Come le arti possano supportare le politiche di resistenza è un tema insito nel DNA di Santarcangelo Festival da oltre cinquant’anni. Il nuovo direttore artistico Tomasz Kireńczuk fa il suo ingresso in questo percorso ereditario quasi in punta di piedi ponendosi in parte in continuità con le edizioni precedenti curate da Motus (alcuni nomi e alcune tematiche risultano famigliari al pubblico del Festival), ma portando con sé la propria sensibilità, iniziando a condividere la propria voce. Ancora una volta in occasione di questa edizione da poco conclusasi l’arte performativa è linguaggio e strumento per veicolare messaggi, suggerire riflessioni e indagare la realtà contemporanea nelle sue contraddizioni. L’arte come spazio di dibattito politico, come forma di creazione di comunità per aprirsi alle possibilità del reale. La voce – indipendentemente dal suo volume, dalla sua provenienza e dalla sua destinazione – si fa così contemporaneamente mezzo e scopo. Con Can you feel your own voice si parla, si condivide e si ascolta.
Ed ecco allora che lo storico teatro Galli di Rimini, ex rovina che attraversava il centro città come una ferita e da poco restituito alla città dopo anni di abbandono, diventa il palcoscenico per lo spettacolo ironico a tratti surreale COMMUNE di Maria Magdalena Kozlowska. Sul palco il racconto autobiografico di piccole forme di ribellione infantile apre la strada ad esercitazioni canore guidate dal fantasma di una nonna comunista-stakanovista-tenore, coreografie di gruppo e ribaltamenti di senso e pratiche come suonare il flauto a testa in giù. Il risultato è una serie di esercizi di stile che diventano monito, invito ad immaginare nuove possibilità di espressione e resistenza.
Nasce da una vicenda personale anche 375 0908 2334 / The body you are calling is currently not available di Igor Shugaleev, primo lavoro politico dell’artista biolorusso oggi con base in Polonia. Un progetto che nasce da una necessità, quella di raccontare prendendo posizione ciò che accade oggi Bielorussia, e che sceglie il linguaggio della performance in quanto genere che più direttamente parla al pubblico senza metafore. In occasione di Santarcangelo Shugaleev sceglie di proporre la sua performance per una durata complessiva di 60 minuti durante i quali gli spettatori sono invitati ad unirsi, a parlare, a svolgere una qualsiasi azione. Spalle al muro Shugaleev attende una qualsiasi reazione. Smorza forse la potenziale potenza della performance, basata sul silenzio, il luogo scelto per lo spettacolo e il suo allestimento: le sedute frontali identificano lo spazio come teatrale creando una sorta di immediata distanza tra azione scenica e spettatore, segnando una netta linea di demarcazione tra lo spazio e il tempo scenico e quello del pubblico. Senza ci si sarebbe spinti oltre?
È una voce primordiale quella che guida invece i movimenti di Annamaria Ajmone che con La notte è il mio giorno preferito porta sul palco un linguaggio fatto non di suoni, ma movimenti. Proprio come gli animali comunicano muovendosi – si pensi al volo degli uccelli, a quello delle api o alle posizioni assunte dagli animali domestici, a quelle dei predatori – l’Ajmone fa del proprio corpo lo spazio di incontro con l’Altro.
L’incontro è il punto di partenza anche per le pratiche di condivisione proposte da Bebe Books nel loro OFF-Temple, un tempio non allineato, un contenitore fisico all’interno del quale mettere in atto pratiche queer, dalla costruzione tramite collage della propria icona – giocando sul doppio uso del termine in ambito religioso e pop – alle tecniche di tie dye passando il ricamo, tutte azioni pensate per un momento di incontro, e infine restituzione, collettivo. Dieci giorni di rituali tra le mura di un tempio poroso che può essere smantellato e riallestisto in pochi giorni assemblando generici e spesso invisibili elementi che definiscono le infrastrutture delle città e dei paesaggi. Uno spazio che nasce dal rifiuto dell’idea di radici e contesto nel quale si incontrano storie personali, emozioni, relazioni e interazioni, a Santarcangelo come, in futuro, ad Oostende. Un approccio che sembra trovare il proprio corrispettivo notturno sotto il tendone di Imbosco, spazio ritrovato dopo due anni di sospensione. Industria Indipendente ne fa ad esempio luogo di occupazione temporanea con Merende, progetto residente all’Angelo Mai che si manifesta in contesti e forme differenti, dove i principi dell’offerta e dell’ospitalità modellano la pratica artistica e lo stare insieme. Lo svago diventa forma di resistenza e il clubbing uno spazio di autodeterminazione e libertà, spazio dove fermarsi, riconoscersi, confondersi, avviare trasformazioni. Sotto quel tendone da circo immerso tra gli alberi ai piedi del Parco Cappuccini, alla fine degli spettacoli per tutto il Festival nel buio della notte tutto diventa possibile.
Dallo spazio pubblico a quello privato, Mats Staub porta in scena con Death and Birth in My Life il racconto della vita e della morte attraverso la voce e l’esperienza degli altri. ambienti domestici nei quali il pubblico si incontra per ascoltare le storie di altri. Tra voyeurismo ed empatia, tra le mura di un’abitazione privata o di un ristorante nel suo giorno di chiusura, il pubblico si incontra invitato ad ascoltare, senza alcuna possibilità di interazione se non nel momento dedicato al post visione, semplicemente prendendo parte alla proiezione di alcuni filmati in cui due sconosciuti si incontrano, uno di fronte all’altro, e si raccontano. La fruizione collettiva si fa motore di condivisione di storie e allo stesso tempo momento intimo e personale senza alcun obbligo di condivisione.
