Hugo von Hoffmannsthal scriveva di quanto su una superficie si celi in realtà la profondità. Lo stesso argomenta di fatto l’intera esperienza avanguardistica del Novecento, che fa della superficie un dispositivo per comunicare sensibilmente la presenza, anzi la sussistenza di qualcosa di noto o ignoto, tanto semplice materia prima quanto artefatto. E di questo rapporto tra essenza, esistenza e superfici parla “Sean Shanahan. Cuore a fette”, la mostra a cura di Luca Massimo Barbero che Building ospita fino al 25 marzo 2023.
L’attitudine al concetto di superficie risiede nell’approccio completamente frontale della mostra, vale a dire nella sua opportunità di indagine dell’essenza della pittura che l’artista ha concepito nella sua forma più pura, malgrado la tridimensionalità dei supporti lignei delle opere. In questa azione, i tre piani della galleria divengono un catalogo di tre diversi registri di display, ovvero di rapporto tra l’opera e lo spazio espositivo, ma anche lo spazio reale, data l’intensa interazione strutturale con gli elementi architettonici delle sale. In questo senso, l’allestimento si fa tangente al processo di installazione.
Tre piani, tre momenti espositivi, tre stati d’animo: il piano terra è di forte impatto data la dominanza cromatica nera, che sembra quasi trasportare lo spazio in una collocazione ctonia. In questo antro si celebra quella “danza macabra” di cinque grandi dipinti, dove le ampiecampiture a olio scurissimo si limitano alle superfici frontali e mantengono intonsi gli spessori bisellati del foro squadrato e centrale. Per questa ragione cromatica e geometrica, proprio il foro diventa un elemento magnetico dell’attenzione e, anzi, si fa il topos narrativo dell’intera esposizione, quasi come se l’artista volesse da un lato evidenziare il supporto in MDF, sua cifra stilistica, e dall’altro far respirare lo spazio sottostante, in un’azione costitutiva di uno spazio dell’opera. Per tale ragione, Shanahan sviluppa una parabola installativa che fa dello spazio architettonico uno spazio artisticamente architettato.
Questa attitudine si conferma nel periodo “Hysterical Aftermath” del primo piano, dove si rispetta il tradizionale canone del white-cube e dove quelle iridescenti evasioni cromatiche delle opere si dispongono come un’equilibrata epifania della realtà. È invece nel terzo e ultimo capitolo della mostra, vale a dire l’ultimo piano, che questa vocazione di interazione si fa ancora più ribadita: è lo spazio reale a prevalere sulle opere ed a imporne il posizionamento in sala. Il foro centrale di ciascuna opera sfonda il supporto architettonico della galleria e permette lo sguardo oltre il muro, quindi oltre l’interno, identificando di fatto una scansione di spazi.
Le opere permettono l’ambiente: quel magnetismo dello sguardo che fin dal principio ci porta a “guardare al centro” ora è finalmente soddisfatto, ma in modo assolutamente non banale. Shanahan sviluppa un grande climax che si conclude in questa poetica identificazione di soglie, dove quel vortice identifica non più una superficie data, ma uno spazio dell’attraverso, un vuoto ignoto ed eterno, in contrapposizione dialettica con quanto espresso al piano terra. “Si palesa l’idea di occhio, di prospettiva, dove il visitatore riesce ad attraversare lo spazio e incontrare per la prima volta l’esterno”, per citare Luca Massimo Barbero.
Spazio, equilibrio, movimento, percorso risultano attributi possibili delle opere e della mostra, ma non effettivi significati e menchemeno loro rappresentazioni. Come riporta limpidamente l’artista: “La rappresentazione è un termine interpretativo che non mi appartiene. Lo so che ci sarà un momento in cui dovrò fare i conti con il significato […] Il fatto di non chiarire questa conclusione, non significa che la mia ricerca sia ambigua; le opere non sono da considerarsi degli “incompiuti”, anzi, in un certo senso questo percorso acquista di significato proprio perché non raggiunge una chiara finalità. Non vedendo la pittura come un problema, non sto cercando soluzioni attraverso di essa”.
Infine, quello di Shanahan è un profondo ragionamento per estremità e sui limiti, ma privo di ogni pudicizia e che parte dal mezzo stesso dell’opera: il limite tecnico del supporto è manifesto nel grado di imperfezione delle superfici che indossano le loro imperfezioni, vale a dire “dove le tracce della tua manualità vengono tradite”. Segue poi il sopracitato limite sul significato, che rapidamente diventa un’occasione potenziale di libertà speculativa, in primis sul tema dell’inconcluso, ma anche dell’assoluto. E ancora il limite della percezione sensibile, ovvero la ricerca di quella “negazione del coinvolgimento dei sensi intesi come semplici agitatori della visione”, riportando Barbero, con l’intenzione di uno stimolo decisamente più tonale e quindi sinestesico.
Per ultimo, il limite della superficie ora finalmente affrontata non in quanto tale, ma piuttosto come occasione di sviluppo di uno spazio in un tempo di percezione. La superficie come schermo cutaneo, come interfaccia architettonica di percezione e di contatto tra noi e la realtà oggettuale, quindi come condizione filosofica di sinolo tra realtà fenomenica e realtà oggettuale.
Per concludere con le parole di Giuliana Bruno, la cui ricerca curatoriale sulle arti visive tanto ha approfondito questi aspetti, “nella cultura visiva la superficie conta, e ha profondità”.
Intervista con l’artista e il curatore Luca Massimo Barbero