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NOPE! | Intervista a Davide Sgambaro

Un presente poco sincero e precario, ricco di contraddizioni, ambiguità e inganni. Un’attualità svelata che vive anche nelle narrazioni effimere di instagram e che si rifugia nelle lusinghe di una notte, nelle danze commerciali di un trash vacanziero e nelle luci soffuse che pulsano a ritmo incalzante.Ostentare, sorridere e ammiccare a favore di fotocamera per […]

Exhibition view, Nope!, solo show Davide Sgambaro, Galerie Alberta Pane Paris – ph. Mami Kiyoshi

Un presente poco sincero e precario, ricco di contraddizioni, ambiguità e inganni. Un’attualità svelata che vive anche nelle narrazioni effimere di instagram e che si rifugia nelle lusinghe di una notte, nelle danze commerciali di un trash vacanziero e nelle luci soffuse che pulsano a ritmo incalzante.
Ostentare, sorridere e ammiccare a favore di fotocamera per sfuggire dal confronto, dalla realtà e dalle responsabilità, per incedere attraverso la comunicazione verbale dei No, o dei Non mi va per puro orgoglio pseudo positivista, per un semplice capriccio. 
L’opera di Davide Sgambaro include un universo ancora più ampio che riguarda la condizione umana e comprende, in maniera analitica, una critica sensibile e pungente alla crisi endemica di una generazione senza carattere che, in alcuni casi, sembra abbia smarrito quella voglia di lottare, condividere e dialogare, celando dietro una maschera di gomma la propria identità e la bellezza innocente di quello sguardo magnetico e romantico. 
Orbene come si legge nella pubblicazione dedicata a Pietro Ingrao, realizzata a commento di Indignez-vous! di Stéphane Hassel, Indignarsi non basta e che «Bisogna costruire una relazione condivisa, attiva». In più aggiunge l’ex partigiano e giornalista: «Valuto molto più forte il rischio che i sentimenti dell’indignazione e della speranza restino, come tali, inefficaci, in mancanza di una lettura del mondo e di una adeguata pratica politica che dia loro corpo. Che l’indignazione possa supplire alla politica e, in primo luogo, alla creazione delle sue forme efficaci è illusorio».
La mostra nella galleria parigina Alberta Pane, visibile fino al 30 di Luglio, è accompagnata dal testo di Ilaria Gianni.

Possiamo parlare di Nope! come di un nuovo corso, di un passaggi o di maturità dove approfondisci la riflessione sulla precarietà e sintetizzi in modo pragmatico i temi dell’ironia e del gioco. Rispetto ai lavori precedenti, quali sono le suggestioni e le narrazioni che ti hanno portato alla formalizzazione delle opere in mostra?

In quanto prima mostra personale a Parigi, dopo la mostra personale londinese intitolata Feeling Fractional, Nope!fa un po’ il punto della situazione sulla mia ricerca. In questo caso il titolo riprende una negazione espressa in maniera colloquiale, quasi distratta. Mi piaceva l’idea di ragionare sullo scarto di senso prodotto tra il significato del NOe la leggerezza della parola rivisitata, quasi in questo gap si intravvedesse un intervento di cura nel rendere una negazione accettabile, creando inevitabilmente un paradosso di intenti tipico del pensiero positivo. Più nel dettaglio ho tentato di portare a galla il paradosso per cui il pensiero odierno concepisce ogni evento negativo come un’opportunità devastando in questo modo la capacità critica e accusando il lamento a pratica “non costruttiva”. 

Su quali concetti costruisci il concept della mostra?

E’ una mostra che si sviluppa sull’idea del positivismo e dello stereotipo attitudinale tardo-capitalista nel quale il NO è la risposta più comune alla manifestazione del desiderio. Per far ciò ho ragionato sulle dinamiche della fast communication, di come ha intaccato nel tempo il rapporto tra individui. Ho quindi utilizzato materiali e riferimenti visivi che appartengono all’immaginario collettivo: dall’invenzione della prima emoticon nel 1982 alla più recente tastiera emoji, passando poi per l’atto vandalico reso tecnica scultorea e riferimenti ludici come quelli del calcio in culo proprio della giostra delle catenelle. Sono tutte dinamiche vicine al concetto di sabotaggio che mi interessa molto, il sabotaggio rimane una forma di resistenza efficace. 

