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Santiago Sierra, Mea Culpa | Intervista con Lutz Henke e Diego Sileo

[nemus_slider id=”65308″] — — Mea Culpa è l’imponente e forte personale di Santiago Sierra ospitata al PAC di Milano, la sua prima grande antologica in Italia curata da Lutz Henke e Diego Sileo. La mostra offre una panoramica delle opere politiche più iconiche dell’artista, dagli anni Novanta a oggi, insieme a nuove produzioni e riattivazioni di […]

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Mea Culpa è l’imponente e forte personale di Santiago Sierra ospitata al PAC di Milano, la sua prima grande antologica in Italia curata da Lutz Henke e Diego Sileo. La mostra offre una panoramica delle opere politiche più iconiche dell’artista, dagli anni Novanta a oggi, insieme a nuove produzioni e riattivazioni di installazioni e azioni passate. Nell’intervista che segue, i due curatori entrano nel merito della ricerca artistica di Santiago Sierra, raccontandoci anche la loro posizione rispetto al binomio arte e politica.

Simona Squadrito: Il binomio “Arte e Politica” è spesso messo in mostra al PAC. Seguendo da anni la programmazione, è possibile constatare una tendenza dell’istituzione a promuovere eventi e mostre che hanno una forte connotazione legata soprattutto a forme di denuncia sociale, come ad esempio la mostra del 2014 di Regina Josè Galindo o quella del 2016 di Piero Gilardi. L’antologica di Santiago Sierra, artista che ha fatto della sua poetica una forma di militanza, mettendo in luce le contraddizioni e i limiti della società contemporanea, si inscrive secondo voi in questa logica di programmazione del PAC?

Diego Sileo: Il carattere di rottura che caratterizza molti degli avvenimenti politici di questi anni si riversa inevitabilmente anche nelle arti visive. Nell’arte la politica incide nella forma in cui questa si esprime in una società determinata e intanto che nell’opera artistica s’implicano relazioni sociali con valori, significati e forme di potere corrispondenti a determinanti ideologiche. Tutta l’opera artistica rivela, coscientemente o no, una certa pratica politica, il che non significa che sia necessariamente arte politica. Così, per esempio, il fatto che un’opera d’arte si relazioni con un’istituzione o che sia utilizzata da determinati gruppi in una maniera specifica, non significa che sia un’arte politica, a meno che artisticamente mostri un discorso ideologico con forme e immagini che sostengono un’attitudine ben definita. Queste precisazioni mi aiutano, in qualche modo, a spiegare meglio la pratica artistica di Santiago Sierra o anche di Regina José Galindo. La loro militanza e il loro fare artistico favoriscono la realizzazione di un’arte che mette in discussione i valori culturali egemonici e il potere politico. La ricerca del PAC in questi ultimi anni sta indagando nello specifico come questa attitudine, a tratti controversa e feroce, si stia riversando sempre più nell’arte contemporanea, provando quindi a smantellare quel muro di autoreferenzialità in cui l’arte è abbarbicata da troppo tempo ormai.

Simona Squadrito: Mea Culpa è grande mostra che ripresenta e ripropone un ricco corpus di lavori che vanno dagli anni Novanta a oggi, esponendo alcune delle opere più rappresentative dell’artista quali Constructed to be held orizzontally the wall o Destroyed World. Come avete organizzato tra loro le opere per creare un allestimento che non si limiti a raccontare in modo didattico il lavoro di Santiago Sierra?

