In occasione di ORESTEA / fin dentro la sera, fin dentro la notte, versione site specific e dilatata di Orestea/Agamennone, Schiavi, Conversio, pensata ad hoc per gli spazi di Centrale Fies, ATPdiary ha rivolto alcune domande ad Anagoor – Leone d’Argento 2018 alla Biennale Teatro di Venezia. (Prima parte)
ORESTEA / fin dentro la sera, fin dentro la notte si è svolta a Fies domenica 30 giugno, come preview del festival Drodesera, titolato quest’anno IPERNATURAL e che si terrà a Centrale Fies dal 19 al 27 luglio. L’intento di questa seconda conversazione è quello di continuare una sorta di intervista polifonica alla compagnia, sottolineando e illuminando i diversi sguardi che hanno contribuito al lavoro teatrale, accanto alla visuale di Simone Derai (regista di Anagoor) si pone qui quella di Mauro Martinuz (musica e sound design).
ATP: Da dove nasce l’esigenza di “diffondere” l’Orestea nello spazio di Centrale Fies? Quali sono, rispetto allo spettacolo Orestea /Agamennone, Schiavi, Conversio, i cambiamenti che hai progettato ad hoc per gli spazi della centrale?
Simone Derai: Un anno fa, proprio a Centrale Fies Orestea ha trovato la sua forma conclusiva in fase di creazione prima di approdare alla Biennale di Venezia. Siamo stati in residenza per più di tre settimane nel giugno del 2018 completando un lungo percorso di preparazione che era iniziato mesi prima nel nostro atelier, la Conigliera. Fin da subito con Barbara Boninsegna abbiamo condiviso l’idea di riportare il lavoro a Fies in una forma straordinaria, dedicandogli un tempo straordinario, a latere del festival di luglio. Questa nostra Orestea è sì un lavoro di teatro, che si confronta con una delle più antiche e più importanti opere teatrali della nostra storia, ma fa i conti con il tempo ed il suo scorrere in modo non convenzionale per il teatro. Quale spazio migliore di Centrale Fies, che da sempre accosta le discipline performative ridisegnandone i confini e allargandone l’ambito, scompaginando categorie frutto dell’abitudine, per mettere a fuoco la natura ibrida di questo nostro lavoro. Lo scorrere del tempo non subisce contrazioni, salti, condensazioni, tipici della tradizione teatrale: sulla scena il tempo scorre alla stessa velocità di quello degli spettatori. In questa nostra Orestea, per il pubblico affacciarsi al teatro significa affacciarsi al tempo in cui è immersa la casa di cui si raccontano le vicende e viverlo. E poiché questa è una casa sprofondata nel lutto, il tempo è quello denso e vischioso dei giorni che seguono la morte di un caro, di un familiare. Noi prendiamo tra le mani l’opera di Eschilo come Beuys prendeva in braccio la lepre morta. Lo prendiamo tra le nostre braccia e l’accarezziamo. Quest’atteggiamento è sintomo di una distanza dall’approccio tradizionale dell’arte dello spettacolo teatrale: il testo poetico è assunto come un oggetto archeologico e insieme come un corpo che è stato vivo. I tre atti dello spettacolo, Agamennone, Schiavi e Conversio, che ridisegnano in due tempi i tre capitoli della trilogia di Eschilo (Agamennone, Coefore, Eumenidi), sono stati divisi in tre tempi per l’occasione: al pubblico durante i due intervalli è stata data la possibilità di uscire dalla sala teatrale come di rimanervi, poiché in scena il tempo vissuto dalla casa non ha subito interruzione e l’azione scenica ha continuato a procedere. Mentre all’interno delle grandi sale turbine il tempo della scena continuava a scorrere, all’esterno un ciclo continuo di installazioni teneva legato lo spettatore che desiderasse sostare ai piedi dei merli della Centrale o nelle altre sue aule.
