In occasione della mostra Mezza Luce – curata da Andrea Tinterri e Luca Zuccala, presso Lampo – Scalo Farini a Milano, fino al 3 dicembre 2023 – Mauro Zanchi ha intervistato Mattia Balsamini. La mostra, ripercorrendo la produzione degli ultimi anni dell’artista, mette a fuoco quelle che sono i temi ricorsi della sua ricerca.
Mauro Zanchi: In Protege Noctem (2023) indaghi l’inquinamento luminoso e la conseguente alterazione del buio notturno. Cosa hai reso visibile (o udibile o toccabile) in questo viaggio negato nel cuore della tenebra violata?
Mattia Balsamini:È stato un lavoro in cui si è reso necessario procedere per photo opportunities create ad hoc– contrariamente alla natura apparentemente reportagistica del lavoro. Con il giornalista e coautore Raffaele Panizza abbiamo operato una ricerca per settori nei vari ambiti in cui questo tipo di inquinamento luminoso rifletteva i suoi aspetti più nocivi, analizzando dapprima i problemi, per arrivare ad alcune iniziali soluzioni in campo urbanistico, sociale e medico. Per rendere visibile l’invisibile abbiamo lavorato ricostruendo quindi un puzzle, per il quale è stato fondamentale scegliere (e accettare) che i registri stilistici avrebbero dovuto per forza variare a seconda del soggetto, attraversando la fotografia documentaria in bianco e nero, l’immagine satellitare commissionata, la fotografia naturalistica, lo still life. Le situazioni rappresentate sono tutte fedeli alla realtà, si verificavano naturalmente sul nostro percorso, ma c’è una componente di staged photography che riguarda il nostro andarle a scegliere selettivamente, operando una narrazione gestita quasi come una regia.
MZ: Dall’invenzione della corrente elettrica nel XIX secolo in poi, passando dai deliri dei futuristi legati alle luci artificiali e al desiderio di uccidere il chiaro di luna, per arrivare ai miliardi di luci artificiali del nostro tempo attuale, il capitalismo ha inseguito i suoi affari trasformando il cielo notturno in un “telo sporco” e abbagliando l’ecosistema notturno. Come si può fare resistenza attiva a questa violenza reiterata?
MB: Protege Noctem testimonia, insieme alla denuncia del problema, proprio questo: l’alleanza carbonara tra scienziati e cittadini per contrastare la scomparsa della notte e delle sue creature. C’è Stefano Macchetta, guida ambientale ed escursionistica, che si comporta come un partigiano del buio e combatte la sua battaglia contro un incomprensibile faro che una struttura ricettiva della zona punta in direzione di se stessa, rischiando di annebbiare l’orizzonte. Poi l’astrofisico Alberto Cora dell’Istituto Nazionale di Astrofisica di Torino e il fisico e astrofilo Federico Pellegrino, consapevoli che oltre ad avere valore simbolico e scientifico, un cielo incontaminato può servire da importante richiamo turistico. Hanno lottato assieme. Scritto report e fatto rilevazioni. Finché le cinquemila stelle visibili dal Santuario di San Magno, nel cuore della Val Grana, provincia di Cuneo, sono state attenzionate dall’UNESCO che intende includerla tra i luoghi considerati Patrimonio astronomico dell’Umanità. In cima al colle Fauniera, altitudine duemilaquattrocento metri, lo sky quality meter ha dato risultati pari a 21.90 mag/arcsec². I medesimi livelli che si possono trovare in Namibia, patria dell’astrofotografia. O nel deserto del Cile, dove entrerà in funzione il più grande telescopio mai costruito dall’umanità.
MZ: Riprendo un passaggio suggestivo scritto da Andrea Tinterri riferendosi al tuo progetto Protege Noctem: “si nutre di forme ricorrenti che provengono dal ricordo o dalla sua illusione”. Mi piacerebbe sostare con te su questo stato liminale per comprendere più in profondità come ti rapporti con questa dimensione “altra”.