Lutz Henke: La maggior parte delle opere esposte in mostra, non sono esattamente opere d’arte. Lo dico proprio con un deliberato intento provocatorio perché è fondamentale comprendere che il cuore dell’opera di Santiago è costituito da azioni che avvengono “dal vero”, al di fuori delle istituzioni artistiche. Molte di queste azioni sono attivate da istituzioni artistiche o hanno luogo al loro interno. In ogni caso, esse trovano il loro impulso originale nel contesto artistico per poi tendere verso la realtà delle persone. Quindi, all’interno di uno spazio museale abbiamo a che fare con resti e riflessi delle performance realizzate nel corso di 30 anni di carriera.
Alla base di questi lavori ci sono le idee dell’artista che da semplici concetti divengono reali. Il processo non inizia mirando a un prodotto finito, per esempio una fotografia, ma Santiago si serve di una gamma molto variegata di strumenti artistici: dalla fotografia al suono e poi il video e la scultura. Strumenti insomma che permettono al pubblico di creare una relazione tra l’azione e il concetto che essa rappresenta, così da generare un coinvolgimento emotivo. Si tratta di strumenti che traducono le sue azioni, le sue conversazioni con il mondo, rendendole comprensibili per il visitatore.
È anche vero che esistono svariati modi di presentare lo stesso pezzo in uno spazio espositivo. In molti casi ci sono fotografie di formati differenti o un video della stessa azione. Per “Mea Culpa“ abbiamo cercato di bilanciare accuratamente tutti gli aspetti al fine di offrire una panoramica complessiva e mettere insieme opere che allo stesso tempo abbiano un certo impatto visivo. Più precisamente, abbiamo voluto trovare la forma adeguata per raccontare ogni lavoro, sembianze che avessero la capacità di toccare l’osservatore emotivamente e gli permettessero di viaggiare nel profondo del contesto che ha originato la creazione artistica. Abbiamo anche lavorato con logiche più improntate sul linguaggio dell’installazione, anche reinterpretandolo. Per esempio, nel caso di “Campaign Teeth of the Last Gipsies or Ponticelli” del 2009: al posto di un’immagine incorniciata e appesa, abbiamo stampato un poster di grandi dimensioni di un solo sorriso e che occupa per intero la parete che accoglie il visitatore al suo ingresso negli spazi espositivi del PAC. Questa scelta conferisce un grande impatto visivo potenziando le intenzioni originali del progetto e il significato stesso di “show your teeth.”  Ci sono poi altri pezzi in mostra che sono propriamente opere d’arte, come i lavori a carattere scultoreo di “21 Anthropometric Modules Made from Human Feces by the People of Sulabh International, India“ oppure, azioni collocate in contesti differenti come il veterano che ogni domenica sarà in piedi, rivolto al muro, in un angolo dello spazio espositivo.

Simona Squadrito: Durante l’opening di Mea Culpa il pubblico si è trovato all’ingresso del PAC, spettatore inconsapevole di un’azione performativa: un nutrito gruppo di uomini e di donne, la maggior parte extracomunitari, ha atteso in fila indiana di ricevere dieci euro, facendosi infine timbrare il dorso della mano. Potete raccontarci qualcosa in merito a questa performance?

Diego Sileo: Tutto il percorso artistico di Santiago Sierra è legato alla violenza delle immagini, a una forte icasticità espressiva. Il suo lavoro rimanda a situazioni sgradevoli, segnali allarmanti del profondo disagio esistenziale nel quale si dibatte la nostra epoca. Polemica, violenza, alienazione e una feroce critica sono gli elementi che caratterizzeranno anche la nuova performance ideata appositamente per la mostra al PAC dal titolo “La fila”, che getta lo sguardo oltre i limiti della rappresentazione. Le sue azioni, sempre scomode, spesso brutali, non compiacciono né se stesso, né il pubblico cui sono rivolte. Il carattere intrinsecamente politico del lavoro diviene così il segno poetico dell’artista, i cui lavori sono elaborati a sottolineare la fragilità, la sofferenza e la forte carica emotiva del genere umano.

Santiago Sierra FORMA DI 600 x 57 x 52 CM COSTRUITA PER ESSERE SOSTENUTA PERPENDICOLARMENTE A UNA PARETE  Konig Galerie. Berlin, Germania. Novembre 2016 Courtesy dell’Artista e Prometeogallery di Ida Pisani
Santiago Sierra FORMA DI 600 x 57 x 52 CM COSTRUITA PER ESSERE SOSTENUTA PERPENDICOLARMENTE A UNA PARETE Konig Galerie. Berlin, Germania. Novembre 2016 Courtesy dell’Artista e Prometeogallery di Ida Pisani

Simona Squadrito: L’espressione latina mea culpa, che tradotta letteralmente, significa per mia colpa, è una formula usata dai cattolici durante le preghiere chiedendo perdono a Dio per le loro colpe. Che significato assume questa locuzione all’interno della mostra?

