All’interno del Parco Naturale Regionale delle Dolomiti d’Ampezzo, precisamente nei boschi della piana alluvionale che il fiume Boite forma a nord di Cortina, si snoda il sentiero di Pian de ra Spines, sede della mostra I giardini d’Artemide, allestita nell’ambito della terza edizione di Sentieri d’arte, curata da Fulvio Chimento e Carlotta Minarelli e realizzata con il sostegno di Associazione Controcorrente e delle Regole d’Ampezzo. Lungo il sentiero sono state allestite opere di Italo Zuffi e Margherita Morgantin, che si vanno ad aggiungere a quelle realizzate da T-yong Chung in collaborazione con gli studenti del Liceo Artistico di Cortina in occasione di un workshop condotto in primavera. Questi lavori arricchiscono un percorso già costellato di interventi artistici, predisposti lungo lo stesso sentiero nella precedente edizione, intitolata Pupille, e realizzate da Benni Bosetto, Cuoghi Corsello, Dado e Maurizio Mercuri (la prima edizione, Arcipelago Fossile, aveva interessato anche il sentiero di Gores de Federa, dove sono ancora visibili gli interventi di Dado, Federico Tosi e dello stesso T-yong Chung). La rassegna Sentieri d’arte quest’anno prevederà anche una seconda mostra, intitolata Polline, che avrà luogo a partire da ottobre in Valle Intelvi.
Il titolo della mostra di quest’anno prende ispirazione dal volume Dolomiti cuore d’Europa, scritto dal poeta e scalatore di origini ampezzane Giovanni Cenacchi, che dedica un capitolo anche al sentiero di Pian de ra Spines, descrivendolo come un “regno delle linee curve”, quelle dei boschi alle pendici delle pareti rocciose e delle anse del fiume. I greci, secondo Cenacchi, avrebbero consacrato questo territorio ad Artemide, dea della caccia e dei boschi; le installazioni rilanciano questa suggestione, caratterizzandosi ambivalentemente come offerte alla dea o come tracce del suo passaggio. Apportando delle modificazioni estetiche, seppur minime, al contesto boschivo, gli interventi degli artisti respirano all’unisono con la natura, costituendo così idealmente il giardino della divinità greca. Durante la conferenza stampa Fulvio Chimento ha parlato dei presupposti critici che da tre anni guidano la selezione degli artisti e la definizione degli interventi da parte di questi ultimi: «Io e Carlotta Minarelli non siamo interessati a scegliere degli artisti che abbiano una predisposizione verso la Land Art (categoria artistica che neanche esiste più), dunque abituati a lavorare in esterno; propendiamo piuttosto per artisti che normalmente operano in altri contesti, ma in cui intravediamo una potenzialità nel rapportarsi col paesaggio. Gli artisti talvolta utilizzano questa possibilità per sperimentare delle soluzioni che poi sono in grado di trasporre nella propria ricerca nei musei e negli spazi espositivi». Questa presa di distanza dalla spettacolarità della Land Art si traduce in progetti intimi, tutt’altro che appariscenti, immersi e quasi nascosti nei boschi, che non hanno intenzione di prevaricare la bellezza del territorio. «In tutte le fasi del progetto abbiamo sempre cercato di integrarci con la comunità. Grazie alla collaborazione con le maestranze delle Regole, le opere sono state realizzate a distanza su disegno degli artisti. Gli artigiani ampezzani hanno capacità manuali sorprendenti. Questa collaborazione così speciale ci ha permesso di prestare molta attenzione all’allestimento delle opere, la stessa attenzione che si potrebbe avere per una mostra all’interno di una galleria».
Italo Zuffi (Imola, 1969) interviene sul sentiero con due installazioni indipendenti. La prima, Abbinamento, consiste in un cucchiaio ricavato da un unico pezzo di legno, il cui manico è stato allungato a dismisura. L’oggetto così deformato, come se fosse stato sottoposto ad una distorsione ottica, è stato appeso al tronco di un abete; da utensile di uso quotidiano è così trasfigurato in una presenza enigmatica, quasi invisibile tra le fronde dell’albero. Il secondo intervento, Una specie di illusione, prende la forma di un mazzo di chiavi di metallo grigio-azzurro, munito di targhetta con la scritta “bosco”, che è stato ingrandito di venti volte rispetto alle dimensioni reali. Il titolo suggerisce che anche in questo caso si possa pensare ad un effetto ottico, come se si stesse guardando l’oggetto molto da vicino. Altrimenti, si può fantasticare che la custodia del bosco-giardino sia stata affidata ad una creatura gigantesca, magari facente parte del seguito di Artemide, e che questa abbia inavvertitamente lasciato cadere le proprie chiavi tra gli alberi. Quelle chiavi sono così destinate ad essere inghiottite dal sottobosco e ad essere totalmente sommerse dalla neve in inverno. Zuffi, interpellato sui suoi contributi, ne ha parlato in questi termini: «L’immagine che mi sono prodotto è di qualcosa che cade: il tema della caduta è un movimento emotivo che è da sempre presente nella mia ricerca. Ho esplorato l’idea che le cose sono soggette a cadere, a precipitare verso il basso, in vari lavori di scultura e di fotografia, secondo l’idea di una gravità che ci affligge o che determina certi movimenti».
