Ha aperto lo scorso 4 ottobre la mostra che sancisce il termine della direzione artistica di Luca Lo Pinto al museo MACRO di Roma, una collettiva che à rebours lascia una traccia importante nella storia del museo, senza renderlo per questo un erede testamentario. C’è qui forse uno degli aspetti più rilevanti emersi nell’arco di una programmazione durata un quinquennio: riflettere sul museo come dispositivo ha significato emancipare il museo stesso da un’ideologia della Storia spesso foriera di luci e ombre. Piuttosto, a essere contemplata è stata una visione non lineare e trasversale, talvolta controcorrente e apertamente sfrangiata.
Con un palinsesto di oltre 60 mostre e il coinvolgimento di 250 artisti, sotto il titolo unitario di Museo per l’Immaginazione Preventiva – titolo risultato sin dall’inizio programmatico – il MACRO giunge alla conclusione di una stagione espositiva che ha messo il pubblico, più o meno di settore, a contatto con artisti e artiste internazionali, figure meno istituzionali e fuori dal sistema, linguaggi come il design, la musica e l’editoria che hanno guardato alla possibilità di ripensare lo spazio e il contenitore, generando nuovi e molteplici percorsi di senso.
Un museo dimenticato a memoria è un post scriptum forte della marcatura curatoriale di Luca Lo Pinto, una mostra pensata per essere speculare a Editoriale, la collettiva diffusa in tutto il museo con cui era stata aperta la nuova programmazione, dichiarandone le direzioni e gli sviluppi secondo un’impostazione per sezioni tematiche. “Per la sua conclusione, seguendo una precisa e coerente scrittura curatoriale e in una perfetta circolarità, il museo torna neutrale, liberandosi della struttura editoriale che l’ha definito in questi anni e dando spazio a una mostra che guarda al passato e al presente in una prospettiva futura”.
Nel 1970 Vincenzo Agnetti realizza il Libro dimenticato a memoria, un volume in cui il vuoto, lasciato dal contorno delle pagine ritagliate, diventa una metafora del rapporto tra memoria e dimenticanza: “La cultura è l’apprendimento del dimenticare”, per poter accogliere con maggiore libertà gli avvenimenti impliciti nella naturale evoluzione delle cose e del tempo. Prendendo in prestito l’espressione coniata da Agnetti – presente con un’opera del 1972, Dimenticato a memoria, un feltro inciso a fuoco e dipinto – la mostra si propone di snocciolare un dialogo trasversale tra più generazioni, attraverso la partecipazione di: Tolia Astakhishvili (con Thea Djordjadze, Heike Gallmeier, Dylan Peirce), Absalon, Vincenzo Agnetti, Maurizio Altieri, Alex Bag, Beatrice Bonino, Victor Cavallo, Francesca Cefis, Alassan Diawara, Buck Ellison, Luciano Fabro, Hamishi Farah, Simone Forti, Pippa Garner, Alberto Garutti, Isa Genzken, Lenard Giller, Felix Gonzalez-Torres, Adam Gordon, Pierre Guyotat, Sohrab Hura, Thomas Hutton, Allan Kaprow, KUKII (aka Lafawndah), Rosemary Mayer, Sandra Mujinga, Charlemagne Palestine, Paolo Pallucco & Mireille Rivier, Lorenzo Silvestri, Diane Simpson, Lukas Wassmann, Gillian Wearing, Issy Wood.
Tra le opere prodotte appositamente per Post Scriptum – quelle di Tolia Astakhishvili (con Thea Djordjadze, Heike Gallmeier, Dylan Peirce), Maurizio Altieri, Beatrice Bonino, Francesca Cefis con Alassan Diawara e Lukas Wassmann, Pippa Garner, Lenard Giller, Thomas Hutton, KUKII (aka Lafawndah), Rosemary Mayer, Charlemagne Palestine, Lorenzo Silvestri, Gillian Wearing – Charlemagne Palestine, con sgabelliiiii diiii tribùùùù diiii peluchessss (2023-2024), costella lo spazio di sgabelli abitati di peluches che, sospesi o poggiati a terra, evocano nel ricordo personale un senso frastornante di spaesamento e un nuovo totemismo: “Quando avevo circa 10 o 11 anni, mia madre pensava che fossi troppo grande per avere questo genere di giocattoli. Un giorno, mentre ero a scuola, prese tutti i miei animali e li buttò via. Sono tornato e non avevo più nessuno dei miei amici, i miei amici coccolosi. Li chiamo divinità, ma lo uso come un termine sacro secolare, nel senso che lo considero sacro. La mia religione non ha un nome. […] Il politeismo prevede molti dei e dee… Quando ho preso l’orsacchiotto che viene dal mio quartiere di Brooklyn–è lì che è stato creato – è diventato una sorta di personaggio, ma senza una storia. È una cosa che ho imparato anche dalle popolazioni indigene, dalla cultura indù, dalla cultura aborigena, dalla cultura polinesiana e dalla cultura dei nativi americani. Quando hai una specie di animale-anima gemella, è con te per tutta la vita. È qualcosa di sacro e continuo. Non è solo un oggetto bambinesco, infantile, giovane, in crescita, di transizione… Il tuo animale guida rimane con te”.
Le parole degli artisti e delle artiste in mostra contribuiscono a dare voce a un percorso che si sviluppa lungo tutte le architetture del MACRO per una superficie complessiva di oltre 10.000 metri quadrati, articolando anche gli spazi interstiziali, il cortile – che ospita lo storico environment di Allan Kaprow, Yard (1961) – facendo del museo stesso un organismo autoriflessivo e pulsante.
Il finale aperto di Post scriptum – punteggiato di linguaggi disparati, sonorità intrusive, lavori storicizzati e opere in grado di fornire prospettive diversificate a partire dallo sguardo di una nuova generazione artistica – lascia il campo alla possibilità di problematizzare finalmente al display museale, con una consapevolezza rinnovata sulle vicissitudini, e gli arricchimenti, di cui sono portatrici storie molteplici.
Cover: Pippa Garner indossa una t-shirt dalla serie Shirtstorm (2005–in corso) – Ph. Piercarlo Quecchia – DSL Studio