Lutz Henke: Queste parole appaiono nel “Confiteor“ del Sacramento della Pena e della Riconciliazione: il credente ottiene l’assoluzione dai suoi peccati, confessandoli. Spesso utilizziamo il termine scherzando e ironizzando per scusarci, sfruttando il vantaggio del latino solenne e dell’effetto di serietà che questa forma sortisce. Potrebbe essere inteso come se un artista si scusasse per delle opere per le quali viene criticato, ma immediatamente sorge il dubbio che in realtà questa espressione non abbia alcun senso. Soprattutto realizzare un’intera mostra su questo concetto non avrebbe senso. Ed è forse ancora più assurdo nel caso di Santiago, la cui opera è incentrata sulla critica delle circostanze politiche della società modera e la cui pratica lo porta a intitolare ogni con minuziose descrizioni letterari. Si tratta piuttosto di una scelta curatoriale e di sforzi congiunti che ci hanno permesso di convincere Santiago del titolo, “Mea Culpa“, che in molti sensi contraddice la sua stessa pratica artistica. L’ opera di Santiago si struttura sul tema della colpa inflitta o della punizione intesa come strumento di potere. Come Santiago ha recentemente affermato in un’intervista “ dopo i disastri, il potere utilizza sempre questo gioco: i profitti sono privatizzati e la colpa è socializzata (…) convincere la vittima di essere colpevole è il fondamento di ogni abuso”. Noi crediamo che la provocazione di chiamare la mostra “Mea Culpa” si dimostrerà vincente nel fine di suscitare scetticismo critico e discussioni. Conduce lungo una delle possibili prospettive della pratica artistica di Santiago Sierra, espande la vista oltre l’ovvietà, permette di domandarsi: perché questo veterano ha bisogno di stare in piedi con il viso contro il muro se non è altro che un piccolo ingranaggio nella grande macchina della guerra? Drogati e prostitute saranno condannati per la loro condizione? Possiamo distinguere la nostra personale colpa da quella delle strutture di potere alle quali non possiamo fuggire? La Chiesa Cattolica è ancora in grado di definire i nostri valori morali e il concetto di colpa? Sierra sarà criticato del beneficio che egli stesso trae dalla realtà capitalistica o sarà elogiato per averla resa un po’ più comprensibile? Il nostro mondo è governato dal senso della colpa imposta attraverso la punizione e il lavoro? Dovrebbe essere concesso all’arte di suscitare quello sconveniente senso di irritazione nella vita pubblica, come causare il blocco del traffico su un’autostrada a Città del Messico con l’autocarro di un camion? Ovviamente non esistono risposte semplici e veloci. Il tema della colpa è tanto complesso quanto l’opera di Sierra.

Simona Squadrito: Lutz Henke, lei nel 2008 ha aiutato lo street artist Blu a cancellare i murales visitati in processione dai turisti-hipster, diventando uno dei protagonisti della lotta contro la gentrificazione degli spazi della città. La sua è stata un’azione politica, che ha messo l’arte nella posizione di essere ciò che registra e segnala i disturbi della società. Oltre all’azione di denuncia, ritiene che l’arte possa essere un contenitore capace di fornire nuove possibili modalità del divenire, ponendosi quindi al tempo stesso sia come diagnostica dell’inquinamento sociale, sia come terapia? Come si inscrive il lavoro di Santiago Sierra rispetto alla questione appena sollevata?

