L’Arte antica, preoccupandosi del contemporaneo.
Questa è la missione di Recycling Beauty, mostra a cura di Salvatore Settis con Anna Anguissola e Denise La Monica, che Fondazione Prada Milano ospita fino al 27 febbraio 2023. In piena analogia con il concetto di serialità nell’arte antica presentato dal 2015 con Serial Classic e Portable Classic, Recycling Beauty intende indagare in modo simmetrico un’attitudine ancora una volta contemporanea, quella del riciclo, e declinarla in una visione squisitamente archeologica, vale a dire componendo una collezione di oggetti che hanno subìto un processo di trasformazione e di riuso in epoca antica. In questo modo, la stessa categoria contemporanea di riciclo ne esce rinnovata dall’arte antica, che diventa “un filtro per capire il presente”, riporta icastico Settis.
Il progetto di allestimento è stato concepito da Rem Koolhaas/OMA con Giulio Margheri e nasce dal riuso parziale di certi elementi espositivi di mostre precedenti e raccoglie oltre sessanta reperti provenienti da collezioni e musei internazionali, come il Kunsthistorisches Museum di Vienna, il Musée du Louvre di Parigi, la Ny Carlsberg Glyptotek di Copenhagen, le sedi romane dei Musei Vaticani, Musei Capitolini e Galleria Borghese, il Museo Archeologico Nazionale di Napoli e le Gallerie degli Uffizi.
Il tema del riuso del preesistente, al centro della ricerca storica solo a partire dagli anni Ottanta, presuppone in sé l’idea di crisi che ha condannato gran parte delle opere di arte antica. Dai marmi bruciati nelle fornaci per farne calce o frammentati per farne tessere, ai bronzi condannati dalla carenza dei metalli e fusi per farne armi e suppellettili, si contrappone l’idea di salvezza derivante da chi, all’epoca, riconobbe la bellezza di certe opere, salvandole dall’oblio e permettendone la resurrezione.
Non solo bellezza però: appunto, si tratta di bellezza riciclata. Vale a dire quella condizione nella quale il riuso coinvolge non l’oggetto comune, ma l’opera d’arte. Tutte le 64 opere in mostra appartengono a questa categoria: frammenti antichi che abbandonano la loro condizione autentica o di rovina e vengono reimpiegati, modificando cioè il loro contesto d’uso e manomettendone il profilo estetico per adeguarne i contenuti e il senso. Un oggetto archeologico assume in questo modo una fluidità di funzione, forme e di significati totalmente inaspettata che aiuta a comprendere quanto sia mutevole e trasformativa la natura dei processi artistici. Impossibile rimanere impassibili di fronte a certe trasformazioni, che fanno, ad esempio, di un trono d’onore di un teatro greco prima un seggio vescovile e quindi uno scranno d’uso domestico nell’area modenese. O un fregio marmoreo del II secolo che, da decorazione architettonica, diviene in un primo momento scavato per farne una vasca da lavoro artigianale, quindi un’urna funeraria, e infine acquasantiera. Ancora, sette teste di epoca romana tra di loro prive di alcun legame, che attorno al 1400 vennero collezionate e collocate come decorazione sulla facciata di Palazzo Trinci a Foligno, con l’intenzione di rappresentare le Sette età dell’uomo. E ancora, il ritratto dell’imperatore Antonino Pio che venne posto sul corpo di un sacerdote per poi subire una trasformazione come statua di San Giuseppe, dotandolo di un bastone fiorito, ora andato disperso.
Non possono mancare due capolavori di Nicolas Cordier, la Zingarella e il Moro borghese, nate dall’unione di frammenti antichi di bronzo, di alabastro e di marmo nero. Sono poste in dialogo come erano originariamente nella collezione del cardinale Scipione Borghese nei primi del Seicento, in quella Roma che vedeva Alessandro Algardi impegnato all’edificazione della villa Doria Pamphilj, le cui statue della facciata e del giardino nacquero alla stessa maniera. Infine, una straordinaria testa di cavallo ritenuta di epoca greco-romana ma in realtà di Donatello, destinata al monumento equestre di Alfonso d’Aragona, re di Napoli. Lorenzo il Magnifico donò la splendida protome a Diomede Carafa, che la espose nella sua collezione di marmi antichi nella corte di Palazzo Carafa, tanto da appellarlo “Palazzo del Cavallo di bronzo”.
Questo registro narrativo di frantumazione caleidoscopica del mondo antico, ben rappresentato dalle lastre cosmatesche del XIII secolo – mosaici marmorei che nascono frantumando opere preesistenti – è messo in scena nel Podium, dove l’allestimento ricerca un’attitudine di riflessione. Si crea un vero e proprio paesaggio di oggetti che diventa un laboratorio storico, dove grandi scrivanie con sedie di produzione Castelli diventano un invito allo studio e al viaggio nel tempo, stimolando la lettura delle minuziose didascalie.
Per questa ragione, la mostra si presenta come una collezione di storie. Ciascuno degli oggetti racconta il proprio episodio individuale, ma anche un’unica storia comune e collettiva, una biografia eteronoma di archeologie frammentarie. “Un libro di racconti”, dichiara il curatore, “con un’unica, grande cornice: la fine del mondo antico, la morte dell’arte, il bisogno delle necessità materiali”.
