Avevamo immaginato questa intervista via mail come contenuto da pubblicare prima dell’inizio di Santarcangelo. La richiesta – e la disponibilità – di Tomasz Kireńczuk l’hanno trasformata in una chiacchierata ad un tavolino del Bar Roma in piazza Ganganelli alla conclusione del primo weekend di Festival. Il focus di questa conversazione doveva essere il progetto intitolato Bright Room, uno spazio fisico di rifugio e di condivisione della queerness, che dalla sua presentazione ha cambiato forma fino ad espandersi e attraversare tutta la programmazione. Proprio come questa edizione è stata costruita basandosi sull’ascolto e il confronto, questa intervista ha seguito i cambiamenti assecondandoli. Al centro della riflessione e dell’indagine è rimasto il significato di queerness e il suo legame con il Festival.
Guendalina Piselli: Inizialmente questa intervista era pensata come introduzione al Festival e quindi la prima domanda era “come ti immagini questa tua prima edizione?”. Dato che ci incontriamo oggi ad evento già iniziato vorrei chiederti: come ti immagini quest’anno e come sta andando?
È molto difficile dire come me l’ero immaginato perché c’erano alcune cose alle quali mi piaceva arrivare tra cui sicuramente vivere questa esperienza di condivisione, di spazio comune e sicuro nel quale potersi confrontare e creare ulteriori spazi. In occasione del talk …. Gabriela Carneiro da Cunha ha detto secondo me una cosa bellissima che mi ha colpito molto perché è molto vicino a quello che sento io. Gabriela ha raccontato che nella sua pratica artistica non è interessata a dare voce a qualcuno perché non il suo ruolo e per me è lo stesso. Chi sono io per dare voce a qualcun altro? Sarebbe paternalistico. Mi interessa invece creare uno spazio, un’occasione per ascoltare. È qualcosa di molto vicino all’immagine che avevo un anno fa di questo Festival. Non avevo ancora chiara la programmazione, le tematiche, ma so cosa mi interessa. Mi ero dato tanto libertà ed è emersa questa idea di spazio in cui siamo molto sensibili all’ascolto. E forse adesso che il Festival ha il suo claim penso sia tutto connesso. E poi mi sono fatto guidare dagli artisti perché nella mia pratica curatoriale cerco di fare questo per poi capire come li possiamo presentare, come possiamo far loro incontrare la gente. Pensare anche a quali spettacoli possono essere inseriti in questo contesto. E poi da un incontro all’altro è nata la programmazione. Tra questi ci sono sicuramente quelli che seguo da tanto come Marina Otero e Mónica Calle che sono felice di avere qui. Adesso il Festival è iniziato e sono molto contento perché penso che questa forza in questo festival sia percepibile. È un’energia che percepivo anche come spettatore. È come un momento in cui il tempo si ferma il tempo. Ho visto tanta gente commossa dopo gli spettacoli di da Cunha e Teixeira e credo si sia creata una bella atmosfera emotiva anche su tematiche difficili, pesanti, scomode, ma che creano proprio quella forza e quell’energia dello stare insieme.
Guardo a questo Festival come un evento fragile, in senso buono. Anche nei lavori degli artisti c’è una fragilità. Penso a quello di Igor Shugaleev che è uno statement molto forte eppure porta con sé tutta la fragilità di essere un’esperienza personale forte condivisa. Penso che il claim stesso del Festival porti con sé questa fragilità.
GP: Dopo la direzione artistica Eva Neklyaeva e Lisa Gilardino, e quella successiva dei Motus, il festival torna ad essere curato da una sola persona. Cosa significa secondo te questo per un festival come Santarcangelo?
Sicuramente è una cosa bella quando si può curare un festival in gruppo, rende un festival ancora più accessbile. Fare delle scelte da solo è sempre complicato, anche dal punto di vista politico. Però tempo quando sono stato scelto non ho voluto portare nessuno perché volevo affrontare così questo festival. La verità è che non posso dire di aver creato davvero il festival da solo perché se Santarcangelo esiste è grazie al lavoro di un team che partecipa alla sua creazione. Dal mio punto di vista la curatela è molto legata alla sensibilità e questa ci porta a prendere decisioni. E allora più siamo a condividere la sensibilità e meglio è.
Quest’anno il festival si espande oltre Santarcangelo…
Credo sia molto bello uscire da Santarcangelo. Siamo molto connessi con le città attorno. Credo che pensare a Santarcangelo significhi pensare alla cura della pratica artistica. E da questo punto di vista immaginare dove e come certi lavori possono funzionare è un bel lavoro. Ad esempio Teresa Vittucci nel suo spettacolo torna alle radici dell’immagine della donna biblica e allora abbiamo pensato allo stage 1 nel parco anche se è uno spettacolo pensato per un black box. Quando l’ha vista è rimasta entusiasta dal luogo che la circondava. A Longiano ad esempio Ntando Cele porta uno spettacolo che aveva bisogno di un ambiente da club e a Santarcangelo non ce ne sono. Quello che abbiamo trovato è stata una scoperta per tutti noi: un locale che ogni tanto viene adibito a piccole serate e che quindi si prestava perfettamente per questo lavoro. Un’altra esperienza è quella con l’ex cementifico Buzzi Unicem che io stesso ho scoperto per caso perché ci sono i magazzini del Festival. Lo considero un vero e proprio castello. Mi ha fatto pensare ad un lato oscuro di Santarcangelo, ad una bellezza oscura. È uno spazio che mi interessa molto e con il quale voglio lavorare anche se è difficile a livello tecnico per molti limiti. Utilizzando per questa edizione per la prima volta abbiamo comunque portato alla luce un ricordo, una parte importante della storia della città. Quando l’ho visto la mia prima idea era quella di usare una parte esterne di questo spazio per mettere in scena gli spettacoli. Si tratta di un edificio industriale ideale per molte messe in scena e che fino ad ora a Santarcangelo non era stato utilizzato. Però ho pensato che fosse troppo invadente come prima volta. C’era bisogno di qualcosa di delicato, più fragile, come quello di Anna Karasinska che non ha dato voce al luogo, ma ha ascoltato i racconti di chi l’ha vissuto.