Lutz Henke: Santiago crede profondamente nel potenziale che l’arte della realtà ha nel cambiare il contingente. Mostra in molte occasione come lui stesso (così come tutti noi) sia parte del sistema. Dice nel suo libro a proposito della condizione politica attuale: non ho nient’altro da proporre in sostituzione, nessuna autorità morale che mi renda al di fuori di tutto, come una sorta di Messia dell’arte”. In quanto curatore e persona che normalmente lavora con la narrazione di idee sono un pochino più ottimista. Molto dipende dalla propria definizione del termine “arte” ma anche nella sua interpretazione più marginale, è molto raro che essa possa cambiare direttamente la realtà, la situazione politica, per esempio. Ad ogni modo, l’arte fornisce degli strumenti emozionalmente radicati per poter discutere di certi problemi, laddove i tentativi politici e cognitivi sembrano fallire. Essa può rendere evidenti certe situazioni, avviare un discorso, far pensare la gente. Prima di tutto nei luoghi elitari dell’arte, dove il prodotto di una pratica artistica è inteso per essere presentato. È un modo per raggiungere le vere elité, siano esse i politici che fondano queste istituzioni e usano gli artisti per i propri interessi, o le minoranze finanziarie che acquistano arte come beni di lusso o gli intellettuali, i pensatori e gli scrittori che necessitano dell’arte per diffondere le proprie idee. Tutti costoro possono sedere nella propria torre d’avorio e sono molto difficili da ritrovare poi nella scena politica. Da questo punto di vista, molto spesso i lavori di Santiago sono ponti tra mondi differenti. Questo mondo privilegiato dovrebbe iniziare una riflessione, agire diversamente, o semplicemente scriverne e disseminare idee. In secondo luogo, come già evidenziato in precedenza, molti dei pezzi prendono vita nella realtà, ma oltre i luoghi deputati all’arte. Si tratta di situazioni imprevedibili che possono raggiungere un pubblico privo di background artistico, anche se non propriamente interessato all’arte.
Inoltre, credo sia importante sottolineare come i lavori davvero importanti non siano un’accusa a dito puntato. Se, per esempio, l’unica cosa che sappiamo fare a fronte del recente insorgere del nazionalismo è dire che si tratta solo di un branco di idioti, questo, oltre a essere estremamente comodo, non ci porterà lontano, è solo un modo arrogante di fare i professori. Lo si dice solo per il piacere di ricevere il plauso del pubblico ed è esattamente quello che favorisce lo sviluppo di populismi e nazionalismi. Rende le persone depredate dai propri averi in grado di lanciare mattoni contro le vetrine di uno stabilimento, anche se non condividono davvero la visione politica di coloro che votano.
A me sembra importante che un buon lavoro non sia così chiaro nel suo messaggio, sia inteso per essere ambiguo, si ponga con il proposito di suscitare un pensiero e un dialogo. Quindi, per rispondere alla tua domanda: in questo senso l’arte ha il potere di generare un impatto, stimolare cambiamenti politici o riflessioni personali. Essa può essere inoltre intesa come una chiamata all’azione o alla disobbedienza pubblica.
Ora che tu lo menzioni, ci sono assolutamente alcuni parallelismi con la nostra decisione di ricoprire i muri di Blu. Abbiamo dipinto queste pareti nel 2007 per una mostra e sono poi diventati un’icona di Berlino, il simbolo che accompagna il distretto di Kreuzberg lungo il suo processo di invecchiamento. Il risultato è stato che abbiamo dovuto chiudere anche il nostro spazio espositivo. Dall’altro lato noi siamo parte di questo processo, io ho lavorato per grandi istituzioni come il Guggenheim. Come dice la nostra mostra “noi siamo tutti colpevoli e non possiamo sfuggire al sistema”. Ma possiamo renderlo visibile agli occhi di tutti e discuterne. Questo è quello che abbiamo tentato di fare a Berlino: l’intenzione non era quella di lanciare un placativo “vaffanculo” ma stimolare una nuova discussione e ricevere più attenzione sul caso e devo dire che ha funzionato abbastanza, ho sentito i politici di Berlino menzionare più volte questo caso.

Santiago Sierra PAROLA DISTRUTTA Luoghi vari ottobre 2010 – ottobre 2012 Video Courtesy Studio Santiago Sierra
Santiago Sierra PAROLA DISTRUTTA Luoghi vari ottobre 2010 – ottobre 2012 Video Courtesy Studio Santiago Sierra
Santiago Sierra BANDIERA NERA (PARTE 1 E 2) POLO NORD, LATITUDINE 90° NORD — APR 2015 POLO SUD, LATITUDINE 90° SUD — DEC 2015 Photo by Lutz Henke. Courtsey of a/political.
Santiago Sierra BANDIERA NERA (PARTE 1 E 2) POLO NORD, LATITUDINE 90° NORD — APR 2015 POLO SUD, LATITUDINE 90° SUD — DEC 2015 Photo by Lutz Henke. Courtsey of a/political.
Foto: Nico Covre, Vulcano
Foto: Nico Covre, Vulcano