Dallo scorso 3 dicembre il pavimento dello spazio espositivo di LABS Contemporary Art a Bologna è ricoperto di una nuvola di piume. La mostra Fino a tardi, che espone i lavori dei membri del collettivo SenzaBagno (Francesco Alberico, Simone Camerlengo, Lucia Cantò, Matteo Fato, Lorenzo Kamerlengo, Gioele Pomante, Gianluca Ragni, Letizia Scarpello, Eliano Serafini), reca le tracce di una battaglia di cuscini, avvenuta nella galleria nell’arco di una notte (visitabile fino al 14/01/23). Il curatore Saverio Verini ci parla della genesi e dello sviluppo del progetto.
Federico Abate: Fino a tardi invita a riflettere sugli attriti interni ai collettivi e sulle difficoltà che emergono nell’organizzazione di una mostra, quando diverse individualità devono arrivare ad un compromesso. In questo caso, i membri di SenzaBagno – per la prima volta riuniti tutti assieme nello stesso luogo espositivo – hanno messo in atto uno scontro notturno, i cui esiti rimarranno visibili per tutta la durata della mostra. Ci spieghi meglio come è andata? L’allestimento che vediamo è il frutto di una tregua?
Saverio Verini: Ogni mostra è un terreno di confronto e, talvolta, anche di scontro. Soprattutto se si tratta di una collettiva che coinvolge nove artisti che si conoscono e frequentano da anni, in alcuni casi nati e cresciuti negli stessi luoghi, compagni di scuola e accademia. La genesi della mostra ha inevitabilmente portato con sé tensioni e conflitti, momenti di esaltazione e altri di stasi e indecisione: dalla scelta del titolo alla data, passando per le proposte legate all’allestimento… Niente di straordinario, accade spesso: tuttavia abbiamo pensato che giocare a carte scoperte, evitando di celare queste frizioni, potesse far scaturire un’energia inaspettata. In fondo, era importante che risultasse non soltanto una mostra collettiva, ma la mostra di un collettivo. Così gli artisti hanno deciso di passare una notte in galleria e, prima di allestire le proprie opere, compiere questo gesto – una battaglia di cuscini – a metà tra simulazione di guerra e gioco di bambini. Come suggerisci, quella della tregua può essere una delle chiavi di lettura dell’azione; ma credo che sia stato anche un modo per prendere confidenza con lo spazio o, come ha detto uno degli artisti, Matteo Fato, un espediente per “stancarsi”, lasciando che le tensioni si sciogliessero in un atto liberatorio e ludico. Ciò che è visibile a terra, in galleria, è il residuo di quella notte trascorsa nello spazio espositivo.
FA: Le opere esposte alle pareti sono piuttosto eterogenee nei formati e nelle tecniche impiegate e non sono accomunate da un tema specifico. In questo modo, nonostante si tratti della mostra di un collettivo, sono le singole personalità ad essere protagoniste. Cosa ci dicono i lavori esposti dei rispettivi autori e autrici?
SV: Nella scelta delle opere, tutte realizzate per l’occasione o mai esposte prima della mostra, abbiamo cercato di individuare lavori che potessero condensare la poetiche di ciascuno degli artisti invitati. Se non fosse per il caos di piume e cuscini sparsi nello spazio, l’allestimento sarebbe piuttosto tradizionale: tutte opere a parete, con una distanza tale da permettere a ogni lavoro di avere un “respiro”, lasciando a ognuno il proprio spazio di fruizione. Quest’aspetto era molto importante, proprio per permettere una lettura delle singole pratiche: l’interesse per la contaminazione tra regno animale e oggetti industriali nella scultura di Eliano Serafini; la riflessione sulla pittura a partire da un elemento della cultura popolare come il cruciverba nel dipinto di grande formato di Simone Camerlengo; il rapporto tra parola, poesia, corpo e le relazioni che ne possono scaturire nelle fotografie di Lucia Cantò; le vie attraverso cui un’immagine può prendere forma, passando da uno stato quasi gassoso a uno più “concreto”, nel dipinto di Gianluca Ragni; l’inversione di scala e il passaggio da disegno a scultura nei bassorilievi in calcestruzzo di Lorenzo Kamerlengo; le interazioni sorprendenti tra scultura e fotografia nei moduli in gommapiuma messi in posa e fotografati da Letizia Scarpello; la capacità di un gesto “iconoclasta” – una mazzata – di generare immagini nel dittico di Matteo Fato; l’attitudine ironica e insieme nostalgica nelle “cartoline dalla terra” di Gioele Pomante. C’è poi l’intervento di Francesco Alberico, la cui realizzazione è stata delegata agli altri componenti del collettivo a causa dell’assenza dell’artista, che al momento vive lontano dall’Italia: una scritta a mano che appare in più punti della galleria, esile e quasi impalpabile, con la parola “decision” tagliata da una barra che la attraversa, di fatto negandola. È un’opera che mi sembra possa racchiudere lo spirito della mostra, sottolineandone i conflitti e le contraddizioni che l’hanno generata, ma anche lo spirito di gruppo e il farsi carico dell’altro.
