“Hans Josephsohn è molto amato ancora oggi nel mondo dell’arte. I grandi artisti, infatti, non hanno tempo e durano per sempre” racconta Alberto Salvadori, direttore della Fondazione ICA Milano e della mostra dedicata all’artista naturalizzato svizzero, chiusa pochi giorni fa. Hans Josephsohn nasce negli anni Trenta ma, a causa delle leggi razziali, è costretto a scappare a Firenze e poi in Svizzera, dove rimarrà per tutta la vita anche se manterrà un legame forte con l’Italia. Josephsohn crea insieme all’architetto Peter Märkli il museo La Congiunta, spazio dedicato a diverse sue opere e la cui struttura richiama un edificio religioso ma al contempo militare. “Per me è il museo perfetto” continua Salvadori “poiché è interamente legato agli elementi naturali. Non ha custodi nè energia elettrica. L’opera d’arte si trova quindi in una congiunzione esemplare con la sua dimensione spazio-temporale”.
Question of perception è il primo simposio di ICA Milano e si lega alla personale dedicata a Hans Josephsohn negli spazi della fondazione. La mostra è l’unica monografica sull’artista realizzata in Italia e ospita lavori che vanno dagli anni Cinquanta fino al 2012, anno in cui l’artista è mancato. Le opere sono suddivise in quattro categorie: heads (teste), half figures (mezze figure), standing figures (figure in piedi), reclining figures (figure distese) e reliefs (rilievi). “Queste categorie differiscono una dall’altra ma in qualche modo si fondono tra loro nel racconto di una storia. Josephsohn ci invita a volte a circumnavigare le sue sculture in un’intimità personale mentre altre volte le figure sono più ripulsive e tendono ad allontanarci” racconta Chiara Nuzzi, assistente curatrice di Fondazione ICA. Il titolo del simposio riflette sulla tematica della percezione legata alla scultura, contenuto molto vicino all’artista.
Il primo a prendere parola è Ulrich Meinherz, direttore della Kesselhaus Josephsohn di San Gallo, che racconta il passaggio nella carriera dell’artista da una chiara figurazione ad un’astrazione preponderante. Meinherz sottolinea come lo sviluppo del linguaggio nelle sculture di Josephsohn abbia avuto una certa continuità. L’artista infatti ha lavorato sulle half figures per più di sessant’anni scolpendo corpi in modo schematico. È molto condizionato dall’ambiente in cui vive e dalle persone che incontra, a testimonianza del suo bisogno di scambio con l’altro. Mirjam, ad esempio, è stata una delle prime modelle che lo ha seguito durante la sua carriera e la ritroviamo in diversi lavori. Con il tempo Josephsohn continua ad occuparsi di mezzi busti ma il volume del corpo della statua si riduce mentre il viso diventa più riconoscibile e realistico. Quando incontra Ruth, modella e sua partner, la scultura diventa sempre più figurativa anche se il corpo viene rappresentato in modo astratto. L’elemento della bellezza e quello erotico entrano a far parte della sua pratica. Il volume non è ridotto in modo geometrico ma come una sorta di accumulazione di materiale che si dissemina dalla testa fino al torso della scultura. Josephsohn si sentiva uno scultore tradizionale: si riteneva un artista contemporaneo ma in un tempo passato. La sua vita non è stata semplice. Nel 1937 lascia la Germania per studiare arte a Firenze ma, a causa delle sue origini ebraiche è costretto ad abbandonare l’Italia poco dopo. Giunge così in Svizzera e arriva a Zurigo nel 1938 dove diviene allievo dello scultore Otto Müller, mentre nel 1943 fonda il suo primo atelier. In molti notano diverse relazioni con scultori e temi neoclassici, anche a causa delle sue figure orientate e senza movimento. Meinherz suggerisce una correlazione con la Pomona di Marino Marini e ai lavori contenuti al Museo del Novecento di Milano. “Josephsohn non aveva relazioni con lui ma penso ci sia un legame tra loro” sottolinea lo studioso.