Dall’altro lato, nella Cisterna, la mostra si polarizza nella seconda strategia dell’attenzione: quella della meraviglia, attraverso una sequenza di spazi che stimolano l’osservazione da punti di vista alternativi. La Cisterna è dominata dal Colosso di Costantino, una delle maggiori opere scultoree di epoca romana tardo-antica, la cui titanica ricostruzione, mai osata prima se non nella simile variante progettuale di Carlo Aymonino, è il risultato di una collaborazione tra i Musei Capitolini, Fondazione Prada e Factotum Foundation, la cui supervisione scientifica è di Claudio Parisi Presicce. Al termine della mostra, il Colosso troverà ospizio proprio nel complesso museale romano. Questo incredibile lavoro di ricostruzione, ribadito dalla presenza di monumentali frammenti marmorei di un piede e di un dito – così incredibilmente sovrapponibile alla tanto discussa opera milanese di Maurizio Cattelan – dimostra quanto il Colosso sia in realtà il risultato della rielaborazione di un’antica statua di culto, probabilmente di Giove. Dalla monumentalità di Costantino alla meraviglia microscopica della Tazza Farnese, alla quale si dedica un ambiente minimo che quasi ricorda uno studiolo. Si tratta del più grande cammeo in pietra dura dell’antichità che ha resistito l’oblio del tempo, e che dalla sua origine ellenistica viaggiò di corte in corte per mezzo mondo ed entrò in collezioni straordinarie, tra cui quelle di Federico II di Svevia e di Lorenzo il Magnifico.
Quindi, nuovamente ad una scala architettonica attraverso i tredici frammenti scultorei dei Troni di Ravenna, che dimostrano l’emergere storico del fenomeno di collezionismo di antichità. È quel che resta di una serie di ventiquattro lastre, per la prima volta riunite in rilievi originali o, nei casi non trasportabili, mediante calco. O un grande fregio con delfini, tridenti e conchiglie, sapientemente disposto sul ballatoio e originariamente collocato nel duomo di Pisa, ma in realtà proveniente dalla Basilica di Nettuno dietro il Pantheon a Roma. Perché questo rischio e questa fatica di viaggio e costruzione? “Le risposte esplorate negli ultimi decenni”, spiega Settis, “vanno in tre direzioni complementari: il reimpiego può avere valore memorativo (volto al passato), fondativo (diretto al presente), o predittivo (orientato al futuro). In mancanza di documenti è spesso difficile decidere quale di queste intenzioni prevalesse di caso in caso; ed è ben possibile che esse fossero simultaneamente presenti […] Cuore e stimolo del gesto del reimpiego è spesso, o forse sempre, ’inserire il passato nel futuro’, come sostiene Reinhart Koselleck, prevederne o determinarne gli sviluppi. Il nuovo contesto assorbe quel che reimpiega, ma deve (e vuole) lasciarlo riconoscibile anche mentre (anzi, proprio perché) se ne impadronisce”.
Due strategie narrative, due ambienti espositivi, due facce della storia, due grandi sottotesti concettuali: in primis il riuso come unica risposta alla crisi, ma anche una dialettica tra la distruzione e la conservazione, tra oblio e resurrezione, tra morte e vita. Al riguardo, Settis cita il Walter Benjamin dell’Angelus Novus: “Non esiste documento di civiltà che non sia al tempo stesso un documento di barbarie”. Dimostra pertanto quanto la bellezza divenga a tutti gli effetti esito di un processo di distruzione.
In secondo luogo, la mostra si pone in modo dialettico e ragionato come una sfida alla linearità della storia: l’immenso lavoro curatoriale e di ricerca ha restituito opere d’arte spurie, che rappresentano cioè una compresenza, anzi una sovrapposizione di temporalità. Riporta il curatore: “Distanza storica e simultaneità narrativa ed emotiva s’intrecciano di continuo […] La dimensione-tempo sfugge alla sequenza calendariale; è instabile, può essere manipolata e piegata”. E ancora: “La convivenza di temporalità diverse deforma la linea del tempo, il salto da un significato all’altro evidenzia l’instabilità semantica degli oggetti d’arte, il loro prestarsi agli arbitrii dell’interpretazione”. Inoltre, sottolinea quanto questa generosità di cronologie palesi per la prima volta il problema di classificazione che tanto affligge la ricerca, spesso costretta a confrontarsi con ipotesi di purismo archeologico insostenibili.
Insomma, la mostra diviene un’indagine sul concetto stesso di contemporaneo, soppesando con meticolosa ponderazione e diligente arguzia l’importanza dell’attribuzione dell’interpretazione critica del capolavoro in base allo spirito del tempo in cui è gettato. Il tutto senza mai abbandonare quell’eredità accademica derivante, ad esempio, dal magistero di Francesco Arcangeli, il quale per primo sostenne quanto non sussista in arte alcuna contrapposizione tra presente e passato, e quanto quella del tempo divenga, piuttosto, una relazione effettiva di dialogo e arricchimento di significato.