“Là dove esiste una ragione reale delle cose, dove non si rinuncia ad usare liberamente il senso comune e la propria immaginazione, nasce spontaneamente – come diciamo noi ora – una forma”. Proprio di forme parla la ricerca sul molteplice di Angelo Mangiarotti, protagonista della creatività italiana al quale Triennale Milano dedica “Angelo Mangiarotti. Quando le strutture prendono forma”. La mostra, sostenuta dall’omonima Fondazione che ha messo a disposizione il suo archivio, è a cura di Fulvio Irace e animerà il Palazzo dell’Arte fino al 23 aprile 2023.
Il progetto di allestimento è a cura di Ottavio Di Blasi & Partners con la partecipazione di Renzo Piano, che conobbe e collaborò con lo stesso Mangiarotti, e nasce con l’intenzione ambiziosa di impaginare una delle maggiori retrospettive mai realizzate sulla figura dell’architetto milanese. Stefano Boeri sottolinea l’intenzione di celebrare una figura centrale nella cultura del progetto del Novecento, nel solco delle mostre che Triennale Milano ha precedentemente dedicato a quei maestri della storia dell’architettura e del design come Ettore Sottsass, Pietro Lingeri, Enzo Mari e Achille Castiglioni.
Ripercorrere oltre 60 anni di attività di un progettista così “intenso”, citando Ingrid Paoletti della Fondazione Mangiarotti, equivale ad entrare in una dimensione di grande forza creativa, tanto energica e tanto visionaria da scavalcare i margini di una professione, sconfinando in quella attigua, vale a dire l’ingegneria, ma anche l’arte. Per questo, quello dell’architetto milanese è un lavoro sui limiti che contribuisce in modo eccezionale alla definizione di quel Made in Italy dell’Italia moderna. In effetti, pur essendo da considerarsi per intero un progettista dei XX secolo, Mangiarotti ha dimostrato un tale vitalismo da lasciare, pur ottantenne, “un’unghiata nell’architettura del XXI secolo” per riportare Irace, vale a dire le stazioni ferroviarie milanesi del passante suburbano, di Porta Venezia e Repubblica, e il “tubo connettore” di Milano Rogoredo, ovvero le nuove porte d’ingresso della metropoli contemporanea. Proprio l’architettura industriale e di servizio – le cosiddette “costruzioni produttive” – tanto lo affascina da renderla esercizio di prototipo e funzione di paesaggio. In questa dinamica progettuale tangente l’ingegneria, Mangiarotti indossa l’anonimato e si pone contrario ad ogni identificazione formale o branding, ai quali preferiva piuttosto la copia come dimostrazione di utilità alla società.
Andando con ordine, l’ingresso alla mostra si compone come una grande quadreria che rappresenta un aspetto del tutto inedito di Mangiarotti, quello del disegno. Tutto tranne che ornamento, il disegno diviene la via prima di ricerca delle idee. A questo proposito concorrono le testimonianze di chi visitava il suo studio, che più che altro si presentava proprio come un’”officina” del progetto: pareti tappezzate di appunti e di schizzi, mensole traboccanti di modellini e di prototipi allagavano quel mare di idee fatto per immagini. Come scrive Beppe Finessi, si tratta di un metodo di raro e straordinario equilibrio tra il descrivere e l’emozionare del quale ben pochi progettisti dispongono; un metodo affine, pur senza l’equivalente propensione al particolare e con tutt’altro risultato, a Carlo Scarpa, al quale Mangiarotti curiosamente subentrò nella magione vicentina di villa Valmarana ai Nani, dopo l’infelice scomparsa del genio veneziano.
Proprio il disegno diventa il nodo centrale della poetica, anzi della tecnica di Mangiarotti, nella misura in cui svolge l’esercizio attivo della funzione di scala come chiave per risolvere il problema progettuale. Nel prisma di questa multiscalarità dell’approccio, che vede vasi che diventano edifici o consolle che diventano depositi industriali, persiste la bravura di Mangiarotti nell’affrontare il singolo problema, senza mai trascurare la sua visione di contesto, il dettaglio delle funzioni statiche degli elementi o la specificità di ogni materiale.