MB: Mi ricollego al concetto di ombra e penombra: il limite per me rappresenta questo, l’equilibrio tra vedere e non vedere diventa quasi il soggetto stesso dell’immagine. Per me è importante che quello che viene suggerito non sia per forza urlato o troppo dichiarato. Voglio detenere per me stesso innanzitutto, e poi per l’osservatore, questa preziosità che per ognuno risiede in sensazioni diverse guardando un’immagine.
MZ: Nella tua ricerca col medium fotografico come organizzi il caos per farlo funzionare?
MB: Credo che il frame fotografico, il rettangolo stesso entro cui la porzione di realtà abita e si sviluppa, sia già di grande aiuto. Senza scomodare la storia dell’arte e la rivoluzione quattrocentesca del fare arte o comunicare prevalentemente attraverso i rettangolo, fotografare per organizzare è un’azione a mio avviso molto intuitiva. Quindi la fotografia è sicuramente, se non innanzitutto, un discorso grafico, geometrico. Farei poi una distinzione tra destinazioni d’uso delle mie immagini. Arrivo da una scuola commerciale della fotografia, da una fotografia di scopo, finalizzata al racconto di un evento, di un processo produttivo o una persona. Questo genere di lavoro, perché di questo si tratta, generalmente viene commissionato da una società, un magazine, e porta con sé delle tematiche legate ai tempi di consegna del progetto, della velocità di turnaround delle informazioni e alla comprensione delle stesse. Lavorare per i magazine e nel mondo del corporate ha da subito improntato il mio modo di produrre fotografia in questo senso: osservando, capendo come trasformare i contenuti in un modo funzionale alla loro comprensione ad un pubblico più vasto, tramite la trasformazione, l’elaborazione concettuale e visiva. È stato (e continua ad essere) un’esercizio di grande utilità per semplificare quello che mi sta davanti. Se dovessi formalizzare una mia metodologia direi senz’altro che il primo passo è provare a capire parzialmente il caos, prima di capire come elaborarlo, concentrandomi su piccolissime e, a mio avviso, gestibili parti di esso. In una destinazione d’uso meno legata al mondo della fotografia su commissione il metodo non cambia, ma senz’altro cambiano le tempistiche. Ho dei processi di elaborazione abbastanza lenti, e se posso scegliere davvero in che modalità muovermi, preferisco farlo per tentativi indisturbati e silenziosi.
MZ: Come ti rapporti con il potere evocativo del mistero o dell’enigma? Cosa occulti nell’ombra delle tue immagini?
MB: È tutto ciò che mi interessa della fotografia, dell’immagine. Ancora prima del contenuto, sono attratto dai simboli e dalle atmosfere contenuti in un’immagine e che mi permettono di agganciarmi a ricordi e sensazioni d’infanzia. La migliore spiegazione che sono riuscito a darmi rispetto questa fascinazione verso l’ignoto è che ho, forse, un perverso desiderio di voler capire, ma non fino in fondo, altrimenti quella impalpabile magia che riveste le cose del mondo potrebbe scomparire. Temi molto presenti nel mio lavoro come la tecnologia, il concetto di lavoro come atto significante dell’uomo, gli aspetti didattici delle nostre vite, per me rappresentano appunto azioni, ma anche luoghi, uno spazio in cui ci muoviamo ed esistiamo. Credo di occuparmi di questi temi per riscoprire ciò che ho vissuto per la prima volta nella mia infanzia. La fotografia sicuramente porta nel proprio DNA l’atteggiamento poetico del non essere esaustiva. Ci sono altri mezzi per esserlo. Dentro quell’ombra ci può stare, fortunatamente, tutta l’immaginazione che vogliamo. Al contrario, nella luce non avremmo questa opportunità. È stato per me molto importante scoprire il testo di Giorgio Agamben, Che cos’è il contemporaneo? – meglio di chiunque altro è riuscito a sintetizzare come il tempo presente possa essere visibile da chi sta nel buio, al posto che nella luce. Parafrasando: “Contemporaneo è chi aderisce al proprio tempo attraverso una sfasatura e un anacronismo; non chi vede le luci del suo tempo, ma chi riesce a percepirne l’oscurità”.
