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New Photography — Conversazione con tetau

tetau è un duo composto da Beatrice Zito ed Edoardo Montaccini attivo nell’ambito della ricerca visiva.  La loro indagine si basa sull’utilizzo di processi quali decostruzione e sedimentazione in quanto attuazioni di possibilità. Le situazioni create attraverso redirezionamenti e circolarità mirano a...

tetau, ⟨ ⟩, 2021, installation view
tetau, ⟨ ⟩, 2021, installation view

tetau è un duo composto da Beatrice Zito ed Edoardo Montaccini attivo nell’ambito della ricerca visiva.  La loro indagine si basa sull’utilizzo di processi quali decostruzione e sedimentazione in quanto attuazioni di possibilità. Le situazioni create attraverso redirezionamenti e circolarità mirano a destrutturare apparati, andando alla ricerca di un grado zero in sé irraggiungibile. Alla loro pratica non appartiene alcuna forma caratteristica: l’immagine a cui tendono è aniconica. (Dal loro sito tetau.it)

MZ: L’opera ⟨⟩ (2021) rende visibile una auto-decostruzione dell’immagine tecnica e degli apparati che permettono di vederla (webcam e monitor) attraverso il reciproco puntamento. Cosa avete pensato rispetto all’apparizione di quell’immagine pulsante che ha una forma aniconica in continua metamorfosi? 

BZ + EM: ⟨⟩ è una webcam integrata in un computer che inquadra la sua stessa preview duplicata su un secondo monitor tramite cavo HDMI. L’immagine pulsante scaturita da questo sistema di feedback è un’autogenesi in continuo divenire: sebbene il suo innesco sia frutto di una nostra volontà, la sua forma è acheropita, ovvero non fatta da mano umana. Questa natura “indipendente” – altra da noi – della proiezione impedisce qualsiasi lettura tesa a scovare un senso, una rappresentazione, al suo interno. Ogni tentativo di rispecchiarsi in essa è pura e semplice pareidolia: un’illusione data dalla nostra percezione, il barthesiano “lei non è lì”.
In ⟨⟩ avviene un atto di scarnificazione dell’immagine mirato a mostrare la sua nuda essenza, un significante privo di significato. Nonostante queste premesse, tradendoci, davanti alla sua prima apparizione l’abbiamo subito riempita di significati. Ci siamo ritrovati in preda a un horror vacui teso a riempire il vuoto di senso di quella medusa palpitante immersa nel blu internet; così, nell’intento di produrre un’immagine aniconica siamo comunque stati indotti a rintracciarvi delle forme già note. 

MZ: Osservando a lungo la forma pulsante di ⟨⟩ mi sono chiesto che cosa sfugga alla nostra percezione di quell’immagine di luce e in generale di ogni nuova immagine che appare e che prima non avevamo ancora visto. Cosa sfugge alla nostra percezione?

BZ+EM: Osservando la tecnica da una prospettiva strettamente antropocentrica, ci rapportiamo a essa in quanto creatori. Intuitivamente cerchiamo subito di determinare un nesso logico tra causa ed effetto, segno e referente, la cosa in sé e la sua rappresentazione. In questo caso, il redirezionamento e la decontestualizzazione di alcuni apparati tecnici tenta di mettere in crisi questa prospettiva parziale. ⟨⟩stimola il desiderio di vivisezionare la meccanica del suo funzionamento nell’umano tentativo di comprenderla e controllarla: il demiurgo è deposto dalla sua stessa creazione. L’immagine ci costringe a un atto di tracciamento attraverso tutti supporti tramite i quali è generata: la distanza tra i monitor, i loro refresh rate, l’esposizione automatica della webcam e i suoi algoritmi, i fotogrammi al secondo della preview, la latenza data dalla connessione via cavo, i reciproci riflessi, le condizioni di luce esterne e così via … Questa indagine ci immette essenzialmente nella ricostruzione interiore di un’assenza. Cerchiamo paradossalmente di giustificare qualcosa che c’è eppure non è lì. Ciò che ci sfugge in ⟨⟩ è il disvelarsi del dualismo tra compresenza e assenza presente in ogni immagine.

MZ: Attraverso prima luce (2021) avete innescato “un processo che si addentra alla ricerca del grado zero dell’immagine tecnica”. Come immaginavate questo grado zero prima di mettere in azione l’opera e cosa si è spostato nella vostra immaginazione e ricerca dopo aver tradotto formalmente la vostra prima intuizione di ciò che costituisce prima luce?

