Nelle sale sotterranee di Palazzo Bentivoglio a Bologna una finestra si apre sulla vita e sull’opera di Patrick Proktor (Dublino, 1936 – Londra, 2003), un protagonista dimenticato della scena artistica londinese tra gli anni Sessanta e gli Ottanta. La mostra Patrick Proktor. A View From a Window (fino al 5 febbraio), curata da Tommaso Pasquali e rientrante nel main program di ART CITY Bologna 2023, è un’ambiziosa retrospettiva che scaturisce da un nucleo di opere facenti parte della collezione di Palazzo Bentivoglio, messe a confronto con pezzi provenienti dalla storica galleria dell’artista, la Redfern Gallery di Londra, e da collezioni private italiane. Le conoscenze e gli affetti, i viaggi e le influenze artistiche del pittore sono documentati dagli oltre sessanta acquerelli ed acrilici esposti nelle tre grandi sale ipogee. La mostra inizia con un rispecchiamento triplice, rappresentativo dei legami e dei contatti che Proktor aveva intessuto sul palcoscenico della Swinging London: il suo ritratto fotografico (1967) realizzato dall’amico Cecil Beaton è “contraccambiato” dalla natura morta ad acquerello firmata dal pittore che rappresenta due ceramiche di Picasso possedute dall’amico fotografo; queste si materializzano magicamente in due effettivi esemplari di vasi di ceramica dell’artista spagnolo, acquisiti da Palazzo Bentivoglio appositamente per evocare tale interconnessione tra arte e vita. Una seconda simmetria che dà conto di un’altra amicizia importante, quella con David Hockney, ma che sfuma anche i confini già labili tra realtà e rappresentazione, è restituita da una scena del film di Jack Hazan A bigger splash (1973), trasmessa nella saletta video assieme ad altre sequenze di documentari su Proktor: nell’estratto l’artista di Dublino si specchia, con la sigaretta alzata, nel dipinto realizzato da Hockney che lo raffigura nella stessa posa. Il prisma della sua personalità, dopotutto, si riverbera anche nei ritratti degli amici e, in generale nelle mille varianti di una ricerca pittorica che è sempre rimasta tenacemente figurativa: un gesto di plateale rifiuto dell’esuberanza materica ed astratta della Scuola di New York, che ha seguito la via di una riflessione sul rapporto tra i piani della rappresentazione, innescata da un viaggio in Italia nel 1962, quando Proktor, dopo aver visitato la Biennale di Venezia ed essere sceso fino a Napoli e Pompei, rimane segnato dagli affreschi della Villa dei Misteri, caratterizzati da un perfetto incastro armonico tra figure e sfondo.
Anche la scelta dell’acquerello come medium di elezione si riflette nella necessità di costruire piani per passaggi successivi di colore. La sequenza di sei acquerelli dal titolo Michael Upton Swimming Underwater in the Aegean Sea (1962), dipinta durante il viaggio in Italia, è ancora caratterizzata da una figurazione macchiata che sta sul filo dell’informale (a Venezia Proktor aveva visitato una mostra dedicata ad Arshile Gorky), ma sei anni dopo il percorso è ormai maturo e trova un esito emblematico nell’opera che dà il titolo alla mostra, l’acquerello View from a window (1968), in cui la scena si scandisce su almeno sei livelli di profondità.
Nel biennio 1968-69, Proktor si innamora di un giovane ragazzo sudafricano, Gervase Griffiths, a cui dedica una lunga serie di ritratti, tra cui Gervase in Tangier (1968) e Gervase XI (1969), esposti in mostra. Il rapporto si interrompe burrascosamente e ciò provoca in Proktor una crisi che si traduce in una serie di autoritratti che annullano il suo sé in una sorta di spettro indistinto (Eye Sea You, 1969). Seguono altri ritratti di amici e conoscenti, come quello di Lord Montague, in cui una striscia di colore che taglia trasversalmente il foglio è l’unico dispositivo pittorico utile a creare un senso di profondità in una composizione in cui impera il bianco (The Lord Montague of Beaulieu, 1968); ma anche quello, ad acrilico, di un gentiluomo tedesco, vestito di toni freddi che risaltano sullo sfondo di un paravento rosso (Portrait of a Gentleman, 1973); nell’attesa del ritrattato, in ritardo per la sessione di posa, anche la sedia vuota si era prestata ad essere raffigurata (The Absent Butcher, 1973).
