In occasione di ORESTEA / fin dentro la sera, fin dentro la notte, versione site specific e dilatata di Orestea/Agamennone, Schiavi, Conversio, pensata ad hoc per gli spazi di Centrale Fies, ATPdiary ha rivolto alcune domande ad Anagoor – Leone d’Argento 2018 alla Biennale Teatro di Venezia.
ORESTEA / fin dentro la sera, fin dentro la notte si è svolta a Fies domenica 30 giugno, come preview del festival Drodesera, titolato quest’anno IPERNATURAL e che si terrà a Centrale Fies dal 19 al 27 luglio.
L’intento di quest’intervista è quello di creare una polifonia, che sottolinei e illumini i diversi sguardi che hanno contribuito al lavoro teatrale, accanto (e con) la visuale di Simone Derai – regista di Anagoor.
In questa prima intervista, rispondono Giorgia Ohanesian Nardin (che si è curata della danza in Orestea), Giulio Favotto (video/riprese, direzione della fotografia, post-produzione) e Massimo Simonetto (assistente alla regia e curatore dei costumi e degli accessori di scena) con Derai e con l’ausilio di Serena Bussolaro, Christian Minotto e Silvia Bragagnolo.
ATP: Orazione, canto e danza: come si pone quest’ultima nello spettacolo e che contributo dà ai primi due elementi strutturali della tragedia?
Giorgia
Ohanesian Nardin: Non credo che la danza si collochi nel lavoro come contribuente
agli altri elementi, nel senso che nel modo in cui abbiamo lavorato non c’è
l’ipotesi che aggiunga, tolga o integri qualcosa, quanto più che il lavoro ci
chiami a collocarci nel corpo, nella voce e nella parola in maniera corale.
La tragedia (e uso questa parola nelle sue molteplici declinazioni) ci chiede
di tornare al corpo, ci invita ad essere presenti a quelle vibrazioni che sono
allo stesso tempo nel cuore, nelle viscere, nei polmoni, sento che forse questa
è la trama, la tessitura che lega le parti, se vogliamo parlare di parti. E’
uno stare nella concretezza, per me, quella praticità commossa di quando si
veglia un corpo, di quando si attraversa un lutto.
Credo che in Orestea il corpo non si
sostituisca alla parola, o viceversa, lo stupore che in me genera stare in
questo lavoro è dato dal fatto che i linguaggi stanno sempre in relazione tra
loro, e siamo noi, insieme, a tenerli allacciati. Mi vien da dire che è lavoro
di giocoleria, in qualche modo, certe cose le urla il corpo, altre vibrano
nella voce, altre ancora sono la struttura, la tecnica, altre forse sono a
malapena percepibili.
ATP: Se ti va, vorrei che parlassi brevemente del tuo approccio al corpo e al movimento nella scrittura coreografica per Orestea.
Giorgia
Ohanesian Nardin: Fin da subito, dalle prime conversazioni con Simone, è stato
chiaro che Orestea ci avrebbe
richiesto di rivolgerci gli uni alle altre innanzitutto somaticamente, sento
che il mio lavoro è stato principalmente questo. Offrire uno spazio in cui
trovare delle strategie che ci facessero incontrare nel corpo, che
spalancassero le molteplici possibilità dello stare insieme per sostenerlo e
lasciarci cadere dentro. Anche per questo, prima di ogni replica attraversiamo
una lunga preparazione collettiva, a metà tra un riscaldamento e un promemoria
per il gruppo, che per me è in qualche modo già l’inizio del lavoro, è già lo
spettacolo. Il modo in cui ho lavorato insieme ai miei compagni e alle mie
compagne è stato quello di offrire degli elementi di preparazione del corpo che
fossero già artiglieria dello stare in scena, che fossero terreno vulnerabile e
battito incalzante allo stesso tempo, e soprattutto che fosse una cosa alla
quale arriviamo insieme.
Questo è più evidentemente visibile nel vortice di Schiavi, dove ci siamo dat_ delle linee guida di costruzione della
struttura ma dove sempre di più ognun_ accorda per sè lo spazio di stare come
sente, come desidera, ma è qualcosa che attraversa il lavoro in tutta la sua
durata.
È vero che proprio in quel vortice si manifesta, per me, il nostro stare
insieme politico (questa parola così abusata aiuto) – è un momento in cui è
necessaria un’agitazione interna, è un tempo esorcizzante in qualche modo, una
chiamata ad andare ancora una volta verso un centro che sta sotto di noi, e vi
accediamo dal corpo.
Nel vortice siamo nelle piante dei nostri piedi che battono il pavimento, nei
polpastrelli che si cercano, nelle trame che disegnano gli occhi. Lì sta il
nostro terreno condiviso. Abbiamo bisogno di essere lì, lo costruiamo da prima,
da tutto il giorno infatti. Era fondamentale che ci allontanassimo dall’idea di
essere veicoli/canali/traduttori e traduttrici di un racconto, o che i nostri
corpi fossero devoti in questo senso a chi guarda, che offrissimo una
restituzione di quello che accade. Il mio approccio al corpo è questo, si
concentra sulle parti morbide, è lì che ci possiamo incontrare, rifiuta il
genere e si riorienta su più assi, mi interessa in questo senso avere cura
delle posture del corpo in relazione a come parlano di quello che portiamo,
delle intersezioni che abitiamo.