FA: In un certo senso, sembra che le divergenze tra gli artisti e le artiste siano più evidenti delle loro affinità. In che modo le differenze nella poetica e nelle modalità di lavoro dei membri di SenzaBagno possono essere considerate un loro punto di forza, come gruppo e come singoli?
SV: Non so se queste differenze siano un punto di forza o meno. Sono, semplicemente, la manifestazione di espressioni e visioni, che in alcuni casi presentano degli interessi comuni. La cifra della mostra, al di là di affinità e divergenze, sta proprio nell’aver creato, attraverso la battaglia di cuscini, un habitat, un terreno comune su cui “poggiare” e far convivere le opere, almeno credo. E mi piace il fatto che, attraverso questa scelta allestitiva, lo spazio della galleria risulti trasfigurato, con conseguenze anche sull’esperienza del visitatore. Da questo punto di vista, non posso che essere grato al titolare di Labs Contemporary, Alessandro Luppi, per l’opportunità che ha dato a me e agli artisti di sviluppare un progetto espositivo in totale libertà, aprendosi a un tipo di mostra che finora, forse, non aveva mai avuto modo di ospitare.
FA: Nel testo critico richiami il film Zero in condotta (1933) di Jean Vigo, in cui alcuni ragazzini oppressi dalle regole soffocanti e insensate del loro collegio si armano dei propri cuscini per ribellarsi e riconquistare la libertà di essere se stessi. La mostra, animata da uno spirito che te definisci ludico e “guascone”, vuole dunque ironizzare sulla rigidità del sistema dell’arte?
SV: Trovo che tutte le iniziative di SenzaBagno siano caratterizzate da un’attitudine “sbarazzina” e da uno sguardo talvolta irriverente. Credo si tratti di una manifestazione di esuberanza e vitalità che appartiene alla loro storia personale, prima ancora che artistica; un approccio spontaneo che probabilmente cozza con una certa impostazione della scena artistica, anche se non sono sicuro che fosse loro intenzione muovere una critica al sistema.
FA: Nel testo rifletti anche sulla tendenza diffusa, negli ultimi anni, al recupero di pratiche di lavoro collettive – fai anche un preciso richiamo all’ultima edizione di dOCUMENTA. Noti che, in fondo, sin dalla fine dell’Ottocento gli artisti tendono ad unirsi in gruppi per finalità sia ideologiche che pratiche, ma ti sembra anche che negli ultimi tempi “la carica politica e l’impeto ideologico abbiano ceduto il passo a una dimensione più legata al fare: meno manifesti e più mostre, meno critica al sistema e, forse, più voglia di farne parte”. Ti va di approfondire queste considerazioni?
SV: Rimanendo in Italia, mi sembra che alcuni dei gruppi e collettivi artistici emersi negli ultimi tempi siano nati più per una spinta “pratica” che non attorno a manifesti o dichiarazioni programmatiche come accaduto con i movimenti d’avanguardia a inizio ‘900. Penso a diversi studi condivisi e a spazi indipendenti gestiti da artisti: mi sembra che la loro motivazione principale sia legata al creare le condizioni per presentare il proprio lavoro e quello di coetanei che si trovano nella stessa condizione, per condividere, per provocare occasioni di scambio con altri spazi indipendenti e fare rete. Naturalmente in tutte queste iniziative c’è una dimensione intrinsecamente politica, ma trovo che sia meno esibita, almeno parlando delle realtà che conosco più da vicino. Questo non vuol dire che non ci sia una sensibilità o un interesse per certi temi, come dimostra la nascita di Art Workers Italia, associazione dedicata alla tutela dei lavoratori dell’arte e del mondo della cultura in generale, animata da moltissimi artisti e operatori del settore.
FA: Questa rinnovata voglia di riunirsi in comunità è riscontrabile anche nella scena artistica italiana? Quali sono le realtà italiane che ritieni più interessanti da questo punto di vista?
SV: A Roma, dove vivo, negli ultimi anni sono nate tantissime realtà fondate su una dimensione collettiva: Spazio in Situ, Castro, Post Ex, Spazio Mensa, Paese Fortuna, Numero Cromatico, Spazio Y, Condotto48, Ombrelloni, Porto Simpatica… Credo che, al momento, sia la città in Italia con più fermento, capace di rinnovare l’eredità di artisti come quelli della Nuova Scuola Romana, che, verso la fine degli anni Settanta, avevano deciso di stabilire i propri atelier negli spazi dell’ex Pastificio Cerere, nel quartiere di San Lorenzo. Lasciando da parte il contesto romano, trovo che l’attività di Gelateria Sogni di Ghiaccio, spazio diretto dall’artista Mattia Pajè a Bologna, sia tra le più stimolanti e meritevoli d’attenzione.