Non è facile dire in cosa si sia trasformato il binario 1 delle OGR per la personale di Mike Nelson curata da Samuele Piazza L’Atteso: se in un drive-in da incubo addormentato sotto un cielo texano, se in uno di quei parcheggi polverosi di supercar abbandonate da chi per bancarotta è costretto a lasciare gli Emirati Arabi, o se nel set di un film post apocalittico.
Superata una parete vetrata ci si trova alle spalle di una struttura di legno alta dieci metri che ricorda un grande cartellone pubblicitario, con i fari di una dozzina di macchine puntati contro. Camminando sulla terra battuta – ottenuta da 200 tonnellate di materiale di risulta pressato – col passo incerto sulla superficie irregolare, si avanza tra le macchine in cerca di indizi che possano rivelare cos’è successo e in che luogo ci troviamo. Perché quelle macchine sono ferme. Perché hanno i fari accesi. Che fine hanno fatto i passeggeri. Chi erano.
Come stalker improvvisati ci si addentra alla scoperta di un luogo che sembra essere stato travolto da qualcosa di terribile e irrimediabile di cui si avverte però soltanto un alito. Lo scenario è crepuscolare, il tempo immobile, e le macchine l’unico frammento di una civiltà sull’orlo dell’obsolescenza. Al loro interno sono disseminati alcuni oggetti, indizi a cui aggrapparsi per ricostruire una narrazione legata alle identità dei passeggeri, per quanto incerte e mai definite.
La mostra si costruisce come un’unica carrellata in soggettiva, senza mai risolversi in una scena esplicativa. La suspense monta ma le aspettative vengono disattese.
La superficie della struttura di legno resta intonsa, pronta ad accogliere qualsiasi immaginario siamo disposti a concepire, ogni risposta che siamo in grado di immaginare.
Segue l’intervista con Mike Nelson —
Maricarla Molè: È incredibile come nonostante la monumentalità dell’installazione si riesca a trovare una dimensione intima in mostra, come si avverta una contrazione dello spazio, dal grande al piccolo, dal fuori al dentro.
MN: A livello concettuale sono partito dai macroelementi – la struttura di legno, la terra per il pavimento, le macchine – e solo dopo ho iniziato a ragionare sulle identità delle persone che avrebbero occupato gli interni delle automobili e a raccogliere suggestioni sui loro vissuti, le loro memorie.
Quando ho disseminato gli oggetti negli interni mi sono chiesto se l’effetto dovesse essere quello di macchine realmente abbandonate o se volessi ottenere piuttosto un effetto più teatrale, e l’intero lavoro è stato giocato nella ricerca di un equilibrio tra questi due aspetti, la normale quotidianità delle macchine e la spettacolarità dello stato di abbandono.
MM: E come hai scelto gli oggetti?
MN: Ho scelto oggetti che avessero una certa risonanza rispetto all’oggetto stesso e rispetto alle persone a cui sono appartenuti. Quello che mi interessa degli oggetti è la loro capacità di evocare una presenza, un corpo mancante, come la cintura con inciso sopra il nome della persona a cui è appartenuta, è un oggetto strettamente legato a chi l’ha posseduto, che però agisce in assenza di quella persona.
Gli oggetti in qualche modo sono imbevuti di storie, per me è fondamentale che sia così, e vado a cercarli con l’intento di tirare fuori queste storie. Certo, alcuni sono più carichi di altri, se pensi alla bandiera irachena che io ho immaginato appartenuta a un soldato, è sicuramente più pregnante di altri oggetti. Tutti gli oggetti però, sebbene in maniera differente, rimandano tutti al vissuto di una persona. Nel disporli all’interno delle macchine ho però cercato di non cadere in stereotipi, di evitare di suggerire identità facilmente incasellabili in uno schema definito.
MM: E come ti sei posto nei confronti dello spazio?
MN: In un primo momento mi sono chiesto quale potesse essere la mia funzione all’interno di uno spazio simile. Cosa potesse voler dire per me che lavoro con installazioni monumentali inserirmi in questo luogo, e quindi come lavorarci in maniera da costruire qualcosa che avesse senso rispetto allo spazio.
