La curatrice Rossella Farinotti ha recentemente portato a termine due interessanti progetti espositivi legati – seppur nelle reciproche diversità – al tema del paesaggio. Parla infatti di paesaggio Negli Specchi Torbidi Riflessi, mostra personale di Thomas Braida allestita presso spazio Sanpaolo Invest di Treviglio, così come la collettiva HOW FAR SHOULD WE GO? – artisti: Linda Carrara, Lucia Cristiani, Cleo Fariselli, Ettore Favini, Irene Fenara, Silvia Mariotti, Giovanni Oberti e Alice Ronchi – Tutt’ora aperta al pubblico di Fondazione ICA di Milano.
Simona Squadrito: Questo autunno hai portato a termine due interessanti progetti espositivi: la mostra personale di Thomas Braida, Negli Specchi Torbidi Riflessi, e la collettiva HOW FAR SHOULD WE GO? . Vorrei iniziare questa nostra conversazione dalla mostra di Thomas Braida, artista con cui da tempo volevi collaborare. Come viene narrato il tema del paesaggio attraverso i dipinti portati in mostra?
Rossella Farinotti : Il tema del paesaggio rappresenta certamente il primo strato di lettura della mostra di Braida. Come hai anticipato, con l’artista ci siamo conosciuti anni fa, ma senza mai aprire un dialogo focalizzato sulla pittura o sul suo lavoro, dunque l’invito da parte di Ermanno Tassi, titolare dello spazio di Sanpaolo Invest, di collaborare per una mostra è stato accolto subito con entusiasmo. Con Thomas siamo partiti dal dialogo e dalla selezione di un corpo di lavoro particolare: una serie di pitture realizzate nel 2022 – di cui alcune inedite – dove l’impatto immediato è sul paesaggio marino, sull’azzurro vivo, sulla lucentezza e il luccichio che solo un pittore così esperto può restituire in maniera surreale, rigorosissima e dalla restituzione formale perfetta. La scelta di queste pitture è stata frutto di lunghi scambi tra le nostre visioni, di un minuzioso studio da parte mia semplicemente nel comporre e interpretare alcuni immaginari di Braida e, da parte sua, da degli scenari decisi che, di giorno in giorno, prendevano una forma concreta. C’è una stanza immersiva, allestita con elegante tessuto azzurro luccicante, che Thomas ha immaginato per accogliere un lavoro in particolare: questo luogo rappresenta un personale paesaggio intimo (non solamente quello tangibile dai dipinti) che l’artista ha deciso di far vivere ai visitatori.
S.S: Vorrei approfondire adesso insieme a te l’architettura della collettiva HOW FAR SHOULD WE GO?. Una mostra che, come tu ben dichiari nel testo critico, vuole innescare una riflessione sul paesaggio e nello specifico «sull’attenzione – visiva o emotiva – sulla fruizione di un determinato ambiente o paesaggio, di un habitat che spesso può anche essere ripensato, rivisitato o ri-costruito. E sulle azioni che questi possono innescare. »
R.F: Come scrivo nel testo critico del booklet che accompagna la mostra – insieme a quelli firmati da Matilde Galletti e Annika Pettini – le opere in mostra non vogliono rispondere a quesiti o dare soluzioni, ma possono essere dei frammenti che raccontano diverse possibilità. Punti di vista e visioni che ogni artista ha attinto da un immaginario personale spesso innescato dalla natura tout court – un paesaggio, un flusso d’acqua, una forma riconoscibile dell’ecosistema, altre volte ripensato da un’atmosfera domestica e romantica o, ancora, da un ribaltamento di visione. In questi immaginari l’uomo può scegliere se essere uno spettatore attivo – un educato osservatore -, o se utilizzare la natura come un mezzo per un messaggio duraturo.
S.S: Passeggiando negli spazi in cui è allestita la mostra si attraversano diversi paesaggi, come i paesaggi intimi e domestici di Giovanni Oberti, o come i frammenti dei paesaggi colti ed estrapolati dalla natura stessa come nel caso delle opere di Linda Carrara e di Ettore Favini e così via. Nell’economia di questa intervista mi piacerebbe che tu stessa tracciassi il fil rouge dell’esposizione attraverso il racconto delle opere esposte.
