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Percezione, corpo, movimento: arte come vita. Questo potrebbe essere il sottotitolo della bella mostra ospitata al Mart di Rovereto. Curata da Gianfranco Maraniello, direttore del museo, Denis Isaia, curatore Mart, e Ryan Roa, assistente dell’artista, la mostra di Robert Morris presenta 13 audiovisivi (12 mai esposti prima in Italia) e 8 tra sculture e installazioni: selezione che permette di analizzare la ricerca che l’artista ha portato avanti a partire dagli anni ’60, anni in cui sono stati sicuramente incisivi l’incontro con John Cage e La monte Young in California prima e con Marcel Duchamp a NY dopo. Di grande importanza è anche l’interesse per il teatro che negli anni Sessanta lo avvicina alla Judson Memorial Churc, dove nascerà la New Dance americana. Questi incontri sono stati determinanti per il suo lavoro, come testimonia per esempio il video Neo Classical (1971), in cui Morris “assembla gli strumenti principali della New Dance e li trasla nello studio degli oggetti” (Denis Isaia): la scultura non è più posta su un piedistallo per essere guardata, ma viene trasformata in un oggetto da vivere.
La mostra mette in primo piano l’interesse che Morris nutre per la percezione e la relazione tra oggetto, spazio e movimento, nonché per la radicale destrutturazione della convenzionalità delle categorie di spazio e di tempo. In primo luogo si nota l’indagine sul corpo e sul movimento, in video che vogliono eliminare ogni virtuosismo della danza per promuovere azioni elementari: come si muove un corpo? e come si comporta in relazione ad un oggetto ed ad uno spazio-tempo dato? Slow motion (1969) è un film girato con una cinepresa ad alta velocità in modo tale che nella proiezione tutto risulti esageratamente rallentato. Qui si vede la schiena nuda di un corpo maschile che si schiaccia contro un vetro trasparente: “È tempo di schiacciarci addosso alle cose, premerle qua e là, strisciarci sopra, non tanto per un impulso bambinesco a tornare nella stanza dei giochi, ma per riconoscere che il mondo inizia là dove finisce la pelle” (R. M.). Oppure Morris sonda il territorio della critica d’arte, decostruendone l’assiomaticità e la rigidezza, come in 21.3 (1964 / 1993), un video in cui un attore veste i panni di un conferenziere che legge Studi di iconologia (1939), il libro di uno dei più celebri esperti in materia, Erwin Panofsky. La rigidezza del volto e la precisione del labiale, però, vanno fuori sincrono rispetto all’audio, nell’intenzione di far emergere l’instabilità della teoria del critico. È un messaggio presente anche nell’ultimo film realizzato, Birthday boy (2005), girato in occasione del 500esimo anniversario del David di Michelangelo. L’opera consiste in due video in cui rispettivamente un uomo e una donna interpretano due critici d’arte che parlano e analizzano scientificamente la statua. Le lezioni, però, progrediscono verso il totale smarrimento della rigidità degli assunti, tanto che, a causa anche del vino che i due bevono a profusione, viene messo in dubbio il valore delle interpretazioni che hanno dominato lo studio del David per secoli, nonché i messaggi e le ideologie ad esso annessi.
Ci sono poi i video Waterman switch (1965 / 1993) e Waterman switch revisited (1965 / 1993), in cui si vedono 3 persone, di cui due nude, compiere azioni semplici e meccaniche camminando su binari e sassi in gomma: il primo mette in luce il quadro completo della scena, mentre il secondo si focalizza su alcuni particolari, grazie all’utilizzo del primo piano e alla ripresa ravvicinata di ogni particolare. Si passa poi a Exchange (1973), un video che testimonia il progetto che hanno svolto insieme Morris e l’artista Lynda Benglis: senza mai incontrarsi, i due comunicavano attraverso i video che l’uno lasciava all’altra e viceversa, che venivano poi editati e trasformati in ogni fase del processo. Domina qui l’antinarratività, in quanto Morris si concentra sugli aspetti linguistici dell’audiovisivo e non su congruenze e sequenze crono-logiche, come poi accade anche in Gas station (1969): un video a due canali, dove l’uno riproduce le riprese di una telecamera fissa che, dalla finestra dell’hotel dove stava Morris, filma l’intera stazione di California, senza cambiare inquadratura; nell’altro si vede, invece, il risultato delle riprese di una telecamera posta nella stessa camera, ma manovrata dall’artista. Se da una parte i minimi dettagli sono quasi impercettibili e la loro focalizzazione dipende totalmente dallo spettatore, dall’altra è Morris a zoommare e inquadrare certi particolari, limitando la possibilità di scelta del pubblico. Nell’intenzione di destrutturare il linguaggio cinematografico, Morris realizza nel ’69 Mirror, un video in cui un uomo in un prato innevato tiene in mano uno specchio rettangolare che riflette cielo, suolo e alberi circostanti. Senza che la telecamera riprenda se stessa riflessa dallo specchio, nel corso del film verrà restituito anche il punto di vista del regista, rompendo la relazione tra cinepresa e pubblico e la consueta resa dell’immagine per un preciso recto (o verso). C’è poi Wisconsin (1970), in cui Morris dice ad un gruppo di studenti di simulare azioni di rivolta; Arizona (1963 / 1993), dove un attore impersona un operaio che svolge movimenti semplici e ripetitivi; Site (1964 / 1993), performance in cui Morris, nelle vesti di un operaio, prende e sposta fogli di compensato bianco e facendo questo svela, alle sue spalle, una donna distesa nella stessa posa dell’Olympia di Manet: è una riflessione velata sulla pittura e scultura, percepite qui come arti esclusivamente legate alla fisicità, o come oggetti esse stesse. Oltre a tutti i video, in mostra sono esposte anche alcune sculture. Tra queste si ricordano Box with the sound of its own making (1961): un cubo di legno minimalista sporcato da un audio di tre ore e mezza proveniente dal suo interno, riproducente il rumore che Morris ha ottenuto durante la realizzazione dell’oggetto stesso, che testimonia la sua attenzione per la processualità, il movimento e il corpo.
Il soffitto della penultima sala della mostra è occupato da quattro specchi curvi che costituiscono l’opera Lille Mirrors (2012): gli specchi consentono di vedere da angoli e prospettive diverse, nonché di riflettere sulla molteplicità della visione e dell’assenza di un unico punto di vista. Al centro della stessa sala è posto Untitled (Labyrinth) (2012), un vero e proprio labirinto fatto di rete, in cui il corpo rimane ingabbiato, mentre lo sguardo è libero di vagare attraverso la trasparenza del materiale che lo costituisce: “Dentro il labirinto si palesa un paradosso, perdiamo noi stessi per ritrovare noi stessi” (R. M.). Sono anche presenti le sculture Column (1961) e Untitled (Portal with mirrors) (1961), oltre ai due poster Untitled (Poster for voice) (1974) e War (1963).