Negli anni Ottanta Josephsohn torna ad un volume schematico: la figura si riduce ancora e le gambe sono armai unite. La struttura assomiglia sempre più a un fiammifero. Secondo Meinherz le figure assottigliate di Josephsohn ricordano quelle di Alberto Giacometti, anche se quest’ultimo ricerca spontaneità nei volumi ed è più naturalistico. Altro riferimento può essere Fritz Wotruba, scultore e pittore austriaco considerato uno tra i più importanti artisti del XX secolo. La sua opera è caratterizzata dall’abbandono di ogni componente figurativa a favore dell’astrazione pura. Egli lavora nello stesso periodo di Josephsohn ma lui non sembra averne mai parlato. Molto importanti per l’artista sono i templi medievali indiani che non vide mai ma di cui parlava spesso. Questi relitti non funzionano in modo realistico ma sono astratti e trovano la propria naturalezza nella rappresentazione: si vede in alcuni disegni del tempo come la donna fosse inserita negli elementi architettonici e probabilmente Josephsohn voleva fare qualcosa di simile. Ci sono diversi approcci e tentativi che lui fa partendo da questo soggetto.
La storica dell’arte e curatrice Sharon Hecker, invece, analizza le reclining figures di Hans Josephsohn. La studiosa osserva come queste figure orizzontali si differenzino rispetto alle sculture iconiche verticali per il loro carattere rilassato, sensuale e intimo. Come mai queste figure sono così diverse dalle altre? Come si inseriscono in una storiografia più ampia? La figura distesa è stato un tema molto discusso da tutti gli scultori per più di un secolo e Josephsohn è figlio di questa battaglia. Qual è la relazione dell’artista con queste figure e con noi spettatori?
Josephsohn iniziò molto presto a scolpire reclining figures e, il fatto che torni spesso a fare questo tipo di soggetto, indica che ha una certa importanza per lui. Anche se all’apparenza queste sculture sembrano tutte simili tra loro, ad uno sguardo più attento si nota che ci sono molte differenze: una è più sottile e sinuosa, l’altra è più compatta e meno riconoscibile; una tende più al figurativo, con testa e capelli visibili, l’altra più all’astratto con le parti del corpo che quasi sembrano scollegate.
Hecker mette Josephsohn in relazione con Medardo Rosso anche se i due non hanno mai espresso una vicinanza o affinità. Nelle sculture di Josephsohn anche le basi delle statue sono molto diverse tra loro: alcune sono più sottili altre più spesse, alcune seguono la figura femminile altre sporgono rispetto ad essa. Le opere hanno ognuna una propria qualità individuale. La figura reclinata nella storia dell’arte è tradizionalmente associata al sonno, alla morte e all’eros. Per esempio nella Venere di Giorgione (che forse è di Tiziano) le curve femminili rimandano ai contorni delle dolci colline sullo sfondo e collegano la donna all’ambiente circostante: il corpo femminile diventa oggetto naturale e organico.
Allo stesso modo la scultura di Josephsohn sembra fondere insieme figura e paesaggio, evitando l’erotismo tipico del soggetto reclinato. Le sue figure sono sveglie con il gomito poggiato per terra, vigili, eppure hanno un atteggiamento contemplativo. Rimandano anche alla Venere di Urbino di Tiziano che, nella sua dimensione erotica civettuola, contrasta con lo sguardo fisso di Josephsohn ma condividono l’indifferenza nei confronti della nudità delle figure rappresentate. La Maya di Goya o La grande odalisca di Velasquez non sembrano invece appartenere alle intenzioni di Josephsohn, che non sembra neanche aver preso in considerazione Marc Chagall e Henry Moore. La connessione più vicina, secondo Sharon Hecher, è con la Bagnante nera di Lucio Fontana (1933), una scultura in ceramica collocata ai bordi di una piscina all’interno di una villa progettata per un’artista dagli architetti Fogini e Pollini. “C’è qualcosa in quella forma e in quella posa che mi ricorda lo spirito di Josephsohn” continua Hecher. È necessaria per Josephsohn la relazione con l’altro quando pensa alle sue sculture ed è per questo che non è mai stato in grado di lavorare con una modella che non conosceva. La sua prima reclining figure, infatti, risale ad un momento in cui era in una relazione con una donna e poi, una volta interrotto il rapporto, non è più riuscito a fare sculture sdraiate. Il punto di partenza del suo processo creativo quindi è il noi, è il legame umano con l’altro. C’è molta intimità nella sua scultura. Nel parlare dei suoi rilievi Josephsohn racconta che sono sempre necessarie due figure: una coinvolta e una che guarda. Possiamo essere sia coinvolti che distaccati ed è quasi quello che succede quando ci sdraiamo. Il rilassamento permette all’artista di essere aperto a forme maggiori.