BZ+EM: L’idea di grado zero è lo spettro della nostra attuale poetica. È un concetto che costringe la schizofrenia dei nostri percorsi e che determina un modus operandi (o addirittura un modus vivendi) atto a ricercare uno stadio embrionale in cui l’immagine è amorfa, in cui le cose semplicemente non ci sono. Da qui nasce l’esigenza di realizzare prima luce: due macchine fotografiche in esposizione continua (BULB) unite alla stessa lente con un anello invertitore montate su un treppiede. I due apparati, immessi in un circolare meccanismo di decostruzione, sono lì per annullarsi a vicenda. Malgrado ciò, la negazione non è mai totale assenza. Nel caso di prima luce, così come di ⟨ ⟩, il nostro tentativo è preciso: tradurre il sintomo del reale in un innesco. Quest’ultimo aziona un meccanismo che disvela un limite invalicabile, oltre il quale non è possibile sapere cosa succede, almeno da un punto di vista percettivo-sensoriale. Questo limite è rappresentato dagli apparati stessi; le due fotocamere puntate nel reciproco buio svolgono un’azione pienamente inserita nel loro codice: scattare una fotografia in posa BULB. La durata dello scatto è ipoteticamente infinita, un tentativo. La luce in quanto elemento costitutivo della fotografia è sottratto, nel buio completo non c’è visione. Il grado zero è un angolo cieco.

MZ: Mi interessa approfondire il concetto di due obiettivi che sono posti uno di fronte all’altro e diventano una cosa sola, connessi a un’unica lente tramite anello invertitore. Cosa accade in quella soglia spaziotemporale (in quell’incontro tra due fotocamere rivolte una verso l’altra), dove l’accesso alla luce viene negato ab origine e la condizione primaria è la totale immersione nel buio?

BZ+EM: Una spiegazione potrebbe essere rintracciata attraverso un’indagine tecnica riguardante il come determinati sensori CMOS si comportano in assenza di luce e in condizioni di scatto prolungato. Ma in verità la questione che tentiamo di indagare mette in discussione questa prospettiva: una giustificazione tecnica sarebbe sufficiente? Proprio perché in prima luce non c’è nulla da vedere la ricerca di una risposta prevede la spettralità della nostra immaginazione, la si può pensare anche ad occhi chiusi. Decidendo di non mostrare alcun risultato, prima luce è la tensione di una perpétua potenza senza la certezza dell’atto.

tetau, prima luce, 2021, installation view
tetau, prima luce, 2021, installation view

MZ: Ogni nuova invenzione tecnologica crea inevitabilmente anche una nuova metafora. Le due fotocamere in esposizione continua sono anche una metafora della ricerca comune di due artisti che diventano una cosa sola rivolgendo l’occhio meccanico uno sull’altra? 

BZ+EM: Nella nostra prospettiva il significato non è una qualità che le immagini hanno. Nel rapportarci con queste ultime, visualizziamo due tendenze: da un lato, c’è la dopamina in quanto ormone della ricerca, che ci spinge alla ricostruzione dell’assenza, all’indagine e al tentativo; dall’altro, il terrore nei confronti dell’alterità, del come ogni significazione comporti necessariamente una prospettiva diversa. In maniera totalmente arbitraria le nostre opere potrebbero essere al tempo stesso rappresentazioni di un’ontologia orientata all’oggetto e metafore di una storia d’amore.

MZ: fossi tu come me io come te (2021) è un’opera fondata sulla reiterazione mirata di uno stesso gesto, che in apparenza sembra sempre identico ma che in realtà include sempre una minima o estesa differenza resa visibile dallo statuto della fotocopiatrice. Il punto di partenza è uno specchio fotocopiato. Il punto d’arrivo è un’opera al contempo scultorea (nello spessore delle 505 fotocopie che formano il libro), parte di una performance e approdo all’assenza dell’immagine (o al monocromo assoluto). Ci parlereste del processo che avete indagato attraverso questa esperienza?

BZ+EM: Sul retro del libro il testo recita: “Uno specchio è stato inserito in una fotocopiatrice e ne è stata prodotta una fotocopia. La fotocopia è stata fotocopiata a sua volta, e così via”.
In fossi tu come me io come te abbiamo deciso di giocare con l’apparato secondo il suo stesso codice. L’innesco è rappresentato da un atto metaforico, ingannevole e intuitivo: uno specchio dentro una fotocopiatrice. L’azione che abbiamo svolto è un’imposizione da parte della macchina: fare una fotocopia. È interessante in questo caso la definizione che Flusser dà di gioco, ovvero “un’attività fine a se stessa”: abbiamo solo fotocopiato giocando con l’apparato. Il gesto ripetuto è effettivamente sempre lo stesso, non siamo stati noi a far variare l’immagine; è stata lei stessa a farlo, è parte della sua morfologia. 