ATP: L’Orestea è un trionfo di colore e di non-colore, di grande luminosità e di fonda tenebra. Colpisce che, per i costumi, le scene e gli accessori, abbiate lavorato sui toni del bianco, del beige, dell’ocra, del panna, del grigio…Un trionfo di neutri che raccontano un mondo di pulsioni, invece, accesissime. Che storia cromatica ha la vostra Orestea?
Massimo Simonetto: Quando ci siamo posti la questione del come restituire visivamente l’ambiguità e la banalità del male presenti in Orestea abbiamo optato per una tavolozza di colori pastello e tinte esangui sulle quali potesse scagliarsi, da un momento all’altro, una violenza terribile.
Le tonalità dei cipria, dei rosa, dei carne e le trasparenze delle garze e dei veli, ci parlano di una tenerezza infantile sulla quale la violenza divampa come un incendio improvviso in una notte illuminata da una fioca luce lunare. Le forme morbide degli indumenti che avvolgono i corpi di questa prole maledetta raccontano l’intimità violata del nucleo familiare, trasformatosi in una sorta di orfanotrofio dei più fragili: alla partenza dell’esercito per la conquista di Troia in città rimangono donne, bambini e anziani, una comunità fragile rinchiusa in uno scrigno ovattato in attesa del ritorno dei soldati.
Con i costumi di Orestea abbiamo cercato di rispondere al desiderio di raccontare una Grecia arcaica che fosse lontana dal bianco accecante dei reperti archeologici e più meticcia, mediterranea, per questo il nostro riferimento ideale è sempre stato quello di una comunità di pastori che vivesse completamente in simbiosi con gli animali allevati e che per il proprio vestiario prediligesse materie prime naturali, come lane e cotoni, e lavorazioni artigianali come nel caso delle trecce di canapa e dei sandali di cuoio. Un universo grezzo nel quale risplende l’oro del bottino di guerra, dei tesori della casa e dell’opulenza che presto sarà ridotta in cenere.
ATP: Com’è cambiato il tuo rapporto con il linguaggio fotografico nei lavori di Anagoor di cui hai seguito la fotografia? Mi piacerebbe poi che mi raccontassi più nel dettaglio Orestea da questo punto di vista.
Giulio Favotto: Se penso a come si sia passati dal raccogliere singole fotografie, poi sequenze video, dove ogni istante doveva essere curato e denso come una singola immagine, fino ad arrivare a raccogliere la realtà, una realtà lunga 2500 anni (il frontone del tempio di Zeus a Olimpia), “scansionandola” e dandole una nuova identità digitale… ammetto che i cambiamenti siano stati la regola. Ogni progetto di Anagoor ha avuto un proprio linguaggio visivo la cui estetica, tecnica, forma sono sempre scaturite da un continuo dialogo fra i contenuti del lavoro, la scena e la sua fruizione; ho quindi continuamente cercato di mettere in crisi il mio rapporto con le immagini realizzate. Orestea, anche dal punto di vista fotografico, è la sintesi e al tempo stesso l’esplosione di un percorso per me iniziato nel 2013: se in Virgilio Brucia aspettavamo per giorni quell’attimo così unico, decisivo e doloroso come il venire al mondo nelle gabbie di un allevamento, illuminando la notte con una torcia, in Orestea la catena di smontaggio di un macello ci metteva di fronte a continui attimi eterni, opposti ai precedenti, dilatati ed amplificati dai tempi di osservazione che lo slow-motion costringe; il video diventava fotografia, e la fotografia diventava video. A composizioni fotografiche molto rigorose, statiche e simmetriche, il tempo, spesso dilatato dello slow-motion, aggiungeva dettagli imprevisti, attimi di disordine, di bellezza, di dolore che giustificavano ogni ricerca, ogni attesa.
Filmare con lentezza fotografica gesti e situazioni che consideriamo spesso ordinari ci ha permesso di osservare attimi che non avremmo potuto vivere altrimenti, accedendo in un certo senso ad una diversa profondità del nostro tempo o forse ad altre realtà.
Ma in Orestea, dove tutte le immagini sono destinate a scomparire, questo non era sufficiente: alle sequenze binarie di immagini digitali sono state affiancate altre sequenze numeriche raccolte dai lampi di uno scanner 3d; in vista della scansione della statua di Apollo, per padroneggiare capacità e limiti dello scanner, ho trascorso settimane a scansionare ogni oggetto, ma soprattutto, soggetto mi capitasse sotto tiro, dai miei genitori, fino al mio cane, Jaap. La possibilità di accedere ad una terza dimensione di riproduzione, spesso risultante in esiti bizzarri quando applicata a soggetti in movimento, apriva le porte ad un’ulteriore punto di vista sulla realtà… e sulla possibilità di creare nuovi attimi temporali.