Infine, la curatrice e storica dell’arte Martina Corgnati sottolinea l’importanza dell’eredità etrusca nel Novecento. Propone tre linee di lavoro: una traccia ebraico-etrusca nella cultura letteraria, il confronto tra le opere di Josephsohn e altri artisti del secolo scorso, e il rapporto con la forma che ha segnato un passaggio epocale non tanto nel legame tra rappresentazione e astrazione, ma in quello tra senso, volume e immagine. La parola chiave indispensabile per intendere questo processo è arcaico, che non è nè classico nè passato. E a tal proposito Corgnati si chiede: “che fine hanno fatto gli etruschi?”. Nessuno lo sa, sono stati assimilati dai romani presumibilmente. Il giardino dei Finzi-Contini si apre con una gita fuori porta in uno scavo etrusco dove una bambina chiede al padre, appunto, che fine hanno fatto gli etruschi. Dopo un insistente silenzio, il genitore interrogato racconta di una scomparsa familiare legata alla Shoah. C’è qui un parallelo sofferto e forte quindi con Josephsohn, anche lui di origine ebraica e vittima della tragedia dell’olocausto. Quando viene mandato dalla sua famiglia a Firenze per salvarsi, entra in contatto con il museo etrusco e archeologico fiorentino (prima vicinanza anche per Giacometti ma con gli egizi). La reclained figure che Josephsohn propone, sdraiata sul gomito, assomiglia a quella di origine etrusca. Marino Marini aveva già guardato con insistenza agli etruschi anche se in quel momento non era più a Firenze ma a Monza. Nelle teste graffiate di Josephsohn il volto sembra di origine alto medievale, qualcosa di profondamente remoto inscritto in quell’idea di fare l’uomo con minimi segni sulla pietra o sul gesso. Questa intuizione riguarda anche Arturo Martini quando negli anni Venti si avvicina sempre più verso l’arcaico e crea diverse sculture orizzontali come ad esempio Donna che nuota sott’acqua e La pisana, tutte sculture femminili e sensualissime. Molti artisti sentono il bisogno d’intimità con il soggetto ritratto, e probabilmente anche Martini nel momento in cui mette in questo corpo così tanto desiderio.
A differenza di quest’ultimo, Josephsohn non è un ceramista, le sue sculture sono fusioni in ottone anche se non si direbbe vista la loro densità di tocco. Rimanda quasi a Medardo, Rodin e anche a Matisse, nel momento in cui comincia a spezzare la definizione antropomorfa. Nella storia dell’arte infatti quando la ricerca di intimità e contatto diventa caratterizzante, la scultura non vuole essere più verticale e interpretare l’asse visivo classico fondamentale. La reclained figure cambia completamente il rapporto di dominio e desiderio ma “riguarda anche l’informe”, citando Rosalind Krauss, la quale nel suo libro mette in evidenza questo snodo di pensiero anticlassico che parte dal surrealismo degli anni Venti (ma anche già prima con il Dada) e continua negli anni Cinquanta. Josephsohn si abbassa in questo contatto carnale e vitale con la forma che è al tempo stesso infinitamente sensuale ma anche arcaica, generica e per niente classica. In questo gli etruschi possono averlo aiutato moltissimo perchè la scultura giacente è molto caratterizzante e importante nella ricerca plastica di quel periodo. Anche Henry Moore si allontana dal mondo classico e arriva a risultati completamente diversi, poiché gli interessava lo scavo della forma. Il vuoto di Moore è pregnante e pneumatico mentre Josephsohn è pieno di volume. Sempre negli stessi anni Leoncillo Leonardi usa il mondo etrusco per arrivare a qualcosa di simile. L’elemento arcaico etrusco è interessante quindi perchè è astratto e ha permesso un superamento dell’accademico.