Tra le malattie ad oggi conosciute, la rabbia sembra essere ancora oggi l’unica contro la quale l’umanità sembra non aver trovato cura. Ormai dimenticata in Occidente, la rabbia ha plasmato il nostro immaginario dalle rappresentazioni medievali al mito del vampiro. È proprio dal fascino di questa ultima figura immaginaria che il fotografo Richard Mosse – in mostra al MAST di Bologna per la sua prima antologica a cura di Urs Stahel- viene colpito. Ad interessarlo è il fatto che tale mito, e la sua consacrazione nella figura di Dracula creata da Stoker, sia essenzialmente una narrazione modernista e metafora del capro espiatorio: la coalizzazione della maggioranza contro la minaccia. La figura del vampiro si diffonde in Europa in epoca illuminista con l’arrivo di racconti provenienti dai possedimenti in Serbia dell’imperatrice d’Asburgo Maria Teresa che inviò il suo medico Van Swieten per indagare questa ossessione tramite i lumi della scienza. Ed è proprio a lui che si ispira il personaggio di Van Helsing, antagonista di Dracula. Il romanzo di Stoker consacra dunque l’associazione del mito del vampiro al contagio a partire dalle caratteristiche stesse normalmente attribuite al vampirismo che corrispondono ai sintomi della rabbia. Affascinato dalla capacità del racconto di dare nuova forma visibile ad un processo invisibile come la diffusione di un virus, Mosse inizia a lavorare a progetti fotografici che documentino la malattia e il concetto di quarantena. Dopo un viaggio fallimentare in Malesia nel tentativo di raccontare della pandemia Nipha del 1999 diffusasi per opera dei pipistrelli della frutta a seguito di una deforestazione massiccia, il fotografo irlandese si reca nella Repubblica Democratica del Congo sulle tracce dell’Ebola trasmessa dallo stesso animale. Un altro progetto non concluso che porta però Mosse vero il Congo orientale, nella regione del Nord Kivu.
Tra i Paesi più ricchi al mondo per risorse naturali, il Congo è ancora oggi tra i Paesi più poveri al mondo. Il suo potenziale economico è stato frenato già tra il XVI e il XVII secolo dopo il crollo del Regno del Congo a causa delle azioni coloniali perpetuate dagli europei, in particolare dal Belgio di Leopoldo II. Dal 1960, anno dell’indipendenza, l’enorme paese grande sette volte la Germania è stato prima guidato dai suoi leader in tre conflitti bellici e dal 1994, dopo il genocidio in Ruanda, le milizie ribelli stabilitisi sul territorio hanno alimentato nuove ondate di violenza che hanno causato più di cinque milioni di morti. Conflitti dei quali sembra non rimanere traccia. Se in Occidente le armi da battaglia lasciano segni di distruzione come città devastate ed edifici distrutti, le armi bianche delle milizie congolesi come i machete e la mancanza di centri urbani non lasciano alcuna rovina, alcun segno di quello che è stato. La lussureggiante vegetazione ne copre le tracce rendendolo un evento storico reale, ma difficile da documentare. È proprio in questa difficoltà che il concetto di diffusione del virus e la sua rappresentazione in Dracula, vengono in soccorso a Mosse.
Se nella serie dei suoi primi lavori al centro dell’attenzione vi era proprio la rovina, prima nell’assenza totale di figure umane negli scatti realizzati in Bosnia, Kosovo, Striscia di Gaza e confine tra Messico e USA, e successivamente con Breach (2009) nella presenza dei soldati americani nei palazzi imperiali di Saddam Hussein, per raccontare le vicende del Congo Mosse fa della Kodak Aerochrome il mezzo con il quale rendere visibile l’invisibile. Pellicola da ricognizione militare ormai fuori produzione, l’aerochrome era stata messa a punto per localizzare i nemici mimetizzati tra la vegetazione. Il risultato è una serie di scatti dal titolo Infra realizzati tra il 2010 e il 2015, nella quale la lussureggiante foresta congolese scenario di atroci conflitti viene trasfigurata in un paesaggio surreale dai toni del rosa e del rosso. Mosse fotografa paesaggi, scene con i ribelli, raduni all’aperto, trasformati dal procedimento straniante della pellicola in luoghi artefatti ai nostri occhi, luoghi lontani ed esotici le cui vicende sembrano appartenere ad un altro mondo.