Exhibition view, Nope!, solo show Davide Sgambaro, Galerie Alberta Pane Paris – ph. Mami Kiyoshi
Exhibition view, Nope!, solo show Davide Sgambaro, Galerie Alberta Pane Paris- ph. Mami Kiyoshi

Nei tuoi lavori unisci spesso scultura, installazione, fotografia e performance, in che modo configuri il significato dell’opera con l’utilizzo dei materiali e i mutamenti progressivi e generazionali dovuti alle trasformazioni culturali in corso?

Il mio metodo di lavoro, come accennavi, si apre a molti media semplicemente per il fatto che non limito la produzione alle dinamiche di riconoscibilità, bensì tendo ad adeguare la pratica e il risultato finale coerentemente alla ricerca fatta al principio. Se il progetto chiama l’installazione allora sarà prodotta un’installazione, a volte invece la semantica esterna trasforma l’immagine osservata in tecnica. So-so, ad esempio, non è altro che un atto vandalico sul sedile di un tram riprodotto su gommapiuma utilizzando una sigaretta. Cambi il contesto, riproduci e ottimizzi la tecnica, sottolinei alcuni significati, ma rimane sempre un’immagine presa dalla vita di tutti i giorni, nessuna pretesa, nessun virtuosismo, solamente un più ampio tassello del racconto. Tutto ciò che vediamo è potenziale materia per questo penso che sia mia responsabilità studiarne i cambiamenti. I miei riferimenti alla musica, alla narrativa, alla filosofia contemporanea sono frutto di un continuo aggiornamento. Non ho paura di utilizzare differenti media, credo che la formula della riconoscibilità formale sia una storiella superata da non raccontare più, soprattutto a livello accademico, anche solo per ridurre le dinamiche tossiche tra chi lavora nel nostro campo. 

Nella conversazione con Ilaria Gianni a proposito di Padre, perdonali perché non sanno quelloche fanno la curatrice parla del lavoro come di “ballerini solitari”. In questo affascinante rimando trovo una vicinanza con quella danza precarica messa in atto da Henri Matisse nel celebre dipinto fauves esposto al Museo dell’Hermitage a San Pietroburgo. Quanto del tuo presente è connesso conla storia dell’artemoderna?

Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno narra di equilibrio precario, una danza totalmente casuale verso una fine imprevista. Il dipinto di Matisse è stato la prima suggestione nel 2015, quando ho concepito l’idea di questa installazione. Le mie cinque danzatrici (rossa, blu, gialla, bianca, viola) mantengono la costruzione del soggetto del dipinto. È un gioco. Forse segnava un momento di passaggio da una situazione di bolla accademica al caos del fuori, fatto sta che il mio lavoro non parla più di rinascita, di primavera, di libertà bensì del contrario. Questa installazione ci racconta l’insicurezza e le dinamiche tossiche di circostanza contemporanee. È un individuo che sorride, solo, mentre va verso fine certa, ha perso il suo cielo blu, l’erba sotto ai piedi e si ritrova incastrato in un white cube che rappresenta le incongruenze della nostra esistenza. Ho ragionato molto su questo lavoro nel tempo e non ho ancora presentato tutte le mie danzatrici. Un giorno mi piacerebbe avere la possibilità di esporre le cinque installazioni nel medesimo spazio e vedere che succede. In ogni caso dimenarsi, divincolarsi, arrangiarsi, reinventarsi: son tutte la costante danza dell’individuo precario. Si naviga a vista senza capire più il significato di ciò che vediamo, del perché lo facciamo, mantenendo in faccia quel grande sorriso inespressivo. Penso inoltre di riuscire a contestualizzare questo lavoro nel momento di passaggio tra la teoria del man in the box, l’uomo al centro intrappolato nel potere d’acquisto e il godinthebox, dove l’algoritmo monitora il nostro volere. La nostra identità rimane lì, nella scatola intrappolata mentre tutto ci accade attorno e le nostre possibilità di scelta vengono costantemente ridotte.