MZ: Ogni immagine tecnica è un’erosione?

BZ+EM: Ogni rappresentazione è un tentativo di traduzione e, necessariamente, ogni immagine dipende dalla sensibilità dell’apparato che la produce. L’erosione non è una perdita di informazione ma piuttosto il passaggio da una sensibilità a un’altra, appunto una traduzione. Nel caso di fossi tu come me io come te e vai vieni con me (appendice) il nostro gesto ripetuto afferma la volontà di immettersi all’interno del codice dell’apparato, cercando di abbandonare la nostra prospettiva di creatori. L’immagine viene asportata e depositata dallo stesso flusso che la genera, ovvero una continua trascrizione di informazioni smussate volta per volta nel reiterato passaggio da analogico a digitale. Le due opere nell’insieme fanno emergere questo processo in superficie, sulla carta.

MZ: Proviamo ad addentrarci nel valore semantico di queste due frasi: Quello che rimane è determinato da ciò che scompare. Quello che scompare è determinato da ciò che rimane.

BZ+EM: Nella nostra poetica decostruzione e sedimentazione sono processi simbiotici. Il meccanismo di erosione comprende sia la disgregazione che l’assimilazione. Dallo strato che scompare, qualcos’altro emerge in superficie. E’ realmente difficile rendere un terreno arido, c’è sempre una fertilità nel foglio bianco. 
Lo scanner della fotocopiatrice trascrive lo specchio in un file digitale che a sua volta è trascritto nuovamente in analogico attraverso carta e inchiostro. È un processo circolare che in base alla prospettiva può assumere innumerevoli significati, perfino paradossali; è proprio questa peculiarità che cerchiamo di reiterare anche tramite gli statement delle opere, sfiorando il contraddittorio.

MZ: Come mai i passaggi tra analogico e digitale risultano in una continua perdita di informazione?

BZ+EM: Tecnicamente la perdita di informazione è dovuta all’impossibilità dell’apparato di produrre una copia perfetta, una trascrizione del reale veritiera. Nuovamente per dare una spiegazione strumentale siamo costretti ad addentrarci nello strumento, scomponendolo finché possibile (luce, scanner ottico, inchiostro, rulli, testine di stampa ecc …) e disvelando la sua essenza in quando black box. La giustificazione tecnica ci porta ad avere a che fare con una comprensione parziale proprio perché al suo fondo giace il supporto in sé, il suo mero esserci, che costituisce quel limite per noi invalicabile, inaccessibile, dentro il quale inizia l’altro. La presenza stessa del supporto ci rende impossibile proseguire la nostra indagine, il nostro tracciamento. 
L’estremizzazione del continuo passaggio tra analogico e digitale, porta quindi all’emergere del supporto. La criticità che tentiamo di sollevare riguarda la ridefinizione della parola perdita. Ciò che viene percepito come un’assenza (il monocromo bianco di carta) non è altro che un pieno in potenza, virtualmente c’è tutto, insomma, una compresenza. 

tetau, fossi tu come me io come te, 2021

MZ: fossi tu come me io come te (2021) apre anche ulteriori questioni e microtemi che avete colto successivamente guardando attentamente le variazioni presenti nel libro e il montaggio video di tutte le 505 fotocopie scansionate. Cosa è emerso in seconda battuta, a posteriori e a distanza di tempo, e cosa pensate del fattore caso presente nell’opera e del numero palindromo che ha determinato di fatto la chiosa dell’atto performativo con l’apparizione della pagina completamente bianca?

BZ+EM: La componente aleatoria del nostro modus operandi affonda la sua necessità nuovamente nel dualismo tra assenza e compresenza, che in sé riguarda non solo una prospettiva sul rapporto con le immagini, ma in maniera più ampia la posizione nei confronti di una qualsiasi alterità. Il nostro tentativo è sempre rivolto verso una zona liminale, dove alcune certezze potrebbero entrare in crisi e dove ingenuamente ci chiediamo “cosa succede”. In questa zona l’interazione con gli apparati diviene un’attività fine a sé stessa, un’ozioso gioco in cui questi ultimi sono costretti a una finalità improduttiva, o meglio, a una  disfunzionalità generativa; e noi, in quanto esseri umani, ci ritroviamo di fronte all’evidenza che una cosa costruita da noi e per noi stessi ci è inesorabilmente estranea. Questo limite comporta quindi due morti: la prima è quella della nostra prospettiva in quanto creatori, la seconda riguarda l’immagine in quanto apparato portatore di senso. In fossi tu come me io come te le 505 pagine non sono altro che l’indice della persistenza spettrale dell’immagine: il libro in sé è la sua tomba, lo scolo di inchiostro al vivo delle pagine ne è l’epitaffio.