MZ: Quale è l’apertura metafotografica che è presente in Protege Noctem?
MB: Protege Noctem è un lavoro leggibile come meta-fotografico per la necessità che lo hanno mosso. La lettura multi-sfaccettata dei problemi causati dall’inquinamento luminoso globale è avvenuta tramite diversi registri stilistici. In particolare esistono nel lavoro svariate immagini che ho commissionato ad astrofotografi, sostituendo il loro expertise e le loro attrezzature ai miei occhi (e macchine fotografiche), che non sarebbero altrimenti state in grado di restituire correttamente i soggetti che intendevo rappresentare. Oltre a queste, esistono alcune immagini composite provenienti da satelliti privati che sono state unite digitalmente da istituti di ricerca per mostrare lo stato attuale dell’Europa notturna. Accettare che sarebbe stato necessario delegare parte del lavoro a “fornitori” esterni, è stata una svolta importante nel procedere del progetto. Nel dialogo tra queste immagini e quelle da me realizzate credo si sviluppi la giusta verticalità rappresentativa del tema.
MZ: Attraverso In Search of Appropriate Images (2020-2021) come agisce la penombra, nei momenti in cui avvolge spazi geografici, ricordi, forme?
MB: Il libro contiene un mescolarsi di fotografia di paesaggio, forme astratte, libri e materiali riproposti meta-fotograficamente dal mio archivio, brevi brani diaristici tratti da un piccolo taccuino. Alcune immagini sono state scattate durante il primo lockdown, nel marzo del 2020, che ho avuto la fortuna di trascorrere in una casa in mezzo ai campi. Al crepuscolo partivo per lunghissime passeggiate di chilometri: c’era questa idea di guardare con occhi nuovi delle cose che per anni ho visto tutti i giorni e che ho cercato di trasfigurare rendendole casalinghe ma sinistre, pastose, drammatiche ma accoglienti, sfruttando le forme elementari – cerchi, rettangoli – che trovavo nel paesaggio. Le immagini d’archivio scattate nel corso degli anni entrano nella storia come dei flashback di memoria. Le altre sono appunti che prendevo in quel periodo o immagini da altri libri che hanno dato forma alla profondità del sentimento che mi ha portato a realizzare le nuove fotografie. C’è un grande limite percepito nel mezzo fotografico, che è quello di fotografare “cose”. Quello che ho cercato di fare in In Search of Appropriate Images nelle foto nuove è proprio creare il senso di una porta da attraversare, non a caso oltre ai cerchi e ai rettangoli il tema ricorrente sono questa specie di portali, ci sono diverse porte nel libro, sia fisicamente sia concettualmente.
MZ: In Toddler, il ritorno su materiali del progetto precedente cosa ha messo in azione a distanza di spazio e di tempo? Quali cortocircuiti hai innescato?
MB: Durante il confronto nel talk a Galleria Lampo durante la mostra Mezza Luce hai usato più volte il termine “riattivazione” – credo che in questo caso sia particolarmente indicato. Nel caso di Toddler, realizzato con gli stessi materiali di In Search of Appropriate Images, nel ricercare una trasformazione da elementi che conoscevo, è in realtà avvenuta una sintesi concettuale. Questi solidi di legno rappresentavano già per me un dispositivo di attivazione della memoria (il loro carattere didattico, giocoso), ma in questo lavoro è avvenuto un secondo passaggio, una seconda riattivazione. Paradossalmente nella ricerca di essenzialità a cui il titolo stesso fa riferimento. In realtà le cose si sono complicate, e l’output risulta più elaborato dell’input iniziale.
MZ: Ora ti pongo tre domande riferite a suggestioni nate mentre stavo leggendo altre interviste o legate ad altri tuoi progetti. Lingeri – ovvero la restituzione del modello in scala del Danteum progettato da Lingeri e Terragni, con interventi scultorei di Sironi – è un’opera dedicata a qualcosa che non è mai stato realizzato. Mi intriga questo riuso di materiale pensato, di idee che non hanno avuto la traduzione materiale. Come hai lavorato su questa promessa non mantenuta, ovvero sulla non materializzazione del testo letterario La Divina Commedia, di cui peraltro rimangono poche testimonianze? Cosa rappresenta per te la proiezione di una mancanza?