R.F: Prima hai scritto “architettura”: ogni opera in mostra può rappresentare una propria architettura personale, un habitat a sé ma, se guardata nel complesso insieme alle altre, si percepisce un paesaggio narrativo preciso. Ci sono le visioni intime, legate al tema del doppio – visto anche in un’ottica di storia amorosa – dal richiamo di un contesto domestico di Giovanni Oberti. I due guanciali con il nido posato sono una dichiarazione di un ambiente domestico chiaramente riconoscibile e dalla forte identità umana, così come la caraffa che si rispecchia con sé stessa, attivando un’azione performativa che, guarda caso, è proprio innescata dal tocco umano. Oberti porta il visitatore a sentirsi a proprio agio in mura domestiche, ma con la forte libertà di non avere pareti e di poter fruire delle tracce intorno. Dalle foglie galvanizzate in argento di Lucia Cristiani che, pian piano, ha disseminato eleganti frammenti nelle aree della grande stanza di ICA, con natura in dialogo, con elementi dall’aspetto più contemporaneo, duro, quotidiano come catenelle o fili di ferro. Flussi verticali che coincidono con quelli fluidi naturali delle acque e dell’immaginario naturale di Cleo Fariselli che, con due dense – sia formalmente nell’uso della pittura, che nel contenuto che, ad ogni sguardo, sembra mutare – tele ad olio che puntellano due spazi diversi della fondazione, e che, a loro volta, richiamano opere molto diverse formalmente tra loro come il dittico di Silvia Mariotti, che utilizza la fotografia come mezzo per porre lo sguardo sull’aspetto finale, mai definitivo, di raffigurazione di nature morte che appaiano quasi in movimento, riprese da cianotipie originali realizzate appositamente dall’artista, e dalle “Fragili rive” di Ettore Favini. Mariotti riprende e racconta una natura – qui acquatica – sempre in mutamento e da cui estrapola forme che ha ricreato in scultura, mentre Favini dichiara un’urgenza legata al paesaggio che, via via, diventa sempre più debole, preoccupante. Ci sono poi degli elementi che giocano sulla natura ribaltandone significato e giocando sugli aspetti esterno/interno: si tratta degli Indoor Flora di Alice Ronchi che segnano delle pause dei flussi in mostra, come elementi decorativi ironici e poetici che rappresentano una certa stabilità e un rigore dato dall’origine del materiale industriale. Questi elementi, come le piante e gli alberi, sono modulari, e sono stati posizionati in due situazioni diverse della mostra. Il percorso infatti è formato da momenti, da piccole narrazioni. Alcune sono state lasciate solitarie, come l’opera di grandi dimensioni della serie Supervision di Irene Fenara, raffiguranti palme che sembrano quasi dipinte, ma sono tratte da fotografie che l’artista riprende dalle telecamere di sorveglianza disseminate per il mondo (e spesso abbandonate). L’opera di Fenara apparentemente si riflette nel contesto della sua intima stanza, dove il pavimento segue i movimenti e i chiaro/scuri dell’immagine. Anche il polittico di Linda Carrara, che accoglie lo spettatore nella prima stanza chiusa, una volta entrati nel percorso di mostra, ha una sua identità autonoma: cinque tele rosso fuoco, realizzate ad olio con la tecnica del frottage, percorrono un muro come se non avesse ostacoli, in una perpetua continuità, che poi si conclude con una grande natura morta nell’ultima sezione dello spazio. C’è solo un elemento in perfetto dialogo con queste opere: Dove ogni cosa resta, di Lucia Cristiani, da cui esce costantemente un vapore acqueo. E’ un percorso fatto da contrappunti, tracce, movimenti fluidi.
S.S: Il palinsesto legato alla mostra ha visto in calendario anche Possedute una coinvolgente performance di Carolina Cappelli e Roberto Fassone. In che relazione sta questa performance con le tematiche esplorate dalla mostra?
