

“Una finestra per vedere, una finestra per sentire”, scriveva la poetessa Forugh Farrokhzad; oggi, a distanza di anni, i lavori dell’artista iraniana Shirin Neshat diventano quell’apertura per osservare e capire, ma principalmente per decostruire le categorie tradizionali sia del pensiero orientale che quello occidentale.
Arrivata negli Stati Uniti nel 1974 per studiare arte, Neshat rientra per la prima volta in Iran solo dopo la Rivoluzione Khomeinista, trovando un paese profondamente cambiato dalle leggi integraliste. Sin dagli esordi l’artista sente il bisogno di raccontare e documentare il controllo oppressivo da parte dei fondamentalisti, l’abrogazione dei diritti e più in generale il ruolo che le donne rivestono nella cultura islamica. Attraverso diversi mezzi espressivi, tra cui foto e video, Neshat osserva la realtà, mantenendo uno sguardo lirico e pieno di pathos, nonostante la forte impronta politica.
Il PAC – Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano dedica all’artista iraniana un’ampia mostra personale che ripercorre gli ultimi trent’anni della sua carriera, dalle prime opere degli anni Novanta fino alle più recenti produzioni. La retrospettiva curata da Diego Sileo e Beatrice Benedetti raccoglie oltre duecento foto e una decina di video-installazioni che offrono una visione completa sulla sua evoluzione artistica. «Un lavoro molto personale ma non autobiografico, in cui vedo però tutta la mia vita» spiega la stessa artista.
La mostra antologica riflette sullo stigma al quale il corpo femminile è stato ed è sottoposto, come suggerisce già l’enigmatico titolo “Body of Evidence”, in cui l’impunità degli oppressori si mescola con le infinite prove dei loro crimini di cui Neshat dà ampia documentazione nelle sue opere. Il corpo della donna ferito, lacerato, violato diventa per l’artista il terreno di battaglia per una rivoluzione culturale.
Già nelle iconiche immagini in bianco e nero della serie Women of Allah (1993-1997) la denuncia sociale si sublima in una profonda dimensione poetica. Neshat ritrae delle donne avvolte dal chador, alcune impugnano armi, sono coloro che hanno rinunciato alla loro stessa libertà aderendo alle leggi della rivoluzione Kohmeinista; altre riportano nelle parti scoperte (il volto, le mani o i piedi) motivi decorativi ma anche versi in lingua farsi che rompono il silenzio imposto dallo Stato dell’Ayatollah.



Anche in The Book of Kings (2012) ritroviamo la stessa pratica calligrafica, in questo caso i testi impressi con l’inchiostro nero nelle fotografie riflettono sulla forza rivoluzionaria delle giovani generazioni iraniane in seguito alle proteste post-elettorali contro il governo avvenute nel 2009.
La repressione sistematica e crescente delle donne in Iran è un tema che ritorna in maniera ancora più perturbante in una delle sue ultime opere cinematografiche, The Fury (2023), nel quale l’artista porta alla luce la ferocia fisica e psicologica alle quali sono sottoposte le prigioniere politiche nelle carceri iraniane, vittime di torture e violenze sessuali. Un percorso a ritroso, dove il vero protagonista è il trauma inflitto nel corpo e nella mente della donna, adesso libera dalle mura della prigione ma non dalle atrocità subite.
Eppure, il fanatismo non riguarda solo l’estremismo islamico: la stessa Neshat durante la presentazione della mostra alla stampa non risparmia la sua delusione nei confronti dell’attuale amministrazione americana e la sua preoccupazione verso l’ascesa dei regimi autoritari.
Dopo quasi vent’anni di autoesilio negli Stati Uniti Neshat ha lasciato andare quel sentimento di profonda nostalgia che un tempo la legava alla sua terra. Tuttavia, questo legame viscerale non si è mai dissolto; ha solo cambiato forma, diventando più evanescente, quasi onirico. Un esempio emblematico di questa trasformazione è il video Soliloquy (1999), dove il vincolo con l’Iran si manifesta come un sogno sospeso tra due mondi, un dialogo silenzioso tra passato e presente, assenza e memoria, tra la sua origine e la nuova realtà nomadica. La dicotomia tra Oriente e Occidente riemerge nella pellicola girata in New Messico, The land of dreams (2019). In questo lavoro l’artista intreccia le trame sottili che uniscono la società statunitense a quella iraniana, mostrando come la morte e l’abbandono siano esperienze drammaticamente condivise da tutti gli esseri umani.
La sua ricerca ci invita a riflettere sulla weltanschauung in termini dualistici contrapponendo potere e religione, razza e genere, sogno e realtà, individuo e collettività. Ma è la stessa Neshat a ricordarci che l’artista ha il compito di “parlare del mondo e al mondo”, e di come l’arte, quindi, debba avere linguaggio universale.
Cover: Shirin Neshat Roja, 2016 Stampa ai sali d’argento Copyright Shirin Neshat Courtesy l’artista Gladstone Gallery