Tre le installazioni satelliti. Due derivate da un lavoro precedente di Anagoor, Lingua Imperii, che aveva una fortissima connessione con Orestea e che può ben ritenersi una fonte iniziale del percorso che ci ha riportati ad Eschilo: interrogativi posti alla Parodo dell’Orestea erano stati, allora, punto d’attacco per un discorso sulla violenza, in questa dimensione installativa di Orestea estratti di quel lavoro tornano a fare da cornice di risonanza attorno allo spettacolo: dal lutto di una casa, alle cacce feroci perpetrate contro singoli uomini, gruppi minoritari e popoli, ci sono nessi che devono essere esplorati. La prima è un’installazione video racchiusa nella Forgia, un dittico a cristalli liquidi in cui due gerarchi nazisti discutono di razza, lingua e dell’assurdità del concetto di origine, alludendo ad una matrice tutta greca dell’idea che ci facciamo dell’Europa; la seconda è un’installazione sonora realizzata con numerosi diffusori a tromba disposti sulla sommità della centrale e che emettendo suoni la circondano completamente, avvolgendola in un’atmosfera continua di allarme o meditazione. Le trombe acustiche sono uno strumento neutrale di amplificazione del suono e della voce umana, la cui funzione è principalmente volta a superare lo spazio fisico e raggiungere masse di individui, catturarne l’attenzione, radunarne i corpi, così nelle stazioni, nelle scuole, nelle chiese e sulle spiagge, negli stadi e nei cortei, dalle tribune politiche e dai minareti, nelle piazze, nelle fabbriche, nei campi di concentramento, nei porti. Sostituendo i richiami perentori e gli allarmi con il suono eterno della risacca del mare e il verso celeste dei gabbiani in volo, si cerca per mezzo del suono di superare i confini del buio.
Questa idea di intermittenza luce-buio è alla base della terza installazione situata in Sala Comando: una riproduzione a grandezza naturale dell’Apollo di Olimpia domina l’ambiente vuoto ruotando lentamente immerso in una foschia continua che è attraversata da bagliori intermittenti, come se l’aria della centrale fosse dominata dall’elettricità. Un’atmosfera elettrostatica che espande un segno ricorrente della scena, che rende nervosa la dimensione aurorale in cui abbiamo immaginato di immergere la scena insieme a Fabio Sajiz. La grande statua è un’idea che ho nutrito da lungo tempo. Ho visitato Olimpia insieme a Patrizia e a Marco nel 2008. Una teoria del rapporto tra frontone occidentale e orientale era già sottesa alla performance *jeug- presentata proprio a Fies dieci anni fa e in cui l’animale e l’umano cercavano di delineare un punto terzo che nel vuoto raccontasse il divino. Quando la produzione di Orestea ha preso avvio insieme a Michele Mele abbiamo iniziato una lunga trattativa con il Ministero della Cultura Ellenico, garantito l’appoggio del Ministero si è trattato di raccontare il progetto al Museo Archeologico di Olimpia. Il Museo non aveva un’immagine in 3D del colosso per cui ho proposto loro di autorizzarci a farla e di lasciarne il risultato in dono. Poi io e Marco abbiamo convinto l’amico Pino Perri della ditta Printmateria a prendere parte al progetto: Printmateria è una delle pochissime ditte in Italia a realizzare sculture da immagini 3D (tramite asporto di materiale da blocchi) per mezzo di un braccio antropomorfo dotato di fresa. Insieme a loro si è immaginato il complesso processo di riproduzione. Considerati i limiti di budget oggettivi con cui dovevamo fare i conti, non abbiamo potuto viaggiare verso Olimpia con una squadra di tecnici addetti alla scansione 3D, ma abbiamo dovuto imparare a scansionare gli oggetti e a dominare i programmi di raccolta dati. Un’altra azienda, 3DZ di Padova, è intervenuta prestandoci a titolo gratuito il macchinario necessario e preparando Giulio che avrebbe dovuto manualmente raccogliere le informazioni digitali. Poi siamo partiti. La campagna di raccolta doveva essere filmata completamente e questo aggiungeva una dose di difficoltà. Mentre Giulio muoveva lo scanner sull’intera superficie della scultura (alta quasi 4 metri per coprire la quale serviva anche un estensore che portasse lo scanner a oltre 4 metri) e con parti non facilmente raggiungibili (in particolare la schiena essendo la statua disposta su un basamento contro il muro dell’ampia sala dei fregi del Museo), io dovevo dividermi tra macchina da presa e il computer. La delicatezza del manufatto, le sue dimensioni e la difficoltà dell’operazione davano i brividi, ma con nervi