R.F: I due artisti sono stati invitati per sviluppare un progetto che hanno portato avanti, sempre in maniera diversa, per più di un anno in alcuni luoghi in Italia. Ho chiesto loro di affrontare la sfida di realizzare la performance all’interno dello spazio con la presenza delle opere. Un setting complesso che ha ospitato delle azioni. É stata una sfida sia per gli artisti in mostra, che per Carolina e Roberto.
S.S: Forse è riduttivo descrivere HOW FAR SHOULD WE GO? solo come una mostra collettiva, in effetti è un progetto culturale molto più articolato, quasi corale. La mostra è stata accompagnata anche da i testi, tra loro assai diversi, di Matilde Galletti e Annika Pettini, che insieme a te hanno co-curato un calendario di incontri, volti ad approfondire le tematiche evidenziate in mostra. Come ad esempio il talk dove saranno presenti l’antropologo Iain Chambers e la scrittrice Suad Amiry. Come hai letto il taglio dato dai testi e dalle riflessioni di Matilde Galletti e Annika Pettini? Vuoi anticipare qualcosa sui prossimi talk?
R.F: Ho chiesto a Galletti e Pettini di contribuire alla mostra proprio per creare un archivio di testi con sguardi e stili molto diversi. Matilde ha infatti realizzato un testo delicato, ritmato, con pensieri, citazioni, influssi che provengono da diversi strati del suo immaginario e di sue memorie, in qualche modo anche lei ha lavorato sulle tracce. Mentre Annika ha creato un testo sul paesaggio in cui è protagonista e osservatrice in prima persona. Galletti ha avuto anche il compito di coordinare un importante talk con l’architetta e scrittrice Suad Amiry e l’antropologo Iain Chambers che, moderati da Francesco Marilungo, studioso, ricercatore e traduttore specializzato nella lingua curda, tratterà tematiche legate alla mostra come i flussi migratori legati al contesto del Mediterraneo. Il public program include anche un’azione da parte dell’artista Marta Pierobon che ha realizzato un’opera appositamente per la mostra, una scultura in ceramica legata al paesaggio, all’umano, alla sua protezione, dal titolo Grotto/hand. Il 17 dicembre, quasi a chiusura della mostra, ci sarà un altro talk, che come sai vede anche te coinvolta insieme al pittore Thomas Berra che da diversi anni lavora trattando il tema della natura e in particolare del verde, un’azione legata all’architettura dello spazio di ICA da parte di “noi x sempre” (Federico Cantale, Jimmy Milani e Giacomo Montanelli) e, infine, la mitica playlist di Davide Bertocchi, Top 100, legata anch’essa al Mediterraneo e ai suoi “abitanti”. Bertocchi verrà apposta da Parigi per farci ascoltare un po’ di musica.
S.S: C’è qualche aspetto legato ai due progetti che hai da poco portato a termine che vorresti raccontare? E’ rimasto qualcosa in sospeso?
R.F: Sembra un miracolo, ma nulla è rimasto in sospeso. Lo scorso ottobre ho inaugurato o concluso tre grandi progetti su cui ho lavorato più di un anno e mezzo. I due citati grazie a questa tua conversazione e un terzo con il duo Goldschmied & Chiari in collaborazione con Canali, inaugurato a New York da pochissimo e, auspichiamo, che possa proseguire in altre città.
S.S: Vorrei concludere questa intervista con qualche anticipazione sui tuoi prossimi progetti. Raccontami su cosa stai lavorando per l’imminente futuro.
R.F: Nell’imminente c’è sempre il quotidiano: l’Università, l’Archivio Gio’ Pomodoro, le collaborazioni che vanno avanti da tempo. Nel 2023 ci saranno dei progetti nuovi, anch’essi tracciati da un anno e più. Si inaugurerà l’ultima realizzazione dei murali della Cittadella degli Archivi del Comune di Milano – con artisti visivi da giovanissimi come Aronne Pleuteri, a storici come Alexander Vinogradov – di cui sono curatrice, e poi un intenso progetto di squadra di cui posso nominare il titolo – ironico, ma che racchiude diverse complessità e lotte contro gli stereotipi -: Stupida come una bionda (è iniziato su Instagram, li si può intuire il contenuto) che verrà sviluppato a Pastificio Cerere a Roma il prossimo anno.