“Fare qualcosa di originale”, come difendere la pittura nell’epoca concettuale. Di questo si è dimostrato ben più che capace Salvatore Mangione, in arte Salvo, che la Dep Art Gallery di Milano ospita fino al 28 gennaio. Dopo le tre esperienze espositive precedenti, è la volta di Sicilie e città: due momenti di particolare rarità nella parabola biografica dell’artista messi in scena dal curatore Gianluca Ranzi.
Siciliano di nascita ma di adozione torinese fin da giovanissimo, è proprio la città sabauda a permettergli il primo punto di contatto con gli artisti dell’Arte Povera, radunati dalla galleria di Gian Enzo Sperone, al cui incontro seguirà la conoscenza con una serie di grandi critici come Germano Celant, Renato Barilli e Achille Bonito Oliva. Siamo a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta e proprio a quest’epoca risale il primo sodalizio con Alighiero Boetti, amico oltre che collega con il quale condivise lo studio fino al 1971. Forte del suo primo viaggio in Afghanistan, lo stile di quest’epoca postula in modo limpido gli archetipi della sua ricerca artistica: il rapporto con l’antico e con la storia, la ricerca dell’io e per converso l’autocompiacimento narcisistico. Proprio a questi anni appartiene la stagione di sperimentazione fotografica, celebre per l’opera Autoritratto come Raffaello, e il lungo ciclo di lapidi in marmo che recano incisioni di parole o periodi. Risale proprio al 1970 e proprio alla galleria Sperone la sua prima mostra personale, nella quale l’autore presenterà opere che, pur subendo l’interferenza celantiana dell’Arte Povera, evidenziano in filigrana una serie di riferimenti culturali, monumentali, letterari e storici che già anticipano la ricerca futura e che contribuiscono a tratteggiarne le bisettrici.
In seguito alla partecipazione alla epocale documenta 5 di Harald Szeemann, avviene nel 1973 la grande rivoluzione: il ritorno alla pittura, per non abbandonarla mai più. O meglio: un ripristino che in realtà “non c’è stato, perché non ho mai abbandonato la pittura” dichiara l’artista, “anche quando, nei primi anni ’70, un gallerista nascose a un collezionista un mio quadro. Se ne vergognava. A un certo punto, nonostante i miei lavori concettuali fossero apprezzati, ho sentito la necessità di allontanarmi da quella che ormai era una moda” per citare un passaggio di una suggestiva conversazione con Luciana Castellini. Prosegue: “Mi sono chiesto se davvero si fossero esaurite tutte le possibilità d’espressione sulla tela”.
A metà degli anni Settanta, Salvo dipinge le prime Sicilie e Italie presenti per sommi capi in mostra. Sullo sfondo di mappe geografiche, l’artista elabora una griglia modulare di lettere che compongono i nomi di illustri riferimenti culturali di ogni epoca, al termine dei quali Salvo compare sempre, come fosse discepolo di tutti, e primo dei contemporanei. Non a caso, “io sono il migliore”. Le opere esposte ben raccontano la genesi prima nostalgicamente siciliana e letteraria, poi italiana di questo stile a scansione geoenigmistica tanto affine e al contempo tanto distante dall’esperienza dell’amico Boetti, dove attraverso le bicromie delle lettere in griglia si identificano i confini tra terra e mare, e quindi le silhouette dell’isola o della penisola. Questi sono i primi passi di riaffermazione di una certa pratica pittorica, che evidentemente non dimentica quell’autoreferenzialità tipica di certe esperienze precedenti e che parte da certi curiosi disegni radianti al lapis su carte di atlanti che solo in seguito diventeranno anch’esse componente pittorica, come quella Sicilia del 1974.
Gli anni successivi rappresentano ancora un’inversione di scala: dalla carta geografica al paesaggio, che ben presto diviene il soggetto primo della produzione pittorica. Nulla a che spartire con un paesaggio tratto dal reale, quindi nulla di tangente il post-Impressionismo, quanto piuttosto all’esperienza metafisica e alle avanguardie, in un “novantico” profondamente legato alla forma delle cose. Al contrario di ogni pittore realista, per Salvo i dettagli sono cosa accidentale, e quindi evitabili. In senso specifico, dagli anni Ottanta l’attenzione cade sul paesaggio urbano, quindi sulle Città, ovvero il fulcro della seconda parte della mostra. Una tanto rigorosa quanto abbondante serie di dipinti anima la parete di fondo, che si fa come tassellata di capitoli di narrativa talvolta urbana, talvolta decisamente più astratta. Divertente, infatti, come certi particolari architettonici siano per Salvo occasioni di divertimento assoluto nell’interpretazione stilistica di un fenomeno, come quello della luce da un lampione, da un faro o da una finestra: la luce come energia di squarcio obliquo, di demarcazione di piani di caravaggesca memoria che in certi casi lo fa quasi tergiversare sul resto del racconto di paesaggio, limitandosi a solidi muti sullo sfondo, in una silenziosa suggestione neoplastica e particolarmente saturata.
Di particolare intensità le silenziose Fabbriche, dove la resa stessa della Sole che brilla in cielo ricorda un controluce fotografico e quasi annoia per l’intensità elettrica di quel giallo che irradia corposamente, mentre altri dipinti, pur pervasi dall’oscurità notturna, si animano di personaggi senza volto e senza nome, spesso alla guida di un’automobile o intenti a manovrare un tram del quale non si percepisce lo sferragliare, in un crogiolo incredibilmente sensibile a così tante esperienze pittoriche del secolo scorso.
Infine la parete dei Bar, nella quale troneggia quella grande versione del 1981 che Maurizio Calvesi scelse, assieme ad altre cinque opere, per la mostra “Arte allo specchio” della 41a Biennale di Venezia del 1984. Ancora il tema della luce, ancora il tema dei piani, ma soprattutto ancora l’autocompiacimento, visto che tutti quei personaggi al tavolo coincidono con autoscatti dell’autore. La composizione è più assonometrica che prospettica: non c’è una linea di fuga e anzi è un continuo accavallamento di luce e di riflessi, di colori impossibili e di piani imperfetti, che vanno a tracciare un palcoscenico costruttivista, come se sovrapponesse più istantanee fotografiche in un’unica opera “fauve, ma anche pop” come riporta Carolyn Christov-Bakargiev.
“L’oggetto non ha una possibilità di definizione limitata”, riporta l’artista. Rappresentarlo è quindi impossibile, potendo disporre di un’infinità di rappresentazioni. Ma è ben noto quanto le idee di ripetitività e ripetizione non spaventino affatto Salvo, che anzi ne coglie ogni potenzialità dialettica in più fasi della sua ricerca. Questo dialogo tra molteplicità, questa sua indisposizione a certi archetipi testimoniano la sua dominanza intellettuale oltre che artistica, sovente con il rischio della presunzione. Forte di importanti mostre internazionali e del rapporto letterario con Leonardo Sciascia e Giuseppe Pontiggia, nel 1986 pubblica il trattato Della Pittura – Imitazione di Wittgenstein, senza mai dimenticare la pittura. Dichiarava: “Un quadro è un capolinea: è un arrivo (per chi l’ha fatto) e una partenza (per chi lo guarda)”. Per questo, non resta che partire: un elogio a Salvo, artista storico e artista consapevole.