Rosalind Krauss ha analizzato con straordinario intuito le trasformazioni della scultura del XX secolo nei suoi passaggi dalla tradizione figurativa all’innovazione dell’arte concettuale degli anni Settanta (R. Krauss, Passaggi. Storia della scultura da Rodin alla Land art, terza ed. italiana Postmedia, 2022). La scultura, e con essa l’installazione, hanno sviluppato secondo Krauss una sintassi inedita intraprendendo una scalata, imprevista e imprevedibile, verso i nuovi orizzonti della poetica del campo allargato – che Krauss avrebbe ulteriormente esplorato in un celebre saggio del 1979 (Sculpture in the Expanded Field, pubblicato sulla celebre rivista October).
La potenzialità che la scultura ha assunto su di sé si è legata, per secoli, alla logica del monumento; pur tuttavia, l’ingresso nel campo allargato, ha consentito alla scultura e, con essa, all’installazione, di abbandonare un afflato propriamente devozionale – la scultura come monumento commemorativo e simbolico – per codificare una congerie nuova di attitudini e posizionamenti. Nel fare ciò, è stato chiaro come l’integrazione dello spazio – urbano e architettonico – nonché l’abbandono del basamento – e, per traslato, di quella consuetudinaria separazione tra terra e cielo che ha giocato un ruolo di astrazione e di scollamento dal campo del reale – abbiano consentito finalmente alla scultura l’ingresso nella modernità. Sviluppando un lessico specifico, questa evoluzione ha ben presto introdotto un vero e proprio shock concettuale: l’installazione, la liberazione dello spazio, la possibilità che la scultura potesse eternarne null’altro che sé stessa. Sembra evidente, a questo punto, che l’inclusione di elementi dai più considerati esclusivamente tangenti, se non accidentali – il tempo, lo spazio, la processualità – abbia ingenerato una nuova percezione, unita a un lessico rinnovato e a una nuova attenzione verso materiali e tecniche sperimentali. Alla pregevolezza del marmo e del bronzo si è accorpato l’utilizzo di materiali più effimeri e di tecniche variegate; forme inedite hanno risignificato la dimensione epistemica del corpo-scultura, configurandolo come un organismo lontano dalla conchiusa staticità del gruppo monumentale.
Che la città di Spoleto abbia legato la propria storia culturale all’eredità di Carandente e al suo sguardo acuto sulla scultura nello spazio urbano è cosa nota. “Sculture nella città”, la rassegna ideata e curata nell’ambito della V edizione del Festival dei Due Mondi del 1962, è solo uno dei tanti felici esempi dell’acume di questo grande critico e storico dell’arte, le cui riflessioni sulla scultura sono raccolte in un volume edito da Magonza, a cura di Antonella Pesola, intitolato “Giovanni Carandente e la scultura moderna. Scritti dal 1957 al 2008”. Questa stessa marcata sensibilità verso il medium è stata ribadita dalla direzione di Saverio Verini che ha curato, all’interno del programma invernale di Palazzo Collicola, al piano nobile, la mostra collettiva “Senza mai sfiorire. Densità e leggerezza nella scultura italiana contemporanea”, progetto nato in continuità con la mostra “La sostanza agitata”, che aveva proposto un’indagine sulla scultura contemporanea in Italia attraverso le opere di artisti under 35.
Giorgio Andreotta Calò, Francesco Arena, Micol Assaël, Francesco Barocco, Rossella Biscotti, Francesco Carone, Sara Enrico, Giovanni Kronenberg, Marzia Migliora, Fabrizio Prevedello e Giovanni Termini, Patrick Tuttofuoco sono gli artisti che, appartenenti alla generazione nata negli anni Settanta, hanno sviluppato una specifica sensibilità, contestuale alla loro ricerca, coniugando diversi aspetti che Verini rintraccia come imprescindibili all’interno di una più vasta comprensione della scultura come medium interpolato da energie e forze in contrasto: verticalità/orizzontalità; durezza/morbidezza; resistenza/transitorietà e così via. Attraverso l’impiego di materiali disparati, assemblati e lavorati spesso con una logica combinatoria che sottolinea un’attenzione radicalmente altra verso le potenzialità della materia, questi artisti non solo rappresentano una generazione capace di spingere il medium alla sua acmé, ma, allo stesso tempo, dimostrano una polifonia di soluzioni – formali, espressive, concettuali, progettuali – in grado di contraddire e sconvolgere gli stilemi più consolidati. La scultura in questo percorso espositivo appare come un contenuto in potenza, ovvero come qualcosa in grado di confrontarsi con lo spazio e di radicalizzare la nostra percezione della sintassi tra moderno e contemporaneo – a ciascun artista è stata dedicata una sala del piano nobile, in diretta continuità, o in contrasto, con le collezioni.
