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Mazorca è la pannocchia, frutto del mais, base alimentare delle popolazioni sudamericane. In quanto bene fondamentale, il mais è stato tra gli obiettivi della strategia militare che ha opposto la dittatura alle popolazioni durante i trentasei anni di guerra civile, terminata nel 1996. La distruzione dei campi fu, tra le altre violenze, un’arma volta ad affamare le comunità indigene ostili al governo e a indebolire la guerriglia. Diciott’anni più tardi, il mais viene ancora minacciato da ben altro nemico: nel 2014 il governo guatemalteco approva la legge di “Obtencion Vegetales” detta comunemente “Legge Monsanto” che apre alla multinazionale introducendo le produzioni OGM insieme a un contesto normativo severissimo, tale da rendere illegali le pratiche tradizionali contadine legate alle sementi, con la conseguenza di distruggere la biodiversità esistente e di rendere il sostentamento delle popolazioni legato unicamente al mercato. La legge è l’ennesimo episodio nella strategia di penetrazione della Monsanto in America Latina, già tentato in altri paesi. In Guatemala, la mobilitazione della popolazione e delle amministrazioni locali, in particolare dei 48 cantoni di Totonicapàn, non tarda a organizzarsi e incidere a al punto da riuscire, dopo aspre lotte, a far abrogare il provvedimento.
In un periodo di dibattiti sul cibo e il sostentamento del pianeta, Regina Josè Galindo ricorda e denuncia il pericolo di una gestione privatizzata delle risorse, mettendo in scena la distruzione del mais: nascosta in un campo di grano, mentre due uomini, armati di macete tagliano, una a una, tutte le piante, l’artista rimane sola e nuda, alla fine di questo scempio, in piedi tra le spighe a terra.
I colpi che si susseguono netti segnando il ritmo della lenta distruzione dell’appezzamento, diventano il suono dell’oppressione e della violenza sulla popolazione da parte del potere politico, militare o delle multinazionali, mentre la sua esile figura è un invito alla presa di coscienza e all’opposizione e una pratica di rivivere e di preservare la necessaria memoria storica dell’oppressione.
Mazorca è un’accusa al tentato attentato alle fonti di sostentamento: il mais è un bene prezioso, come dimostrano le pannocchie realizzate in oro, argento, bronzo, rame esposti in mostra insieme ad alcuni disegni, produzione meno nota ma fondamentale nella ricerca dell’artista guatemalteca.
Galindo si espone sempre, coraggiosamente, in prima persona, come simbolo della tenacia e della resistenza di un popolo che non si arrende. Il suo corpo è un’entità biopolitica che si oppone alla disciplina, e all’omologazione, testimone – come in questa azione – violato, offeso, torturato in altre situazioni per costringere a una riflessione sulle dinamiche di potere e del controllo totali che arrivano al diritto di vita e di morte sulle persone. È un corpo resistente e resistenziale che recupera la drammaticità barocca del sacrificio ma che si pone, nella sua fragilità e forza, come unico possibile baluardo possibile di dissenso. Le performance di Galindo, legate alla contingenza socio-politica, storica e culturale e alle dinamiche di classe ed etnia del suo luogo d’origine, per la loro radicalità vanno oltre l’ovvio riferimento bodista per collocarsi in un’area di impegno e di protesta politica e sociale, rivendicando all’arte un ruolo attivo di denuncia.
Fino al 13 gennaio