Dove ieri c’era il mare, oggi esplodono petali. Lo scorso anno, la boa di Julius Von Bismarck (1983, Germania) fluttuava nel vuoto della maestosa rampa elicoidale replicando in tempo reale i sussulti di un altro galleggiante ancorato tra le acque dell’Atlantico. Ora, al posto di “Die Mimik der Tethys” (Le Espressioni di Teti), ecco stagliarsi una nuvola vaporosa: migliaia di fiori – ritagli di plastica riciclata – gialli come quelli del Roble Amarillo, un tipo di quercia autoctona dei Caraibi. Sospesa sulle curve ascendenti in cemento, l’esuberanza formale e cromatica dell’opera introduce, nell’elegante razionalismo dell’impianto novecentesco, un inaspettato elemento di fascinazione naturale che amplifica l’effetto del giardino pensile allestito là fuori, sul tetto del Lingotto. È un “albero fantasma” privo di tronco, rami e di altro fogliame, una sorta di omaggio – monumentale ma lieve – alle vittime della deforestazione selvaggia e della caccia alle risorse. In memoria delle piante abbattute e di quelle mai cresciute.
Realizzata dal duo Allora & Calzadilla, “Graft (Phantom Tree)” è una delle quattro nuove installazioni presentate da Pista 500, il progetto espositivo condotto da Pinacoteca Agnelli lungo il leggendario tracciato di collaudo in cima all’ex fabbrica Fiat, a Torino, ripensato negli ultimi anni come passeggiata botanica, location culturale, galleria d’arte open air: «Uno spazio mitico e simbolico», riflette la direttrice Sarah Cosulich accompagnandoci nella visita, «che evoca l’utopia, la rivoluzione automobilistica, il fascino della velocità, l’epopea del lavoro. Un luogo che non smette di affascinare gli artisti chiamati a confrontarsi con questo contesto, con la sua storia e i suoi significati, per arricchire, con la loro visione, il nostro programma».
Pista 500 è un’organismo in trasformazione, per la flora che vi cresce e per le opere che la abitano. Lavori che vanno, lavori che vengono, seguendo il ritmo stagionale degli incarichi commissionati. Tra i primi, per esempio, l’orologio controcorrente “Against the Run” di Alicia Kwade; tra i secondi, oltre al “Phantom Tree” di Jennifer Allora (1974, USA) e Guillermo Calzadilla (1971, Cuba), le opere – sempre site specific e prodotte da Pinacoteca Agnelli – firmate da Francesco Gennari (1973, Italia), Bong Bar (1997, Cina) e Silvia Rosi (1992, Italia).


La scultura “… Avevo anche 7 stelle in tasca…” di Francesco Gennari è un autoritratto sotto forma di indumento: il loden dell’artista – replicato in bronzo – appoggiato sulla balaustra della rampa. Sembra davvero un cappotto abbandonato lì per caso, e presi dalla smania di scattare foto ai fiori gialli del Roble Amarillo quasi non lo so si nota. Il calco è un monumento che non ingombra, dimesso, che non raffigura una presenza umana ma la porta con sé, rimandando a una testimonianza e a un corpo ora assenti. È il riferimento a una vita vissuta: quella di Gennari stesso (la cui firma compare sull’etichetta interna del soprabito, un oggetto personale che ritroviamo spesso nella sua pratica) nell’atto di reinterpretare poeticamente il mondo. Di tutt’altro genere “Carnivorous Bloom”, della cinese Rong Bao: tra le piante lungo la pista, ecco spuntare una presenza pulsante, che ansima, che agita rumorosamente i propri petali gonfiabili come se, nonostante tutto, stesse invitando lo spettatore ad abbandonarsi al proprio abbraccio. Lo si può fare, perché la “fioritura carnosa” di Rong Bao è un’opera interattiva che, se all’inizio ci mette sulla difensiva con le sue fattezze da pianta carnivora, alla fine ci conquista con le sue morbidezze rosa. Avvolta nella sua estetica pop, è un’entità fluida, ludica ma dotata di senso, a metà strada tra creatura e congegno, tra dimensione organica (la flora che ora ricopre il Lingotto) e tecnica (i macchinari che qui, tempo fa, erano in funzione).
Chiude la visita Silvia Rosi, artista italo-togolese: a lei è affidato il cosiddetto “billboard”, la struttura simile a un cartellone pubblicitario che, a lato delle pista, ospita contributi fotografici e opere bidimensionali sullo sfondo del panorama urbano circostante. “Omissions” è un’immagine complessa che fonde rimandi autobiografici e narrazioni storico-politico di ampio respiro, toccando i temi del colonialismo e del post-colonialismo, della diaspora e della riappropriazione identitaria. Livelli di lettura stratificati che si radunano attorno alla figura di due donne immortalate di spalle, in una messa in scena fitta di rimandi e significati. Un racconto carico e costruito, dove ogni singolo elemento contribuisce a evocare un’eredità composta inesorabilmente di memorie e omissioni. Per esempio – viene spiegato – «le modelle hanno in mano il tabellone del Ludo, un gioco da tavolo nato in India nel VI secolo e poi esportato successivamente in Gran Bretagna e nelle sue colonie. Vestite coordinate con colori che ricordano la plancia da gioco, le figure sono al contempo giocatrici e pedine. Anche lo sfondo dell’immagine racconta di intrecci e legami di potereIl materiale con cui è stato realizzato è infatti il wax, un tessuto arrivato dall’Indonesia attraverso le rotte commerciali coloniali olandesi e diventato nel tempo parte integrante dell’identità culturale dell’Africa occidentale». Curiosità finale: Silvia Rosi è nata a Scandiano, lo stesso paese emiliano di Luigi Ghirri.

