Le Gallerie delle Prigioni di Treviso ospitano fino al 7 aprile la mostra dedicata alla poesia visiva Poetic Boom Boom, terzo appuntamento all’interno del progetto in itinere Imago Mundi, aperta fino al 7 aprile prossimo e promossa dalla Fondazione Benetton.
L’esposizione presenta un insieme di quarantaquattro opere realizzate da artisti europei dagli anni Sessanta ad oggi e si propone come una reinterpretazione della carica rivoluzionaria della poesia visiva, termine nato a Firenze nel 1963, ideato dal Gruppo 70.
All’interno dell’ex carcere asburgico appena restaurato da Tobia Scarpa, la mostra si presenta in due macro filoni da interpretare al contempo come realtà autonome e a contatto. La prima parte è guidata da un lavoro dell’artista bresciano Sarenco (1945-2017), che ha selezionato per il progetto Visual Poetry in Europe – 208 opere tematiche (dei quadretti formato cartolina, 10 x 12 cm ciascuno) che propongono una mappatura sulla poesia visiva in Europa oggi – sviluppando per la prima volta un progetto che non si concentra su una sola nazione ma su un intero movimento. Avviandosi per gli stretti corridoi delle Gallerie verso la seconda parte del percorso, si entra invece nel vivo della mostra Poetic Boom Boom curata da Mattia Solari, che affronta le principali tappe della corrente artistica, dagli esordi del linguaggio creativo ai giorni nostri, proponendosi come un concentrato di sperimentazione.
Attraversando le stanze si compie un viaggio oltre le regole e i limiti del linguaggio, scoprendo un movimento che nasce dalla letteratura e si mescola con le pratiche artistiche generando innumerevoli derive attraverso tele, installazioni, fotografie, sculture, video e performance (tre delle quarantaquattro opere sono dedicate proprio a Isaia Mabellini, in arte Sarenco, che ha esposto i suoi lavori in edizioni della Biennale di Venezia: 1972, 1986 e 2001).
Pensare alle derive di questa corrente, significa immaginare il ruolo del linguaggio come conoscenza, osservazione e reimmaginazione. Una domanda sorge spontanea: nell’era della comunicazione, nella civiltà dell’immagine digitale in cui ci troviamo, si può ancora parlare di poesia visiva? Qual è il suo valore storico ed estetico? Quali semi ha sparso nel contemporaneo?
Pensando agli ormai inflazionati meme, il passo è breve. Composto dall’associazione tra frasi e immagini, il meme fa eco a operazioni concettuali e modalità produttive molto vicine al mondo della poesia visiva, come sovrapposizioni e contrapposizioni, seppur nella logica effimera del remix. Lo stesso accade pensando alle emoji e agli schermi digitali touch in cui ogni contenuto è immagine.
Pur senza dichiararlo, in punta di piedi Poetic Boom Boom sembra volerci suggerire questa possibilità con i lavori di Karl Holmqvist, artista berlinese che decostruisce le ideologie contemporanee attraverso espressioni idiomatiche, versi poetici e canzoni pop. Nell’ultima sala della mostra da un lato si legge su fondo nero: “My son could have done that well he didn’t”; dall’altro, su parete bianca, la ripetizione ridondante della parola e del simbolo “Bang <3”, come se ci trovassimo davanti a schermi-video in loop e ripetuti.
Anche una fotografia di Sarenco stampata su tela viene riprodotta in un maxi formato e si presenta in due versioni, scandendo il percorso. Si tratta di un’istantanea del ‘73 scattata a Dublino su cui l’artista a mano ha aggiunto le semplici e incisive parole da cui l’opera prende il suo titolo: Poetical Licence. Una stanza dedicata al materiale d’archivio ci ricorda che solo un paio d’anni prima, nel 1971, nasce la rivista Lotta Poetica che annovera tra i suoi fondatori di nuovo Sarenco e l’artista belga Paul De Vree, presente in mostra con due opere. Oltre ai nomi appena citati, anche Eugenio Miccini, che coniò il termine “poesia visiva”, Julien Blaine, Jean-François Bory, Alain Arias-Misson e Franco Verdi sono tra i fondatori negli anni Ottanta del gruppo dei Logomotives, cui l’esposizione dedica una sezione specifica, presentando attraverso le opere raccolte una ricognizione del gruppo.
Se pensiamo alla portata del movimento poetico, che si è distinta sin dagli anni Cinquanta per una matrice di contestazione storica, sociale e politica della società di massa, il significato del meme e della rielaborazione digitale non è lontano. La differenza semmai risiede nel livello del citazionismo, sia esso visivo o scritto; alla serietà della sperimentazione linguistica pura, infatti, il meme preferisce il livello ludico o satirico, trattando la parola come una forma visiva decontestualizzata.
A proposito di decontestualizzazione, la poesia visiva non ha risparmiato nemmeno la macchina per cucire, come avviene in Kissinger I un lavoro di De Vree realizzato come un vero e proprio rebus. Non solo parole e immagini insomma, ma anche macchine da scrivere, talvolta imbellettate e dorate, altre volte sfruttate come fossero un pennello per creare texture – come avviene in Untitled di Pierre Garnier e in T10 di Raffaella della Olga o ancora in Texto di Mirtha Dermisache – ma anche paraventi come supporti in La creazione è compiuta di Miccini.
Un percorso intermediale che non ha risparmiato neanche la componente sonora: il documentario dal titolo Poesia in carne e ossa, realizzato appositamente in occasione della mostra, ci fa ascoltare le diverse voci, tra cui quelle di Julien Blaine, Sarenco e Giovanni Fontana che raccontano il loro rapporto con la poesia visiva.
Con un titolo onomatopeico che richiama il fragore di un’azione imprevista che si scatena in un rimbombo, la mostra Poetic Boom Boom diventa un percorso per una possibile rilettura della poesia visiva, come fosse una madrina del nostro tempo, attiva e politicamente impegnata, specchio della società.
Al di là della portata contemporanea, anche le origini del linguaggio creativo non sono da sottovalutare. Tutto ciò non dovrebbe stupire pensando alle Avanguardie che, con il paroliberismo futurista e del fotomontaggio dadaista, o ancora le tecniche del manifesto e dell’affiche, i ready-made di Duchamp e i poèmes-objet di André Breton, vogliono restituire un interstizio, una presa diretta con il pubblico e con la realtà, come accade anche nei celebri Calligrammes (1917) di Guillaume Apollinaire. Essi non sono altro che un disegno, una disposizione grafica di parole che, divertita, prova a colmare la distanza tra il parlare quotidiano e le espressioni artistico-letterarie.
Vecchia o nuova che sia, oggi la sperimentazione letterario-visiva si muove in un territorio incerto, a cavallo tra linguaggio digitale come creazione dell’immagine e necessità di una memoria del gesto fisico – ovvero l’importanza della scrittura creativa come azione manuale.
“Gedicht macht frei” (“La poesia rende liberi”) recita l’enorme portale di Sarenco che apre la mostra. Un testo che ancora una volta è immagine, diventa cornice e inquadra una porzione di realtà ancora tutta da immaginare. D’altra parte le lettere, in quanto segni, sono leggibili come immagini. Una scelta forte per l’ingresso di un ex carcere asburgico, che sembra voler dire a noi (e a Wittengstein) che i limiti del nostro linguaggio non dovrebbero essere i limiti del nostro mondo.