MZ: vai, vieni con me (2021) è un libro d’artista in unica copia, che avete pensato come appendice (ma non solo) di fossi tu come me io come te e come omaggio a Ian Burn. In questo altro passaggio cosa avete colto?

BZ+EM: vai, vieni con me è l’indice di una circolarità. È stato ideato in quanto appendice per sorreggere il peso scultoreo e mortifero di fossi tu come me io come te. Il testo sul retro copertina recita: “La fotocopiatrice è stata azionata in assenza di fogli sullo scanner. Una fotocopia è stata prodotta. La fotocopia è stata fotocopiata a sua volta, e così via per 101 volte.” Tramite il rapporto che i due libri instaurano, il monocromo di carta diviene al tempo stesso la traccia di una sparizione e la potenzialità di un’apparizione; l’idea per la quale, proprio perché non esiste vuoto, tutto è potenzialmente pieno. Questo processo è però solo accennato attraverso 101 fotocopie (una in più rispetto all’azione identica realizzata da Ian Burn nel suo Xerox Book #1 del 1968). La circolarità iniziata con fossi tu come me io come te rimane aperta, non c’è un secondo monocromo nero, nuovamente non c’è un vero e proprio “risultato”. 

MZ: Cosa significa per voi il termine “ritualità”, legato a un processo ripetitivo e dove l’apparato è spinto ad agire contro il suo stesso codice?

BZ+EM: Intendiamo come rito un gesto che tramite la sua ripetizione determina un disvelamento. Prendendo il codice della fotocopiatrice come prassi rituale, non facciamo altro che accettarne la compresenza, lei è lì con noi. La reiterazione del codice, ovvero, fare una fotocopia, funge così da esorcismo nei confronti dello spettro nella macchina, facendo emergere il suo stesso automatismo. Non si tratta di far apparire qualcosa che non c’era ma piuttosto di disvelare una persistenza. Il rito in questo caso non è direzionato a una trascendenza ma piuttosto verso un’assenza che è in sé puro scaturire. Il rapporto che si sviluppa non è tanto tanto metafisico quanto profondamente legato alla corporeità di tutti gli apparati in gioco. 

MZ: Ci parlereste dell’imperduto e della sedimentazione di una immagine?

BZ+EM: L’utilizzo della parola imperduto tenta di rappresentare la materialità che persiste dopo la scomparsa del significato. Ogni metafora, ogni simbolo, ogni somiglianza, in fondo, si infrange contro la corporeità dei supporti. fossi tu come me io come te e vai, vieni con me esemplificano questo processo in una circolarità. Vuoto e pieno perdono di senso, ci sono solo carta e inchiostro simultaneamente in ogni punto, decostruzione è necessariamente anche sedimentazione e viceversa. Quando il supporto si mostra nella sua purezza, ovvero il monocromo bianco di carta, si realizza la potenzialità più disarmante. Quest’ultimo diviene quindi al tempo stesso assenza, in quanto indice dell’immagine che non è lì, e compresenza in quanto supporto opaco senza il quale l’immagine non sarebbe possibile. 

MZ: Oltre al vostro lavoro in coppia, attraverso tetau vi confrontate anche con altre voci e visioni. Avete anche costituito una parallela ricerca con un collettivo. Cosa è emerso da questa altra apertura?

BZ+EM: Il collettivo a cui ti riferisci si chiama 1gFeU e si tratta nuovamente di una situazione che è stata semplicemente innescata, almeno inizialmente, senza fini predefiniti. A formare il collettivo siamo in otto con background inerenti alle immagini, al testo, al suono e allo spazio. Ad ora ci vediamo principalmente online e occasionalmente ci ritiriamo nell’entroterra delle Marche. L’idea perlomeno parziale è che il collettivo funga da playground teorico comune, dal quale le singole individualità possano attingere per poi sviluppare insieme nuovi progetti.
Ci stiamo muovendo nello sperimentare modalità di ricerca comunitaria che comprendano un interscambio continuo, mettendo in discussione le nostre posizioni di partenza e rendendo tutte le prospettive vicendevolmente contaminate.
Una tra le discussioni in atto riguarda anche il rapporto che il collettivo vuole intrattenere con “l’esterno”, infatti la nostra presenza sia digitale che analogica è ancora sotto un’attenta analisi. 
Non sappiamo dire se di qui a breve ci disveleremo.

tetau, vai, vieni con me, 2021