Nei grandi processi di progettazione l’architetto era affiancato da un team di strutturisti, che paradossalmente riconoscevano in Mangiarotti stesso la presenza di un ingegnere, quasi come se raggiungesse l’ingegneria in maniera intuitiva. È in questo processo compositivo che le sue strutture diventano forma in modo diretto, senza incespicare in alcuna contraddizione di calcolo statico, che diviene un semplice passaggio di verificazione, e si fanno opere di design in una forte affinità con Renzo Piano, nella comune visione dell’architettura come processo di assemblaggio. Ecco un secondo punto saliente ed eccezionale della poetica di Mangiarotti: ben evidente da queste sue stesse parole: “Credo che sia veramente il momento di pensare a processi produttivi architettonici in termini schiettamente industrializzati, appunto perché lo sviluppo della progettazione e della produzione industriale negli altri settori ha da tempo preceduto quello architettonico. Alla domanda se l’industrializzazione edilizia possa comportare una crisi della attività creativa vorrei sottolineare come essa, prima ancora di essere un sistema pratico e la più conseguente trasformazione del processo costruttivo del nostro tempo, debba essere intesa come nuovo principio di figuratività”.
Questa inedita attitudine traspare in filigrana fin dalla terza comparsa su Domus di marzo del 1952, rivista che per prima registrò il talento del giovane architetto. In senso specifico, questo numero presentava la Costruzione infinita, ovvero un oggetto multifunzionale, in piena affinità con quanto presentato nel numero precedente, che Lisa Licitra Ponti commenta come un vero e proprio “sistema fantastico” per la progettazione di un bancone da bar sospeso a mezz’aria. Insomma, come dettagliatamente riporta Fulvio Irace nel saggio di apertura, si tratta di una serie di invenzioni che solo in apparenza svolgono un tema d’arredo, ma che in realtà contengono in nuce quello che sarà il filo conduttore dell’architetto: la ricerca di “soluzioni parametriche”, dotate cioè di una massima riconfigurazione potenziale. Proprio la Costruzione infinita viene descritta come “una macchina minima per effetti massimi”, tanto da essere accompagnata “da un lato da un’astrusa formula matematica che ne conteneva il codice delle possibili combinazioni”, quasi a diventare dimostrazione progettuale di un “teorema della composizione variata”, e dall’altro si arricchiva dell’intervento pittorico di William Klein, secondo la visione pontiana per la quale pittura, scultura, architettura “non avrebbero dovuto chiudersi in confini disciplinari, ma anzi convergersi e contaminarsi”.
Proprio sulle pagine di Domus viene quindi registrato questa attitudine alla prefabbricazione, ovvero un elogio di singole forme semplici, prodotte dalle rispettive filiere e poi assemblate, nella consapevolezza di ciascuna funzione manifatturiera e introducendo un vero e proprio “ruolo figurativo della tecnica”. In questa parabola, come osserva Mario Botta, la genialità sta proprio nell’incastro “fra il pilastro portante verticale e la travatura orizzontale, declinato dall’architetto in decine di invenzioni una più bella e intelligente dell’altra. Il problema dell’incrocio, e quindi il problema del ‘nodo’, diventa occasione espressiva […] Gli snodi strutturali di Mangiarotti sono delle vere e proprie sculture”.
Va sottolineato quanto questa posizione progettuale si stagli come visionaria, in un panorama ancora acerbo e confuso tra la piccola tradizione manifatturiera, vedasi l’epilogo di Luigi Caccia Dominioni con Azucena, o i primi seri tentativi di produzione in serie di progetti fatti a macchina, come ha scritto per primo Giò Ponti sulle pagine di Stile –che infatti pose per primo grande attenzione su Mangiarotti – e come ha saputo dimostrare quel sovversivo di Dino Gavina.
