caffè, telefoni “incartati” in fogli spessi di plexiglas trasparente – e un’altra serie di collage fatti con pezzi ferrei di recupero. A concludere la mostra sono le ultime Compressioni, quelle realizzate dal ’76 al ’98, in cui le automobili vengono compresse in forme più libere e non più studiate come agli inizi, in cui compare dominante il tema del monocromo, in cui il pensiero di rivolge anche alla parete, dove sono affisse le compressioni forse più belle, quelle dei cartoni, dei sacchi di juta, delle cassette di legno, dei giornali, in cui il materiale e il colore si addolciscono, la tecnica sfiora la perfezione e la parete trasforma quello che finora avevamo visto come scultura in qualcosa d’altro.
Dada Africa | Musée de l’Orangerie
Questa mostra è un’attenta ricerca filologica e scientifica dell’influsso che istanze artistiche e culturali extra europee hanno avuto sul movimento Dada, nato a Zurigo nel 1916 durante la Grande Guerra e propostosi da subito come contraltare rispetto ai valori tradizionali della cultura dominante in Occidente in quegli anni. Ciò che porta in Europa le diverse occasioni di incontro con le culture dei paesi extra-europei sono mercanti e collezionisti, ma anche eventi come le “Soirées nègres” del Cabaret Voltaire, fondato nel ’16 a Zuricho dal poeta Hugo Ball; le mostre proposte dalla galleria Coray sempre a Zurigo, che presenta oggetti africani affianco ad opere dadaiste. Sono gli anni in cui Tzara scrive la “Note sur l’art nègre” e in cui Marcel Janco, Sophie Taeuber-Aro e Hannah Höch si scontrano con la nozione d’autore e vanno in cerca di nuove suggestioni formali. Sono interessi nati già prima, in artisti come Gauguin attratto per la Polinesia; in Matisse, Derai, Vlamick, Picasso e Braque che videro nelle arti africane e oceaniche feconde fonti iconografiche per le loro opere. Lo stesso si può dire per il gruppo Die Brücke in Germania. Ma con il Dadaismo l’interesse diventa ricerca critica attualissima e radicale.
Insomma, questa mostra – creata in collaborazione con il Museo Rietberg di Zurigo e la Berlinische Galerie – propone un confronto tra dadaisti e culture non europee, per sondarne influenze e confluenze. L’allestimento stesso offre sempre accostamenti chiari e diretti che consentono di cogliere le assonanze che danno alle opere dadaiste un ancoraggio storico e culturale che talvolta può sfuggire. Dipinti, sculture, collage, fotografie…anche la tecnica più innovativa e avanguardistica del periodo può cercare nel tribale e nell’ancestrale la sua origine più profonda.
Être moderne: Le MoMA à Paris | Fondation Louis Vuitton
La mostra nell’edificio parigino di Frank Gehry è un sunto accademico di storia dell’arte, a partire dall’età moderna fino alla stretta contemporaneità. Un sunto filtrato da ciò che i vari direttori e comitati scientifici del MoMA hanno decretato come adatto ad entrare nelle collezioni del museo-musealizzante per eccellenza. Anche un po’ per sgombrare le sale del museo newyorkese durante i lavori di ampliamento, è stato scelta la Fondation Louis Vuitton come palcoscenico in cui mostrare alcune delle opere più importanti che il MoMA possiede. Le 200 opere scelte da Glenn D. Lowry (direttore del moma) e Quentin Bajac (The Joel and Anne Ehrenkranz Chief Curator of Photography) vanno ad occupare tutti i quattro piani dell’istituzione, divisi cronologicamente per sale.
Andando per “masterpieces”, nella galerie 1 troviamo il Bagnante di Cézanne, L’Atelier di Picasso, fotografie di Walker Evans e fim di Edwin Middleton. La seconda sala condensa diverse correnti europee, come il Postimpressionismo (Signac, Opus 217), il Futurismo (Boccioli, Gli stati d’animo), le grandi figure del Novecento (Picasso, Jeune Garçon au cheval; Matisse, Poissons rouges et Palette, Paris, quai Saint-Michel; Klimt, Espoir 2; Max Beckmann, Le Départ), il Dadaismo ((Picabia, M’Amenez-y), il Surrealismo (De Chirico, Gare Montparnasse (La Mélancolie du départ) ; Dalí, Persistance de la mémoire ; Magritte, Le Faux Miroir) e l’astrazione (Mondrian, Composition en blanc, noir et rouge; Malevitch, Composition suprématiste: blanc sur blanc). Ma non mancano film (Eisenstein, Disney), fotografie (Lisette Model, Alfred Stieglitz) e grafiche (Gustav Klutsis). Viene reso poi il passaggio di testimone della modernità dall’Europa agli Stati Uniti attraverso l’Espressionismo astratto di Pollock (Echo No. 25; The She-Wolf), Mark Rothko (No. 10), Willem de Kooning (Woman I) et Barnett Newman (Onement III).
La Galerie 4, invece, ci porta nel mondo della Minimal e della Pop Art: Sol LeWitt (Wall Drawing #260), Ellsworth Kelly (Colors for a large wall), Frank Stella (The Marriage of Reason and Squalor, II), Carl Andre (144 Lead Square); Mies van der Rohe; Andy Warhol (Double Elvis; Campbell’s Soup Cans; Screen Tests), Roy Lichtenstein (Drowning Girl), Romare Bearden (Patchwork Quilt); Diane Arbus (Identical Twins).
Il primo piano, con le gallerie 5 e 6, ci introduce nel bel mezzo degli anni ’60 con le ricerche volte attorno al corpo e all’identità, tradotte nella rivisitazione totale della forma classica che porta a installazioni, azioni, performance, video, light box, danza: Philip Guston, Christopher Wool, Joseph Beuys, Cady Noland, Felix Gonzales-Torres, Bruce Nauman, Jeff Wall, Barbara Kruger, David Hammons, Juan Downey, Lynn Hershman Leeson, Yvonne Rainer, Laurie Anderson, Cindy Sherman.
Al secondo piano, altra storia, altro rapporto col mondo, altra cultura, altro bagaglio. Si parte con Measuring the Universe di Roman Ondak e si arriva ad opere di artisti di tutto il mondo per la maggior parte acquistate negli ultimi due anni: Iman Issa; Egypte et Asli Cavusoglu; Turquie; Mark Bradford ; Rirkrit Tiravanija; Trisha Donnelly; Cameron Rowland; LaToya Ruby Frazier; Lele Saveri; Rem Koolhaas; Jens Eilstrup Rasmussen; Ray Tomlinson; Tomohiro Nishikado; Dave Theurer; Ian Cheng; anet Cardiff.