L’immagine che accompagna il testo di presentazione, e che compare in copertina sul giornale stampato in occasione della mostra, è quella di una macchina fotografica Rolleiflex. La mostra però, intitolata Qualcos’altro e ospitata alla galleria Giò Marconi di Milano – curata da Alberto Salvadori in collaborazione con l’Archivio Mario Schifano – si concentra su una serie di monocromi dell’artista Mario Schifano. Tale soluzione potrebbe apparire incongruente a prima vista, eppure risulta essere quanto mai azzeccata. Schifano, infatti, ha sempre avuto un debole per la macchina fotografica, e le opere dei primi anni Sessanta derivano in parte dalle riflessioni fatte proprio attorno a questo strumento.
Il titolo della mostra prende il nome da un’opera del 1962 e delinea le due chiavi di lettura che possono aiutarci a comprendere i monocromi dell’artista romano: in primis l’annullamento di qualsiasi allusione o significato profondo – “I primi quadri soltanto gialli con dentro niente, immagini vuote, non volevano dir nulla […] Fare un quadro giallo era fare un quadro giallo e basta” diceva nel 1972 –; da questa negazione parte, però, la seconda modalità di intendere i monocromi, ossia la possibilità di intravedere in essi nuovi scenari, qualcosa di mai visto prima, qualcos’altro appunto.
È a questa ri-nascita che si allaccia il tema della fotografia: il monocromo assume, a questo punto, la configurazione di uno schermo attraverso il quale Schifano proietta la sua idea di pittura e realtà. Nel 1966 Maurizio Fagiolo dell’Arco parlò dell’ “occhio-obiettivo”, della “camera fotografica mentale” attraverso cui l’artista concepiva i suoi lavori, mentre Giuseppe Uncini – col quale partecipò, insieme a Tano Festa, Francesco Lo Savio e Franco Angeli, alla prima collettiva del 1960 organizzata alla galleria La Salita di Roma – parlò dell’ “idea [di] vedere la realtà filtrata da uno schermo, da un mezzo tecnologico”.
Interpretare la realtà dunque. Schifano lo fa guardandosi attorno, passeggiando per le strade di Roma e attingendo dalle visioni quotidiane. Due elementi lo colpirono in modo particolare: i cartelloni pubblicitari e la segnaletica stradale. Del primo linguaggio trasse il formato grande, così che i quadri “avessero una funzione visiva ben precisa”: l’osservatore viene quindi attratto dai monocromi allo stesso modo dei billboards, ma, al contempo, viene scioccato dal “grado zero” al quale questi vengono ridotti. Si potrebbe azzardare, a tal proposito, una similitudine col “grado zero della scrittura” formulato da Roland Barthes nel 1953, in quanto la pittura di Schifano voleva liberarsi dei retaggi precedenti e costituire qualcosa di nuovo: anche l’artista parlava di “uno zero speciale” dal quale partire, e non è un caso che di lì a poco tale cifra sarebbe comparsa fisicamente nei suoi lavori. Allo stesso tempo Schifano venne attratto dalla segnaletica stradale, dalle strutture essenziali eppure facilmente percettibili che la compongono: Indicazione del 1961 appare alquanto emblematica in tal senso, ma anche Qualcos’altro del 1962 allude a una dimensione urbana, quasi fosse stata composta dall’accostamento di strisce pedonali.
Qualcos’altro indica dunque l’esistenza di una possibilità, quella della visione oltre la visione: i monocromi di Schifano, pur essendo stati concepiti senza alcun intento allusivo, catturano comunque lo sguardo dello spettatore e, come una finestra o un odierno diplay, spalancano le porte a mondi sconosciuti. Ci si aspetterebbe che da un momento all’altro qualcosa appaia da quelle superfici, ma basta attendere qualche istante per accorgersi di essere stati accontentati: il colore sembra attraversare una guerra interna per cui pian piano comincia ad abbandonare terreno – i segni di questa lotta sono distinguibili nelle pennellate che smettono di costituire intere campiture; la disputa intestina porta al “sanguinamento” di piccole colate che compaiono sulle tele, ma il vero prodotto viene di lì a poco partorito con le lettere o cifre che inziano ad emergere dal colore e che raggiungono piena configurazione in opere come Coca-Cola e No. Lo stesso Uncini rimase sorpreso dall’evoluzione di queste sperimentazioni, tanto che in occasione della mostra alla Galleria Odyssia di Roma del 1964 esclamò: “Mario ma che cavolo hai fatto?”. La risposta di Schifano arrivò subito, ironica ma eloquente: “A Pe’, svejate!”.
Mario Schifano – Qualcos’altro
Giò Marconi, Milano
Fino al 20 marzo 2020