Exhibition view, Nope!, solo show Davide Sgambaro, Galerie Alberta Pane Paris – ph. Mami Kiyoshi
Exhibition view, Nope!, solo show Davide Sgambaro, Galerie Alberta Pane, Paris – ph. Mami Kiyoshi

Una delle sculture intitolate Calcinculo,installate sul soffitto, mi ricorda l’iconografia dell’appeso, dodicesima carta degli arcani maggiori e il suo significato positivo, ovvero quellodi osservare da una posizione sfavorevole, ma in maniera meditativa e flessibile una situazione vissuta da un altro punto di vista. Trovi delle relazioni tra il significato simbolico della carta e la poetica del tuo lavoro?

La carta dell’appeso è una delle mie preferite, assieme al folle e la luna. Come sai sono molto affascinato dalle pratiche ludiche, un po’ per questioni biografiche e un po’ per le alterazioni narrative che creano. Quando si pensa a qualcosa di divertente, giostra o gioco che sia, lo stereotipo ci trasmette un senso di allerta che si posiziona tra il senso di colpa da “tempo perso” e la sensazione di dover difendersi da possibili inganni. Da qualche anno sto studiando e applicando al mio lavoro le tecniche utilizzate per provocare la risata, ovvero ragiono su come poter comunicare nelle arti visive (ma non solo) utilizzando le metodologie raccontate da Bergson: “Ridiamo tutte le volte che una persona ci da l’impressione di una cosa”. Tutto ciò che è comico nasce da un dramma, da un vissuto reale, e si sviluppa nella ricerca del comunicare a un pubblico il più vasto possibile in maniera fluida e inclusiva attraverso le tecniche più disparate, dare appunto l’impressione di qualcosa di conosciuto, proponendone l’alternativa. Ogni tipo di spettacolarizzazione lavora in questo modo. Calcinculo è una serie di installazioni che racconta la tecnica del calcio in culo per raggiungere il premio nella giostra delle catenelle. Né più né meno. L’opera demistifica le accezioni negative del calcio in culo e tenta di riportarci nella versione divertita del gesto. Il punto di vista alternativo diventa quindi quello che si usa chiamare “furbata”, ma se fosse invece il colpo del genio funzionale? Mi affascinano molto gli stereotipi linguistici, i significati che nel tempo sono stati depotenziati e ridicolizzati, il reietto e lo storpiato, il folle e il suo vagabondare, i dettagli dimenticati dalle nostre nuove abitudini.

I Musicanti di Brema sono l’asino, il cane, il gatto e il gallo, tutti protagonisti della fiaba dei Fratelli Grimm ripensati secondo un immaginario di emoticons. Osservando questo lavoro horivisto Animal Farm di Orwell, dove determinati personaggi dalle caratteristiche fiabesche denunciano e criticano fortemente un sistema politico. L’opera in mostra ha anche una componente carica disatira politica?

Assolutamente, come la fiaba citata dalle emoji d’altronde. In quel caso la morale era più o meno “l’unione fa la forza”. Ho scelto di utilizzare le emoji come riferimento alla fast communication, una delle prime cause per cui sembriamo tutti più soli legittimando comportamenti tossici come il ghosting online e il niceness nella vita reale. Se pensi poi che l’emoticon è nata per la comunicazione aziendale con il fine di velocizzare la produzione, in qualche modo possiamo riconoscere queste simpatiche immagini come un simbolo del nostro nuovo modo di interagire con le persone. Questa fiaba è già stata utilizzata più volte nell’arte contemporanea, mi divertiva aggiungermi alla lunga lista, e nel farlo, utilizzare un medium come Instagram. I musicanti di Brema è stata infatti costruita partendo dalla blank page di una storia Instagram, utilizzando un cavallo al posto dell’asino. Il riferimento poi è abbastanza diretto, gli animali narrati dai fratelli Grimm precari e insicuri trovavano la soluzione nelle loro caratteristiche personali e nel gruppo; ovviamente, date queste premesse l’intento è quello di fare dell’ironia nel paragonarci al lieto fine del gruppo sopra citato, il cavallo poi, fingendosi asino, si assume pure il ruolo dell’impostore. Credo ci siano tutti gli ingredienti per una satira, si. 

Ultimi progetti?

In questo momento per SUPERBLAST, la residenza di NAM Manifattura Tabacchi sto lavorando a un progetto intitolato Fenomenoche continua in questa direzione e ragiona sulle dinamiche reputazionali. Si svilupperà in tre installazioni ed è l’eco di queste ultime produzioni.