MB: La storia del Danteum e successivamente quella del modello stesso del Danteum è permeata da un costante senso di negazione e assenza. Ho deciso di lavorare proprio su questo. Ho fotografato il modello nella casa in cui era custodito, a Bolvedro sul Lago di Como, prima che venisse trasportato alla Triennale di Milano come unica prova tridimensionale della sua progettazione. Il modello era riposto in una enorme cassa di legno che portava i segni di tutti i viaggi che aveva compiuto per essere esposto in giro per il mondo. Si presentava inaccessibile alla vista, nonostante la possibilità di avvicinarcisi. Lo sguardo era come se non riuscisse mai veramente a penetrare – tutto questo mi sembrava estremamente coerente con la sua storia. Così ho deciso di limitarmi ad una sorta di vista aerea, realizzata per settori, unendo fisicamente e in maniera imperfetta quattro diverse fotografie.
MZ: Fotografia come scarabocchio, come qualcosa che manifesta in forma semplice ed elementare la complessità di un’idea concettuale. Hai trovato il modo di fondere o accorpare in una unità le due possibilità espressive?
MB: La fotografia per me è un atto profondamente grafico, di equilibrio formale, quindi mi trovo a mio agio nell’incorporare l’imperfezione del segno manuale non intenzionale sia di altri (objet trouvé prelevato dalla realtà) sia da me realizzato. Lo scarabocchio è un’epifania, un contrappunto tra immagini più costruite e volute. Anche in questo dialogo credo ci possa essere tensione ed equilibrio che tenga in piedi interi progetti mantenendo l’osservatore interessato.
MZ: Cosa intendi quando ti riferisci a “un’idea di fotografia a cavallo tra il funzionale ed il surreale”?
MB: Credo ancora che la mia attenzione per questi temi derivi dalla mia infanzia, da quando mio padre, ingegnere specializzato in condizionamento e riscaldamento dell’aria, mi permetteva continuamente di giocare con gli strumenti della sua piccola azienda. Credo che questo ambiente abbia sviluppato la sensibilità per apprezzare la bellezza estetica della tecnologia, insieme al fascino per i processi meccanici che non riuscivo a capire e che mi affascinavano da osservare. Questo tipo di interesse ha costantemente informato i miei sforzi nel campo della fotografia. Se torno indietro con la memoria credo che la prima occasione di applicarlo per un incarico commissionato si sia verificata solo nel 2013 per una bellissima storia che sono stato incaricato di fotografare per WIRED Magazine, sullo smantellamento di un impianto di produzione di energia nucleare a Piacenza, in Italia. Il successo di questa serie mi ha spinto a insistere ancora di più e, francamente, a dedicare i successivi sette anni di lavoro principalmente a questo tipo di soggetti. Sono più ampiamente interessato a qualsiasi tipo di sforzo umano (attraverso l’azione del “lavoro”) per procedere nella vita come individui (il lavoro come modo di vivere) ma anche per migliorare la qualità della vita. È uno dei tanti aspetti del nostro mondo complesso da cui mi sento attratto. Questo accade sia per il mio lavoro personale, che a volte può essere meno didattico e più astratto, sia per il mio lavoro su commissione, che spesso tratta argomenti molto pratici. Tengo molto all’aspetto documentaristico della fotografia, anche se cerco sempre di intervenire in modo evidente su ciò che fotografo. Sento che la rappresentazione quasi veritiera di questi soggetti non mi riguarda, e che ci sono stati e ci saranno sempre autori in grado di descrivere meglio e più fedelmente ciò di cui sono testimoni. Il mio approccio è in qualche modo egoisticamente autobiografico e utile soprattutto a me stesso. Mi piace osservare, interagire e restituire visivamente ciò che mi affascina e mi spinge a capire di più. In questo senso, credo che si applichi l’idea, stereotipata ma corretta, che la fotografia non dia risposte, ma anzi crei altre domande.