saldi e forza di braccia, e mille occhi aperti per non danneggiare la scultura, e grazie al supporto dello staff tecnico del Museo siamo riusciti a portare a termine l’impresa. L’immagine era raccolta. Tornati in Italia tecnici di Printmateria hanno trasformato l’immagine in un codice matematico per dare le informazioni al braccio meccanico e si è proceduto alla riproduzione. Il film dell’intero processo, dalla scansione alla riproduzione è diventato parte integrante di Conversio, l’ultimo capitolo scenico della nostra Orestea che sublima il tribunale cosmico delle Eumenidi di Eschilo. La grande scultura di pietra viene riprodotta in polistirolo, ma il passaggio di tecnica artistica risiede ancor di più nel processo filmato (il video della scansione e della fresatura) che non nell’atto in sè di riprodurre in materiale diverso un’immagine dell’antico. Nella nostra scena la parola, l’immagine e l’intima convinzione dell’uomo di poter fermare ciò che è in continua trasformazione, il divenire, ed il dolore che questa convinzione genera, sono sottoposti a processo insieme ad Oreste. L’installazione in Sala Comando ci riporta al cospetto dell’immobilità del divino e dell’infinito movimento del divenire, al cospetto di ere distanti che si manifestano contemporanee e vive, al cospetto dell’idolo, dell’immagine, ma anche della produzione dell’immagine e persino della sua riproduzione, del prodotto dell’arte e della sua riproduzione: e ne osserviamo contemporaneamente, in un cortocircuito elettrico che ha la potenza della folgore, la sua origine e il suo eterno cambiamento. Anagoor lascia la prima ed unica riproduzione dell’Apollo alla Collezione Fies. Collezione Fies è un progetto che non si fa solo strumento di raccolta e o esposizione, ma anche di narrazione liminale di oggetti che mantengono il dialogo con la corrispettiva opera/performance: mi è parso che fosse la casa o il tempio giusto per questo grande dio di polistirolo.
ATP: Quinzio, Severino, Givone, Sebald, Leopardi, Ernaux, Broch, Virgilio, Arendt, Mazzoni: riesci a tracciare in poche righe le simmetrie, le suggestioni, le assonanze (o le dissonanze) tra questi pensatori, nelle riflessioni che per te costituiscono l’orizzonte di pensiero e parola di Orestea?
Simone Derai: No, non riesco. Dichiaro di esserne incapace. Le mille voci del resto sono corse in soccorso, per aiutare a dire quello che non si è capaci di dire. Queste mille voci partecipano talvolta con una presenza che ha la grandezza di una piccola tessera estranea all’interno del grande mosaico testuale offerto da Eschilo. La traduzione del testo originale è contaminata da singole citazioni, talvolta molto brevi, fulminanti, di Virgilio o della Arendt che pur non riconoscibili, brillano improvvise illuminando inaspettatamente parti del dramma; talvolta come nel caso di Guido Mazzoni o di Sebald offrono delle vere e proprie colonne portanti parallele e consonanti al tempio di parole dell’Orestea. Partecipano come staffette che raccolgono il testimone e proseguono il discorso di Eschilo. Guido Mazzoni ad esempio ci ha lasciato donare le parole della sua poesia ‘Grammatica’ ad Oreste quando incontra la madre. È attraverso queste parole, scritte da un poeta del nostro tempo, che noi proseguiamo il discorso di Eschilo sulla capacità di sentire l’altro, sulla consapevolezza della legge che tutto lega, sul maturare della coscienza.
ATP: Quale il rapporto tra lo spazio filmato e lo spazio performato nella tua visione dello spettacolo?
Simone Derai: In Orestea è presente una struttura di dispositivi già collaudata in altri lavori. I due schermi lcd sono presenti in alcuni lavori dal tempo di Tempesta, ma solo nel 2012 queste due steli pendenti hanno offerto lo spazio per l’affiorare di un agone logico tra parti contrapposte: in Lingua Imperii dai due schermi lcd dibattevano due gerarchi nazisti, in Orestea sono Agamennone e Clitemnestra, poi Egisto e Clitemnestra e infine Oreste e Clitemnestra a confrontarsi, inconciliabilmente chiusi nelle proprie cornici. Il grande schermo cinematografico a fondo scena compare invece nel 2014 con Virgilio brucia: una grande pagina bianca diventa la superficie su cui si proiettano immagini filmiche del mondo in bilico tra cruda realtà e limbo onirico. In Orestea i due dispositivi sono presenti contemporaneamente e scandiscono l’avanzare inesorabile della tragedia.
ATP: Come ti sei immaginato il mondo sonoro dell’Orestea quando hai iniziato a comporre e a disegnare i suoni?