La mostra si apre, nel Salone d’onore, con il grande “Rosone” di Fabrizio Prevedello; i materiali industriali abitualmente impiegati dall’artista – l’acciaio, il vetro, la gomma – vengono assemblati a formare un grande oculo trasparente, una soglia tra dentro e fuori a ripensare il concetto di monumentalità quasi in chiave modernista. In “Senza Titolo” di Giovanni Kronenberg lo scarto dimensionale – un morbido cuscino ocra scuro, cinto da una spalla di armatura del XVIII secolo – innesca uno zoom in semantico, in continuità dinamica con il San Giorgio a cavallo di Raffaello e, più ampiamente, con un afflato sinestetico che della scultura fa un campo di forze, spesso oppositive e miracolosamente in equilibrio a formare un tutt’uno. “On Walking”, l’opera realizzata da Rossella Biscotti, è una piattaforma in cemento, lunga oltre quattro metri, che riproduce la passerella su cui l’artista ha camminato per molti mesi come esercizio fisioterapeutico. Undici passi al giorno: è questo il “cammino” che l’artista ha voluto riprodurre sulla piattaforma, lasciando le proprie impronte sulla superficie. Ritrasfigurata in cinque moduli di cemento accostati e poggiati direttamente sul pavimento, l’opera fa leva sui rapporti tra visibile e invisibile, tra il dinamismo della performance e la staticità della scultura, in cui i passi rimandano a una dimensione ambivalente, concreta e poetica. Niente affatto epigonale è la riflessione sul tempo e sul corpo come unità di misura di Francesco Arena; “Piccolo masso con ieri e oggi” è una scultura ottenuta a partire da un masso di pietra lavica dell’Etna su cui l’artista ha agìto due grandi fori passanti, contenenti i quotidiani arrotolati del giorno corrente e del giorno precedente, che vengono regolarmente sostituiti.
“seconda la volpe” di Micol Assaël è stata pensata appositamente per la Sala della musica a partire dal pianoforte storico presente nello spazio, sul quale l’artista ha lasciato cadere dei piccoli dadi in marmo, a cui fanno da contrappunto quelli con fonemi tratti dal giapponese collocati in diversi punti della stanza. Impiegando un materiale nobile come il marmo, ma invertendo sensibilmente la dimensione da grandeur che la storia ha spesse volte consegnato a questo materiale, Assaël introduce l’effimero, il tangente, l’episodico all’interno della dimensione auratica dello spazio nobile del Palazzo. I tre elementi in bronzo che compongono l’opera di Giorgio Andreotta Calò, “Scolpire il tempo”, traducono i pali in legno da ormeggio tipici della laguna di Venezia. Da subito evidente è qui il contrasto tra un materiale forte e durevole “piegato” a restituire l’erosione indotta dall’agire del tempo e del suo passaggio inesorabile. In questa tangenza, è chiara una tensione animica, presente qui come in altre opere in mostra, verso il tempo, la storia e, per traslato, il corpo. Quasi in risposta all’erosione dei tre elementi bronzei di “Scolpire il tempo”, l’emersione de “La Serpe” di Francesco Carone al di sopra di una moltitudine variopinta di palloncini, presto destinati a sgonfiarsi, dimostra una tensione diversa nei confronti dello scorrere del tempo. Francesco Barocco in “Senza titolo” combina disegno e scultura tramite l’associazione di un materiale come il gesso – un busto collocato su un alto basamento in ferro – che viene “modellato” con l’ausilio della grafite e del carboncino in modo da ottenere un volto suadente e fuori dal tempo, invertendo la lunga tradizione dei torsi antichi raffiguranti personalità note. Nelle sculture della serie “The Jumpsuit Theme”, Sara Enrico coniuga il cemento e il pigmento che – un po’ come accade per Barocco con gesso e grafite – suggeriscono, con la loro diversa densità, pattern formali e di movimento completamente inaspettati: torsione, flessibilità, morbidezza manifestano davanti ai nostri occhi un’anatomia inafferrabile eppure misteriosamente materializzata. “Prey” di Marzia Migliora si presenta come una vetrina da museo d’epoca vittoriana contenente un blocco di salgemma arpionato, come se fosse una preda. Questa immagine apparentemente semplice anticipa una responsabilità storica e politica nell’intendere gli strumenti di affermazione di potere e conquista. Il sale, prima moneta di scambio tra i popoli, diventa un simulacro del mare, visto nella sua cristallizzazione come spazio primordiale di vita. Per Giovanni Termini l’impiego e l’ibridazione di materiali industriali d’uso comune e seriali diviene funzionale ad erigere degli anti-monumenti installativi in cui l’aspetto ludico e strampalato si carica di una nota dolce-amara nella constatazione della loro fallibilità come oggetti funzionali. In “Circoscritta”, un cipresso sormonta una struttura solida e allo stesso tempo precaria, generando una tensione che si irradia nell’intera stanza. Nella Galleria di Palazzo Collicola il percorso espositivo si chiude idealmente con l’installazione al neon di Patrick Tuttofuoco, “Space Time (Honolulu)”: in questa scultura di luce, l’artista congela un attimo fugace, restituendone un’immagine fissa. La terribilità del fenomeno naturale, e la sua imprevedibilità, assumono una portata umana nella manifestazione a mo’ di fermo immagine di un punto di contatto straniante tra natura e tecnologia.
Cover: Giorgio Andreotta Calò, Scolpire il tempo, 2010. Bronzo, 158 × 27 cm; 134 × 22,50 cm; 137 × 24 cm. Veduta dell’opera nell’ambito della mostra Senza mai sfiorire. Densità e leggerezza nella scultura italiana contemporanea, a cura di Saverio Verini, Palazzo Collicola, Spoleto. Courtesy: l’artista e Nomas Foundation. Foto: Giuliano Vaccai