È pomeriggio inoltrato; all’interno della grande sala convegni della Banca di Bologna, al primo piano di Palazzo de’ Toschi, le tende delle finestre che corrono tutto intorno all’ambiente sono accostate a custodire un segreto di luce. Qui, corpi addormentati esplorano nel sogno un comune paesaggio mentale, inabissato nei meandri delle loro coscienze. Anche gli avventori sono invitati a ricercare lo stesso stato meditativo; è proprio a loro infatti, che, fino al prossimo 18 febbraio, Patrick Tuttofuoco (Milano, 1974) e il curatore Davide Ferri rivolgono l’invito Abbandona gli occhi. Oltre la vista, oltre il corpo, si aprono affacci su nuove angolazioni del reale. Sin dall’ingresso nella sala sono due grandi scritte luminose, una più vicina e una più lontana, a catalizzare magneticamente lo sguardo di chi accede allo spazio. Sleepers (Human Mind) (2024) e Sleepers (Sense of Reality) (2024), con le loro dichiarazioni oblique – “A human mind is a junction point between physical and non-physical awareness” e “I don’t get the sense of reality through words but between them” – sono inneschi intellettivi che inducono la mente ad un cortocircuito foriero di significati sommersi nell’inconscio, oltre le capacità comunicative del linguaggio. Le luci, lisergiche, galleggiano sul pavimento lucido. Superato il primo neon si incontra Surrender your eyes (2024), una piccola scultura in marmo rosa del Portogallo che rappresenta due mani sovrapposte l’una all’altra, il palmo di quella sottostante aperto, a rappresentare un invito a deporvi i propri occhi, e con essi tutto il portato di aspettative percettive che inevitabilmente ci appesantisce e ci àncora all’immanenza del mondo. Ciò che la mostra auspica, infatti, è che il visitatore varchi una soglia sensoriale e cognitiva e che si imbeva della luce sognante dei neon, abbandonandosi così a stati di semi-coscienza che gli permettano di indagare trascendenze ulteriori, al di là del nudo piano materiale. Tutto il percorso di mostra vuole essere in effetti un viaggio nell’oblio del dormiveglia, oltre le proprie vestigia corporee. Già il primo neon, una volta oltrepassato per recarsi verso le mani in marmo, mostra sul retro le fattezze rarefatte del volto di un bambino addormentato (uno dei figli dell’artista), con gli occhi ridotti a fessure; pochi passi nella sala hanno permesso di oltrepassare il confine del sogno.
“Possiamo decidere di dare fede e tenere per buone le istanze del mondo della veglia – ha commentato Tuttofuoco in sede di presentazione alla stampa – oppure ribaltarle in uno spazio e un tempo non lineare dove la materia si sgretola, dove cose antichissime si possono connettere con quelle a venire, in collassi tra tempi e luoghi differenti”. Dalle mani giunte una nuova prospettiva si apre sulla sala. Appare, così, il baricentro energetico della mostra: Pink Limen (2024), una scultura dello stesso materiale simil-epidermico di cui è composta Surrender your Eyes, che rappresenta un corpo abbandonatosi ad un sonno profondo, disteso su di un basamento metallico e privato della sua testa. La figura è il risultato della scansione del corpo dell’artista, successivamente affidata ad un braccio robotico a controllo numerico. Il processo realizzativo non è stato portato a termine nel modo più consono, come è evidente dalle fattezze solo in parte smussate a simulare le morbidezze degli arti; al contrario, il profilo è in molti punti solo sbozzato e mantiene le spigolosità prodotte dalla scolpitura meccanica. È stato l’artista stesso a “sporcare” volontariamente l’iter altrimenti impeccabile della macchina: piuttosto che per una perfetta mimesi del dato materiale, ha posto le basi per il superamento dei limiti fisici, così come l’assenza della testa allude all’auspicio di oltrepassare le barriere imposte dalla coscienza attiva. Come ha evidenziato efficacemente Davide Ferri nel suo testo critico, Pink Limen è “un ‘corpo-pelle’, una figura-soglia, un involucro che più che separare dentro e fuori, li mette in comunicazione”. Svetta su quella salma assopita Drop the body (2021), un neon rosso che delinea la sagoma di un altro torso, il quale richiama esplicitamente l’iconografia classica della deposizione di Cristo dalla croce (elemento a cui sembra alludere anche la forma stessa della superficie metallica che sostiene il neon); ma più che essere passivamente condotto a terra, esso sembra piuttosto levitare verso il cielo. Il diverso orientamento spaziale delle opere, il contrasto materico tra il marmo rosa e il neon, i moti opposti di deposizione e di ascensione veicolati alternatamente da analoghe corporeità esanimi, sono tutte corrispondenze dualistiche che non si limitano, nella visione di Tuttofuoco, a porsi come poli inconciliabili e paradossali scaturiti da qualche insenatura dell’inconscio; proprio in funzione delle loro differenze, è come se le opere emettessero delle frequenze risonanti nello spazio, le quali si sovrappongono additivamente in uno spettro tanto più intenso quanto più divergono le une dalle altre; uno spettro in cui anche il visitatore è immerso.
Del resto, anche l’accostamento, nei neon, tra le dichiarazioni enigmatiche e i volti dei bambini – adesso che ci si volta per tornare sui propri passi attraverso la sala si incontra anche un secondo profilo addormentato – rappresenta un altro accostamento dicotomico in grado di stimolare, nella sovrapposizione delle “frequenze”, la trance meditativa. Ma, una volta giunti nella saletta laterale dove si conclude il percorso di visita, si recepisce un’altra frequenza risonante con Pink Limen, che si conferma essere il fulcro di una rete di rimandi simbolici ed energetici. A dialogare a distanza con essa è, infatti, un’altra scultura di corpi addormentati, in questo caso quelli della moglie e di uno dei figli dell’artista, “scolpiti” non in marmo rosa ma in metacrilato opalescente. “Li ho visti addormentati e mi sono immaginato che spazio e che tempo quei corpi stavano vivendo, in quello stato di coscienza totalmente diverso – commenta l’artista – mi sono immaginato i loro corpi come cristallini, capaci di viaggiare lungo frequenze diverse”. L’unità originaria è stata però resecata trasversalmente in due parti, secondo un processo che ne ha anche bisecato l’unità ontologica; le due porzioni (corrispondenti rispettivamente ai torsi e alle gambe) assumono pertanto due titoli diversi, rispettivamente No Space (2019) e No Time (2019); l’artista auspica che trovino collocazione ai lati opposti della Terra, per estendere lungo i meridiani e i paralleli il loro campo di interazione. Su una parete adiacente, catalizza l’attenzione un piccolo foglio bianco inquadrato da una cornice concava e specchiante, sul quale sono tracciati i lineamenti di un volto, sovrapposti a quelli di un fiore (Surrender your Eyes (drawing), 2024). Gli occhi, finalmente aperti, sono a loro volta riflettenti: è qui che, nell’atto di approssimarsi alla rappresentazione, il visitatore entra in uno spazio-tempo franto e alterato (questo è l’effetto trasmesso dalla cornice riflettente, percepita attraverso la sua visione periferica) e ritrova i propri occhi, immersi in quelli che lo osservano a loro volta; con essi, ritrova e localizza il proprio corpo, uno tra i tanti corpi della mostra; si sottrae, infine, al dormiveglia. Fuori ormai è buio; le tende vengono scostate, e un po’ di sogno esonda nel mondo.