Quella dello spettacolo s’è presentata come l’unica via percorribile per quanto io la rifiuti, ho deciso di affrontarla e di optare per uno spettacolo inteso in senso filmico, prendendo Michelangelo Antonioni come riferimento. Ho trovato avesse senso attingere a un immaginario italiano per lavorare in un contesto italiano. Ho guardato molti film di Antonioni – L’avventura, Zabriskie Point, Blow Up, L’eclisse – e ho trovato una connessione mistica tra la sua abilità nel raccontare il nulla e la teoria dell’Unseen di Lovecraft, il non visibile nell’horror, capace di creare un’aspettativa nonché un sentimento di paura.
Insieme ai film di Antonioni ho guardato i film di Dario Argento, mi pareva potesse avere senso attingere a un immaginario italiano per lavorare in contesto italiano.
Non conoscevo Profondo rosso e quando l’ho visto ho pensato potesse essere la risposta di Dario Argento a Blow Up. Dario Argento secondo me è l’anello di congiunzione tra la teoria dell’Unseen di Lovecraft e Antonioni.
MM: Come si lega il riferimento a tanto cinema con la struttura monumentale di legno, che potrebbe essere il supporto di uno schermo, su cui però non viene proiettato nulla?
MN: La struttura di legno all’ingresso è sua volta ambigua, può ricordare un pannello pubblicitario o lo schermo di un drive-in che sarebbe anche suggerito dalle macchine. Ma l’idea è quella di richiamare un senso di nulla e di stasi, ricostruire qualcosa che alla fine è una decostruzione, come in fondo è un’operazione di decostruzione quella di costruire un enorme contenitore che però non contenga nulla.
MM: Si avverte una sorta di black humor in questo.
MN: Esatto. Per questo ho voluto portare dentro 200 tonnellate di materie. Volevo creare un cortocircuito con il resto dello spazio intorno al binario, che fino a qualche anno fa era ridotto a uno stato simile, mentre adesso è trattato come un monumento, con una serie di cure e attenzioni, a tratti eccessive e assurde se si pensa a cosa lo spazio è stato, un’officina in cui venivano riparati i treni.
Quello che ho voluto fare è stato sottolineare quanto sia effimero e mutevole il valore che diamo alle cose, ai luoghi, e in questo caso a uno spazio post-industriale che era in rovina e ora si sta cercando di preservare. Ma il valore è qualcosa che varia in base al tempo, ciò che dieci anni fa era ridotto in un rudere, ora è uno spazio espositivo, ma è possibile che tra vent’anni torni a essere un cumulo di macerie.
MM: E le macchine? La loro tecnologia sembra non avere un futuro. Sono anch’esse macerie?
MN: Quello che mi interessa delle macchine è un po’ quello che mi aveva affascinato delle camere oscure con cui avevo lavorato alla Biennale di Instanbul; si tratta di oggetti ancora funzionanti e funzionali nella realtà ma che sono già al limite dell’obsolescenza. Ma mentre nelle camere oscure c’era già un senso di nostalgia le macchine sono ancora attuali e fanno parte della quotidianità, per questo ho scelto di portare in mostra tutti modelli molto comuni che è ancora possibile incontrare per strada.
Le macchine poi sono interessanti perché possono diventare teche, vetrine delle vite che sono passate al loro interno, ma anche come oggetti in sé, a un livello scultoreo quasi, come reperti di una tecnologia del ventunesimo secolo destinata a scomparire.
MM: Le macchine sono vetrine all’interno di una vetrina più grande creata con una parete vetrata, contro cui vediamo premere le macerie, all’esterno della quale una teca più piccola riporta a una dimensione più intima. Sembra un gioco di scatole.
MN: Per me era interessante partire da una teca piccola, per dare l’input a guardare come vetrine quello che c’è subito dopo, oltre la parete vetrata, ma anche le singole macchine. Con le vetrine volevo richiamare alla natura archeologica dell’intera operazione, un’archeologia recente, che si approccia agli oggetti quotidiani come fossero reperti. Volevo esasperare l’appeal da antiquities di oggetti che in realtà sono molto banali.
La piccola teca all’esterno intimate sculpture for public space contiene il sacco a pelo appartenuto al mio amico Erlend Williamson, morto durante un’arrampicata nelle Highlands scozzesi, una persona che ha influenzato tantissimo il mio lavoro. Quell’oggetto rimane una presenza rispetto alla sua assenza, e invita a guardare allo stesso modo all’interno della parete vetrata e delle macchine.
MM: Memorie solide
MN: Mmm si…