Al Mart di Trento e Rovereto è stata inaugurata a ottobre la prima esposizione antologica italiana dedicata a Richard Artschwager (1923-2013): è un progetto espositivo importante e inedito, a cura di Germano Celant e ideato in collaborazione con il Guggenheim di Bilbao, visitabile fino al 2 febbraio 2020.
Quando Richard Artschwager – europeo d’origine, vissuto a Monaco di Baviera e poi tra New York, Washington, Hudson e New Mexico, laureato in biologia e soldato in Germania durante la seconda guerra mondiale – rientra negli Stati Uniti e inizia a lavorare nella Grande Mela come carpentiere ebanista, la scena artistica americana è vitalissima.
All’inizio degli anni Sessanta, la comunicazione in arte ha sostituito l’azione, ricorda Celant, e l’espressionismo astratto con l’Action Painting ha lasciato il posto a una nuova forma di impersonale oggettività, «connessa all’artificialità dei media». La Minimal Art negli States e l’arte programmata in Italia affermano in parallelo una costruzione degli oggetti e una progettazione tecnologica dei manufatti che si fonda sul fare industriale e sull’utilizzo di materiali non naturali.
I primi lavori di Artschwager esposti al Mart, infatti, ripercorrono in un allestimento labirintico, questo primo passaggio della sua ricerca: Portrait zero (1961), Handle (1962), Chair (1963), Table and Chair (1963-64) sono opere che riflettono sul rapporto tra funzionale e inutile, tra arte e artigianato, tra uso di materiali di recupero e materiali non artistici ma prelevati dal design e dalla costruzione, come la formica, che imita altri materiali, a volte in maniera assolutamente kitsch. Accanto a questa, ci sono anche: celotex, acrilico, alluminio, legno…tutti materiali che per l’artista hanno lo stesso grado di interesse e funzionalità.
«Per quanto diversi» sostiene Artschwager in un articolo del 1993 «arte e design operano nello stesso territorio. E sono diversi, il secondo risponde all’utile e il primo all’inutile. Si tratta sempre di questo: in fin dei conti, è una distinzione che li rende entrambi utili per noi. Dal momento che arte e design operano nello stesso territorio fisico, c’è da aspettarsi un mescolamento, no?»
Il territorio fisico di cui parla Artschwager è in fondo il macro-tema dentro il quale l’artista lavora per tutta la sua produzione: la domanda intorno alla comprensione dello spazio e degli oggetti quotidiani che lo abitano è la fondamentale. Non si occupa solo di scultura, però, e cerca infatti di studiare lo spazio attraverso la pittura, fin dagli esordi: i dipinti dell’artista, a differenza delle sculture dalle superfici nette e lisce, sono materici e spesso ispirati al paesaggio e all’architettura – scene di interni e di esterni tratte da fotografie – in cui la qualità tattile è indagata attraverso il materiale e le sue textures (emblematiche sono le opere: The Bush, Triptych V, Apartment House). I dipinti su celotex (un materiale usato per i controsoffitti ricavato dalla fibre della canna da zucchero) sono i protagonisti di queste prime indagini e fanno da contraltare alle sculture di legno e formica dipinte e minimaliste, quasi astratte, degli anni Sessanta e degli anni Ottanta, dove l’ironia scaturisce dal sovvertimento delle regole d’uso dell’oggetto – come in Piano, 1965 o in Tower III (Confessional), 1980.
Il percorso espositivo al Mart è integrato o interrotto a volte dai Blps, che sorprendono lo sguardo del visitatore, come segni nello spazio con una propria sonorità (il nome deriva dal rumore del sonar: blips è la pronuncia).
Gli anni Ottanta e Novanta sono anni in cui Artschwager sperimenta e amplia il proprio repertorio di forme e dimensioni. Compaiono le prime strutture tridimensionali complesse, in cui l’illusione pittorica è mescolata a quella della forma dell’oggetto in sé: divertente è l’opera Door }, 1984-85 e l’imprevedibile Question Mark – Three Periods, 1994. Entrambe giocano con i segni di interpunzione alludendo nel secondo caso a grandi domande che lo spettatore può farsi nello spazio.
Tra il 1992 e il 1993 Artschwager comincia a lavorare sui crates (le casse che servono per il trasporto delle opere d’arte): è un arcipelago di casse imbullonate di legno e ferro quello che viene presentato nella grande sala centrale del percorso espositivo.
I corner pieces, cioè le forme degli oggetti espanse, rotte, “esplose” negli angoli della mostra come la Splatter Chair B e lo Splatter Office, sono un ulteriore momento di elaborazione degli anni Duemila: Artschwager riflette sul rapporto tra tridimensionalità e bidimensionalità creando delle opere disintegrate e appiattite a parete; sono mobili e oggetti ricreati con diversi materiali e poi metaforicamente lanciati per rompersi nello spazio di un angolo.
Gli ultimi periodi di creazione dell’artista sono infine volti a un ritorno alla figura e al paesaggio ma senza derive naturalistiche e ancora approfondendo l’indagine sullo spazio e la sua percezione: le sagome di figura umana fatte di crine di cavallo gommato sono silhouettes che stanno piatte come dipinti sulla parete e mantengono quella tattilità tipica dei quadri di Artschwager su celotex (si veda Standing woman, 1999 o Diving Boy I, 1998).
Le opere pittoriche degli anni Duemila, invece, sono per lo più paesaggi dell’Ovest realizzati su una carta di fibre vegetali molto ruvida applicata su legno o gessi: non sono più fotografie tratte dalla stampa ma forse ricordi e memorie di vita americana.
«La maggior parte di ciò che facciamo noi artisti sono giocattoli, che dovrebbero generare una sorta di attrazione immediata, proprio come fanno i giocattoli con i bambini…L’arte è inutile da guardare, inutile da vedere: si tratta di oggentti non necessari alla vita. Partiamo dal principio di piacere – siamo nati con quello – che è sano ed è una costante nella vita. Ci torniamo sempre.» (R. Artschwager)