Quindi, l’architettura e il design si confrontano con l’industria, con un’accelerazione di consapevolezza che la critica non riesce a seguire. Irace sottolinea come sia in questo momento che avviene un vero e proprio strappo tra la nuova visione del progetto e chi ancora sosteneva “un fondamentalismo estetico che considerava l’atto creativo come avulso da ogni tipo di motivazione pratica, economica, strutturale”. E che questo fatto abbia generato riflessi così profondi, da influire in modo integrale sulla storia dell’architettura italiana “dove i silenzi sono quasi più eloquenti delle parole”: silenzi che fino a poco fa abbiamo ascoltato e che si stanno finalmente rompendo in questi ultimi anni. E le cui conseguenze incidono anche sulla storia del design, per anni vittima di un forte strabismo e ancora in corsa per la parità con la storia dell’architettura.
Dopo questa necessaria divagazione storica, superiamo la quadreria di schizzi e disegni e la vivace linea del tempo a fronte, fitta tanto di immagini quanto di citazioni di dignità letteraria. Si raggiunge la sala centrale che viene solcata da un tessuto di assi prospettici: una serie di gigantografie di interni mettono in scena un ambiente scandito di progetti, un paesaggio ideale interrotto dal gioco di scala di modellini e maquette che tratteggiano un vero e proprio skyline dalla forte strategia visiva. Il pregevolissimo allestimento di produzione UniFor si basa su un progetto iconico di Luca Meda e identifica lo spazio attraverso ampie pannellature di tiglio a pori aperti, quasi volte a creare capsule narrative di grado zero sulle pareti. Le piattaforme centrali sono delle vere e proprie isole che paiono fluttuare nell’aria, con una sofisticazione tecnica che permette l’esposizione abbinata di disegni e modellini alla perfetta mezzeria visiva e che stupisce per qualità illuminotecnica e divertimento di riflessione, ponendo un’infinità di punti di vista. Non una visione monoculare, piuttosto un panorama di prospetti, sezioni, nodi, giunti, pilastri che si alternano, si sovrappongono, si fanno prima oggetto e poi edificio, in un instancabile gioco di scala. “Ossessioni formali” che creano una narrazione tecnica, ma anche iniettata di una potente identità artistica, testimoniata, ad esempio, dal dialogo scultoreo con l’amico Piero Dorazio e dalla necessità di un curatore per la sola sezione scultura, Luca Pietro Nicoletti.
Mai distinzioni e mai cesure, mai interruzioni di pensiero, con una lucida continuità di forme archetipiche come il fungo, il tronco di cono e la colonna rastremata verso l’alto. Architettura e design respirano insieme, in una liquidità che si fa un vero e proprio “sistema allitterante”, per citare il curatore della sezione Design, Marco Sammicheli. Non poteva mancare la consolle Eros, il cui gioco sapiente di incastro a sezione troncoconica attribuisce un’espressività statica inedita al materiale principe della statuaria classica, il marmo, e lo riporta a quella dignità architettonica di epoca ellenica. Curioso infatti come, malgrado l’intuizione parametrica, persista una certa classicità anche in quelle architetture funzionali, come a volersi porre “austere come un tempio classico”. Il caso lampante è il deposito industriale Splügen Bräu di Mestre, che viene riportato con tanto di iconica fotografia con il progettista, nel quale il tema dello sbalzo comporta una percezione ossimorica di peso e leggerezza dell’architettura. In questo, Mangiarotti legge attentamente l’opera di Pier Luigi Nervi, figura centrale dell’ingegneria italiana del Novecento.
Impossibile non concludere con l’immensa installazione site-specific al centro della galleria realizzata con ganci di cristallo della collezione Giogali e produzione Vistosi del 1967, che si pone come una sonora cascata di luce e pare quasi una eco meneghina ed essenzialistica a quel capolavoro a base Poliedri che Carlo Scarpa disegnò per Italia61 di Torino, recentemente ricostruita in modo sapiente da Marino Barovier per le Stanze del Vetro. Per ambedue i casi, che la Luce si faccia memoria.