Mauro Martinuz: Per immaginare il suono dell’Orestea ho pensato molto agli eventi che vengono narrati, ai dialoghi, agli scambi che hanno i protagonisti. Ho pensato al mito, alla potenza degli dei e alla fragilità dei sentimenti che delle persone reali proverebbero ritrovandosi a vivere le stesse vicende. Durante tutto il processo compositivo iniziale non mi sono mai riferito o soffermato su specifici passaggi del testo ma ho preferito piuttosto dipingere delle atmosfere sonore e musicali che assieme a Simone potessimo poi modulare e adattare alla messa in scena. Il progetto musicale complessivo di Orestea si compone principalmente di due nuclei tematici/timbrici. Uno è maggiormente legato agli accadimenti, al succedersi degli eventi, al passaggio del tempo, ed è caratterizzato da suoni fatti di cenere, rumori, polvere e schegge, frequenze basse e pulsazioni: sono la guerra, il trascorrere degli anni, le morti violente e gli omicidi, le presenze divine e il distruggersi delle cose. L’altro, invece, si lega alle emozioni, al modo in cui quegli accadimenti influiscono sul vivere e sentire dei personaggi; ho in qualche modo cercato di empatizzare con loro, con le loro storie, quasi fossero reali. Per esempio, c’è una melodia rappresentativa di questo nucleo tematico che è particolarmente importante: è quello che accompagna il coro quando narra la morte di Ifigenia, che torna nel racconto del soldato quando invia il messaggio e che accompagna la profezia di Cassandra. Accanto e insieme alla composizione musicale, il suono di Orestea si arricchisce dell’uso reale dei materiali in scena: i microfoni, i registratori a bobina, i diffusori a tromba, le casse HiFi. Questi oggetti, funzionali e funzionanti, non sono solo a sostegno della voce degli attori o elementi scenografici, ma entrano a tutti gli effetti a far parte della narrazione. Il microfono di Agamennone, per esempio, è lo strumento con il quale il potente parla al suo popolo. Altri microfoni, sempre presenti e visibili in scena, ma “ambientali”, permettono di liberare l’attore dalla necessità di “parlarci dentro”. Ne è un esempio la scena di Cassandra: così come ha bisogno di un interprete ha bisogno anche di un microfono per essere compresa. O ancora, Clitemnestra usa un microfono e un sistema di registrazione per incidere il suo messaggio di risposta ad Agamennone. L’uso che abbiamo fatto dei diffusori a tromba e delle casse HiFi è un modo per trasformare fisicamente la voce di un attore o un suono, integrandoli alla scena: non sono esterni, ma sono dentro, elementi della messa in scena.
ATP: Nelle musiche dell’Orestea esistono suggestioni sonore che alludono o che hanno derivazioni dalla musica antica e suggestioni che derivano, invece, dalla musica contemporanea? Raccontami se ti va.
Mauro Martinuz: Purtroppo la nostra conoscenza della musica antica precedente al tardo impero romano è estremamente scarsa e inaffidabile: sappiamo che la musica era parte integrante di qualunque forma di recitazione o lettura pubblica, ma lo deduciamo dalle immagini pervenute fino a noi, non dalla presenza di una qualche partitura. Quindi risulta quasi impossibile lasciarsi ispirare dalla musica antica. In un altro spettacolo, Virgilio Brucia, abbiamo già provato a indagare il rapporto fra il suono antico e quello contemporaneo; l’abbiamo fatto sperimentando un approccio radicale nell’uso della voce attoriale – quella di Marco Menegoni, che recita l’Eneide di Virgilio in latino e in metrica – accompagnata e contrastata da una partitura elettronica che prendeva spunto dal concetto di “beat” dell’hip hop moderno e lo corrompeva. Con Orestea abbiamo deciso di seguire un’altra strada, trovare nuovi segni. Il suono di Orestea è contemporaneo nell’uso di suoni concreti (field recordings o registrazioni di oggetti di uso quotidiano da cui abbiamo ricavato una sorta di partitura musicale), e nell’uso di sintetizzatori, filtri ed effetti che vengono dall’ambito della musica elettronica. Non lo è in senso stilistico e tecnico, però: il mio tentativo resta comunque quello di tessere una partitura sonora “necessaria”, non “utile” (a dettagliare una sceneggiatura, per esempio), o “bella”. Il suono e le musiche sono parte di quel complesso organismo che è l’opera, dove nessun elemento è a sè, ma brilla tanto più quanto più è in relazione con gli altri. Nascono con l’opera, in alcuni momenti trascendono, ma sono sempre e comunque il risultato di un lavoro collettivo.