Tra gli scatti anche le abitazioni mobili di una popolazione costretta a postarsi senza sosta e soldi della milizia i cui ritratti, dalle tute mimetiche virate al magenta vivo, sembrano fotografie di moda pronte per essere pubblicate sulla pagina patinate. Ad accompagnare il progetto fotografico è la videoinstallazione The Enclave allestita ai piani inferiori del MAST come una narrazione stratificata di un conflitto che vede tutti contro tutti, un palinsesto di guerre diverse. Un’installazione immersiva composta da un video a sei canali della durata di quaranta minuti girato nel 2012, al culmine del conflitto per il controllo della capitale del Paese, sonorizzato da Ben Frost nel quale tra erba altra e rigogliosa boscaglia si susseguono azioni militari, addestramenti e scontri tra combattenti. Il tutto in un’atmosfera resa surreale dal viraggio cromatico della pellicola.
Infra è il primo progetto con il quale Mosse non utilizza macchine fotografiche standard e pellicole tradizionali ricorrendo invece a materiali che esulano dalla fotografia artistica, approccio che i teorici dell’immagine Rune Sugmanm, Frank Möller e Rasmus Bellmer hanno coniato il termine sensor realism.Mosse infatti si appropria delle tecnologie introdotte per la visualizzazione e la gestione di un problema facendone un uso artistico e critico anche nel progetto Heat Maps con il quale tra il 2014 e il 2018 si concentra sulla migrazione di massa utilizzando una termocamera in grado di registrare le differenze di calore nell’intervallo degli infrarossi. Il risultato è un serie nella quale le fotografie finali sono il frutto di una scansione frammentata della realtà. Alcune appaiono incisioni dalle ampie dimensioni, altre immagine HDR esasperate come quelle realizzate per le macchine da corse. La lunga esposizione e il movimento della termocamera, capace di catturare la figura umana fino ad una distanza di trenta chilometri, danno vita ad immagini in apparenza a distanza complete, ma che se viste da vicino rivelano corpi ed oggi tagliati o deformati, fantasmi che si agiranno in non-luoghi. La tecnica di frammentazione dell’immagine, conseguenza inevitabile data dal mezzo stesso utilizzato, viene esasperata nel video wall Grid (Maria) del 2017 in cui 16 schermi scorrono come cartelloni pubblicitari cittadini mostrando le immagini raccolte nel corso di due anni nell’omonimo campo profughi sull’Isola di Lesbo, conosciuto per le sue pessime condizioni di vita. Il linguaggio del video torna nell’installazione Incoming dello stesso anno per il quale Mosse torna a lavorare con Trevor Tweeten e Ben Frost realizzando un video suddiviso in tre scenari: il primo girato su una portaerei mostra i preparativi per il decollo di jet militari di ricognizione sul Mediterraneo, il secondo si concentra sui migranti in arrivo e il terzo sui campi profughi. Il risultato, ancora una volta, è una narrazione visiva frammentata e dall’aspetto estraniante della termocamera per il quale i corpi appaiono come ricoperti da uno strato di polvere, sopravvissuti a Pompei, e i primi piano mostrano i volti nei soli lineamenti, donne dai capi coperti che appaiono come Madonne senza sguardo.
Tra il 2018 e il 2019, Mosse inizia ad esplorare la foresta pluviale sudamericana e per la prima volta sposta il suo sguardo dall’insieme verso il dettaglio, il micro. Ne nasce la serie Ultra, realizzata con la tecnica della fluorescenza UV, con la quale il fotografo scandaglia il sottobosco, i licheni, i muschi. Ancora una volta i dispositivi di sorveglianza sono utilizzati per rendere visibile l’invisibile, svelare le strategie naturali di mimetizzazione tra proliferazione e parassitismo. Il risultato è una seria di immagini di grande formato nelle quali gli elementi naturali appaiono come gioielli preziosi e oggetti di design dai colori quasi metallici.
Per il suo più recente progetto Tristes Tropiques, esplicito rimando al saggio di Lévi-Strauss, Mosse decide invece di utilizzare la tecnologia satellitare per documentare la distruzione dell’ecosistema ad opera dell’uomo. Una documentazione che assume la forma di una sorta di cartografia di resistenza che mette in luce i danni ambientali difficilmente visibili ad occhio umano come la deforestazione nell’Amazzonia brasiliana. Un’ultima ricerca che conferma la capacità di Mosse trasformare la tradizionale fotografia documentaria attraverso la tecnologia e uno sguardo rivolto non alla documentazione dei processi in atto, ma dei suoi climax. Il risultato è una serie di immagini esteticamente accattivanti per colori e forme capaci di raccontare la bellezza del mondo e l’atrocità delle azioni umane.