GP: Inizialmente questa intervista era incentrata sul progetto Bright Room che però tra la presentazione del programma e l’inizio del Festival ha cambiato forma. Si tratta di uno spazio dedicato, al di là della sua forma, ad una tematica alla quale Santarcangelo è molto legato: la queerness. Domanda quasi banale, ma forse necessaria. Cosa si intende per queerness e secondo te perché c’è questo legame?
Credo che la diversità sia cruciale per l’arte contemporanea perché anche l’arte ci da questa possibilità di esprimerci senza limitarci. Qui si è creato questo spazio sicuro per quanto riguarda l’espressione individuale, emotiva e politica. Questa cosa sta crescendo negli anni e credo che per la comunità LGBTQI+ sia uno spazio di condivisione e sicurezza non per dire che siamo tutti uguali, perché non è vero, ma per dire che questa diversità è un diritto. Non c’è nessuna ragione per limitare la libertà delle altre persone nel vivere in altri modi diversi da quelli imposti da una società che è stata a sua volta costruita e impostata. E in questo il Festival ha un ruolo importante in quanto da una parte sostiene la comunità e dall’altra si apre alle persone che sono estranee a queste tematiche.
Avevamo pensato il progetto Bright Room come un progetto internazionale con i partner Kunstencentrum VIERNULVIER (Belgio), Kampnagel Hamburg (Germania) e Fierce Festival (UK), Imbricated Real (Svizzera). In questo caso abbiamo pensato ad una curatela comune perché volevamo costruire uno spazio fisico di celebrazione della queernees. La cosa bella era che ognuno di noi avrebbe contribuito al programma con un artista dal suo paese o dalla sua zona di interesse (per Santarcangelo ad esempio era Merende di Industria Indipendente). Alla fine purtroppo questa fisicità non ci è stato possibile realizzare fisicamente questo spazio dal punto di vista tecnico perché i contenuti avevo tutti esigenze diverse difficilmente conciliabili in un unico ambiente. Non c’era uno spazio adatto per tutte queste attività e non volevamo scendere a compromessi. Quindi alla fine abbiamo espando Bright Room a tutto il Festival quindi gli artisti che dovevano partecipare sono ora nel programma e comunque ci sono molti altri progetti che portano queste tematiche. Abbiamo lavorato con gli artisti che avevamo selezionato e invece di chiuderli in uno spazio abbiamo voluto riempire la città. Questo perché ogni spazio cittadino ha un significato diverso. Super cinema ad esempio è un luogo che verrà visitato dalle persone che sono interessate, mentre il tendone di Imbosco è uno spazio vissuto da tutti e tutte. Da una parte è un fallimento, ma allo stesso tempo sono contento che gli artisti sono rimasti e che la queerness sia così presente.
Penso che sia una tematica così presente all’interno dei festival perché questi hanno un ruolo di resistenza. I festival sono più attenti alle tematiche della cura e sono occasione durante le quale è più facile creare un senso di comunità, anche nelle attività sporadiche.
GP: Bright Room nasce come ribaltamento della dark room di un club. Quello che di solito rimane nell’oscurità viene fatto alla luce del giorno. Lo spazio al quale si ispira sia quello del clubbing, una dimensione alla quale l’immaginario queer si è spesso legato in termini di libertà e collettività…
Anche qui vediamo una connessione tra Bright room e il Festival perché questa esperienza di immersione attraverso una dimensione fisica di condivisione è molto presente. Lo vediamo nel progetto di Industria Indipendente, ma anche di Alex Baczynski-Jenkins. Nel clubbing si crea questa situazione per cui ci si trova con persone che non si conoscono e con le quali non si condivide nulla se non la pista, in una dimensione di trans, in cui si trova anche un nuovo spazio di incontro. La premessa necessaria è che questo deve essere uno spazio sicuro. Per Merende ci sono i divani, bisogna togliere le scarpe….si tratta di piccole cose che portano però già ad un altro atteggiamento fin dall’inizio. Si tratta di pratiche tanti artisti usano: quello del clubbng, del rave, di un’esperienza ritualistica.
Come ti immagini il tuo percorso a Santarcangelo nei prossimi anni di direzione artistica?
Voglio prima di tutto darmi un po’ di tempo dopo il festival per pensare perché è stato davvero un anno difficile. Quello di cui sono già certo è che voglio continuare a riflettere e a mettere in luce l’aspetto e il coinvolgimento politico del Festival. Stiamo già lavorando a progetti annuali perché Santarcangelo non ci si concentri solo in dieci giorni. Lo scopo è quello di supportare gli artisti emergenti, per creare nuovi possibilità di scambio e di incontro. C’è il progetto di residenze e c’è anche un altro progetto con quale abbiamo costituito un nuovo fondo in supporto agli artisti emergenti italiani coinvolgendo molte realtà diverse tra di loro, moltissimi partner. È un fondo con cui vogliamo supportare la ricerca annuale di due artisti/e con un fondo di 20mila euro e un sostegno artistico tramite residenze e masterclass. Le prima artiste che saranno supportate per questa edizione sono Emilia Varginelli e Agnese Banti.