Sembra dare voce a ciò che non si vede L’Âge d’Or, il tour guidato all’interno del centro commerciale Le Befane di Rimini. Tramite le parole di Emilia Verginelli, guida dal tono scanzonato, prende forma il racconto delle dinamiche sociali ed economiche sulle quali si base la contemporaneità e dalle quali siamo ormai stati inglobati senza rendercene conto. La visita guidata diventa così momento di consapevolezza con il racconto delle teorie commerciali e sociali che hanno dato letteralmente forma ai centri commerciali come li conosciamo oggi, ma anche occasione di piccoli atti di ribellione come svoltare a sinistra anziché a destra come normalmente è stato previsto, ballare all’interno di uno dei negozi.
Dal movimento dei corpi nello spazio nascono le cartografie di Echoes, danze pensate da Cristina Kristal Rizzo per spazi differenti per dialogare con il luogo che le ospita grazie all’abilità dei corpi di entrare in contatto con il paesaggio. A Santarcangelo il luogo scelto è quello del piazzale davanti al Convento dei Cappuccini, una terrazza affacciata sull’orto degli ulivi. Qui i corpi dei cinque performers coinvolti disegnano e compongono senza soluzione di continuità una coreografia costruita su ripetizioni e differenze in cui momenti di danza in solitudine si alternano a partiture corali nelle quali, forse per la prima volta, la Rizzo da spazio al contatto fisico. Gli echi si dipanano così nella relazione tra i corpi e lo spazio, tra corpo e corpi e infine nella dimensione digitale nel live streaming prodotto in contemporanea – tra gli utilizzi del digitale più interessanti degli ultimi anni alla luce anche delle sperimentazioni fatte in questi ultimi due anni a causa della pandemia e della chiusura degli spazi culturali. La forma della performance sembra così dilatare i propri spazi e tempi, diventando evento unico nel qui ed ora e allo stesso tempo fruibile in qualsiasi altro luogo e momento.
È un urlo che squarcia il silenzio quello di Silvia Calderoni, Stefania Tansini e R.Y.F. (Francesca Morello) in Tutto Brucia, nuova produzione di Motus che riscrive le Troiane di Euripide attraverso le parole di J.P. Sartre, Judith Butler, Ernesto De Martino, Edoardo Viveiros de Castro, NoViolet Bulawayo, Donna Haraway. Il suono e la voce riempiono il piccolo spazio del Teatro Il Lavatoio in un lamento che alterna danza, dialogo e canti sui quali i piani narrativi si accumulano e le figure di Ecuba, Cassandra, Andromaca, Elena e Astianatte danno voce ai soggetti più esposti e vulnerabili. È la narrazione stratificata e polifonica – forse troppo per solo due interpreti, nonostante la loro bravura – di un futuro dove tutto è già accaduto, fatto di rovine e cadaveri, e che appare non poi così lontano. Ai corpi sopravvissuti non resta che adattarsi, trovare nuove forme, per immaginare la fine di un mondo e non del mondo per riscrivere quello verrà.
Se per i Motus il corpo e la sua metaformosi sono lo spazio e lo strumento di elaborazione del lutto, per Camilla Montesi, prima artista ospite a Santarcangelo per KRAKK – progetto di residenze annuali al Teatro Il Lavatoio, il corpo è il punto di incontro con il pubblico per raccontare la paura e il panico. In un breve, ma completo, solo di danza la Montesi porta in scena un viaggio che fa emergere ciò che è sotterrato: proprio come nei momenti di forti emozioni ogni singolo muscolo è coinvolto facendo trasparire ciò che le parole spesso non riescono a spiegare.
Inspiegabile per Teresa Vittucci sembra anche il fastidio che può provocare la curiosità femminile. Eva e Pandora, due figure appartenenti a due immaginari diversi (quello cristiano e quello della mitologia greca), accomunate dall’etichetta di essere colpevoli dell’inizio della fine. Ma ree di cosa? Non hanno forse solo colto un frutto e aperto un vaso? Basta questo per colpevolizzare le generazioni successive di quanto accade loro solo perché donne? In un mondo sospeso, quasi alieno, la Vittucci insieme a Colin Self si pone proprio queste domande. DOOM è uno spettacolo ironico, portato in scena da un duo affiatatissimo, che esplora le origini della femminilità e dell’immagine della donna a partire proprio da Eva e Pandora. Figure mitologiche e bibliche dal destino parallelo la cui storia viene riletta tramite una prospettiva critica e queer-femminista.
In un susseguirsi e stratificarsi di narrazioni, voci, silenzio e suoni, ciò che emerge da questa edizione di Santarcangelo è la capacità delle arti performative di farsi strumento di nuove prospettive. Abbandonato l’obiettivo di dare voce a chi non ce l’ha, evitando così una posizione paternalistica e privilegiata, il teatro si fa voce talvolta personale, emotiva, e talvolta collettiva, ma mai presuntuosa. Can you hear your own voice non è una risposta, ma un generatore di domande.