La parete opposta della sala inanella un’altra serie di acquerelli che rappresentano chi si avvicendava sul divano dell’artista, con dediche criptate, che per il curatore compongono “una sorta di romanzo fatto di ‘biglietti agli amici’, secondo un’accezione tondelliana”.
La seconda stanza porta avanti l’excursus sulla ricerca di Proktor focalizzandosi su oli ed acrilici. In parallelo con gli acquerelli degli inizi degli anni Sessanta, anche Lovers (1963) mostra un tratto più spezzato e tormentato, influenzato da Francis Bacon e Keith Vaughan. Tra gli esiti più maturi del decennio sono da indicare opere come Ethnic Minority (1964) e Head of St John Baptist Brought Before Herod (1964): nella prima, Pasquali nota che le figure dei nativi americani “vengono mangiate dal fondo come in una foto solarizzata di Man Ray”, cosicché la profondità si annulla nel colore; nella seconda, invece, la testa tagliata di San Giovanni Battista e quella giacente di Erode si incastonano in una successione ritmica di piani che tradisce ascendenze dal Quattrocento senese. In Pure Romance (1968) il vaso di fiori in primo piano si staglia su un davanzale solo accennato, oltre il quale un interno affiora dal fondo monocromo, mentre in Gervase I (1968) il soggetto si riduce quasi ad un incastro bilanciato di toni puri. Nel ritratto dell’attrice Jill Bennett (1972) una composizione zigzagante, fatta di linee oblique, si satura del contrasto tra il rosso acceso del vestito e il verde del divano. In quello della gallerista Gabriella Cardazzo (1974), invece, i pantaloni blu oltremare impreziosiscono l’insieme, tutto giocato sui toni tenui. In un esito tardo, Vedette du Pont Neuf, Paris (1989), è grazie al punto di vista che si ottiene l’illusione di trovarsi sulla Senna a bordo di un bateau mouche (in primo piano è presente pure un biglietto), ma il trionfo di trame e tessiture giustapposte rivela che quella che appariva come la prua del battello in realtà consiste nello spigolo di un tavolo che solca un pavimento variopinto, in direzione di una tenda franta dalla luce.
La terza stanza è un caleidoscopio di finestre sul mondo, vale a dire le vedute realizzate durante i viaggi intorno al globo: dal Marocco al Sudafrica, dalla Cina all’Egitto, da Copenaghen a Venezia e alle ville venete degli amici. I tanti scorci della città lagunare, che in sede di allestimento è stato deciso di allineare in base agli orizzonti come a comporne un’unica istantanea panoramica, esprimono il coraggio di adottare, come ha suggerito il curatore, un “tema antimoderno, pericolosamente vicino al pittoresco, nel decennio delle esperienze extra-pittoriche”, ricercando piuttosto una continuità con i grandi precedenti di J. M. W. Turner, John Singer Sargent e Richard Parkes Bonington. A conclusione della mostra è posta un’opera in due tempi che riassume in sé tutto il percorso artistico ed esistenziale di Patrick Proktor: Objets of the Association (Mario Dubsky) (1967-88) è un doppio omaggio ad un amico artista, raffigurato in due istantanee dipinte a vent’anni di distanza (la seconda è alloggiata in una “finestra”, l’ennesima di questa mostra, ricavata nel foglio). In quella campitura adimensionale che inframmezza i due ritratti c’è tutta la profondità del vissuto.