Per la rassegna Margherita Morgantin (Venezia, 1971) ha deciso di impegnarsi in una residenza di qualche settimana a Baita Lerosa, situata a oltre 2000 metri di altezza in prossimità di Forcella Lerosa. La condizione di totale isolamento offerta dalla baita ha messo l’artista nella condizione di poter scrivere e disegnare in sintonia con il paesaggio dolomitico, sfruttando il luogo come stazione di osservazione astrologica e metereologica. Il lavoro svolto durante la residenza risulterà in una pubblicazione cartacea, che darà conto dell’esperienza. Nonostante l’effettiva distanza in linea d’aria che separa la baita dal bosco di Pian de ra Spines, i due luoghi in realtà sono stati collegati simbolicamente dall’artista. Morgantin ha infatti installato in totale tre frecce di metallo: tra queste, due trapassano degli alberi che costeggiano il sentiero, come se fossero le tracce lasciate da Artemide nel corso di una battuta di caccia concitata, mentre la terza si trova sul recinto esterno della baita.
Una delle frecce in piano è proprio orientata verso Baita Lerosa e presenta una punta di ametista, mentre sulla porta del rifugio in quota si trova una drusa di quel minerale, che con la sua cavità avvolgente costituisce idealmente un’antenna in grado di ricevere il “segnale” proveniente dalla valle. L’altra freccia sul sentiero è invece orientata verso un secondo rifugio, la Piccola Croda Rossa, di solito utilizzato dai pastori in estate per condurre le greggi in alpeggio; in questo caso la punta è nella tipica variante rossastra della dolomite, particolarmente concentrata in quella zona. Entrambe le frecce di fondo valle hanno incise su di sé le coordinate delle rispettive destinazioni e il mantra Arawa Aramis Anaramis Akawa, una sequenza di parole evocata dalla foresta che costituisce anche il titolo complessivo assegnato alle installazioni. Gli alberi entro cui sono conficcate sono destinati a crescere e quindi a variare le loro indicazioni geografiche, che verranno monitorate nel tempo. La freccia di Baita Lerosa è invece orientata verso la posizione occupata da Venere in un dato giorno dell’anno e presenta una punta in quarzo time link, che in cristalloterapia è ritenuto in grado di creare dei ponti con il passato, in relazione ad alcuni riferimenti personali dell’artista.
Assieme agli studenti del Liceo Artistico T-yong Chung (Tae-gu, Corea del Sud, 1977) ha messo in opera due installazioni che pongono elementi in ottone lucidato in rapporto dialettico con gli alberi e le rocce, creando baluginii e riflessi dorati nella foresta. In Traccia (Cortina d’Ampezzo) alcune ciotole di metallo sono incastonate in un gruppo di massi di roccia dolomitica che si trova lungo il sentiero. Talvolta è visibile la loro concavità, mentre in altri casi sono capovolte e l’incavo si trasforma in una protuberanza arrotondata, come se si trattasse di efflorescenze, o molluschi su di una assurda scogliera di montagna. Ma, come sottolinea l’artista, il legame formale e simbolico con l’utensile vuole rimanere esplicito: «Gli uomini hanno sviluppato nei millenni molte invenzioni che hanno rivoluzionato il loro modo di vivere, ma quando mangiamo tuttora utilizziamo la ciotola, dobbiamo mettere il cibo in una concavità, come è sempre stato fatto: è una forma che probabilmente non verrà mai cambiata. Volevo inserire queste ciotole nella pietra naturale, producendo un incontro tra uomo e natura». Shining invece si compone di cinque catene pendenti dal tronco degli alberi e composte da cerchi di ottone in numero, spessore e diametro variabili, realizzati ciascuno da un diverso studente del liceo (i nomi degli autori sono stati incisi sui rispettivi cerchi) mediante una macchina curvatrice a manovella. L’artista rimarca l’intento di voler fissare per sempre, nell’intreccio tra gli anelli tutti diversi e creati individualmente dagli studenti, il legame venutosi a creare tra loro nell’esperienza del workshop, cosicché anche a distanza di anni possano ricordarsene; le catene e le ciotole però assumono anche, in quanto parte del giardino di Artemide, l’aspetto di una serie di offerte votive alla divinità, che nel tempo entreranno in simbiosi con la foresta, con gli agenti atmosferici e con il ciclo delle stagioni, forse subendo alterazioni inaspettate, senza che il processo creativo possa mai dichiararsi definitivamente concluso.