L’attrazione per un’architettura umanizzata, vedente e desiderante pare caratterizzare la ricerca di Monica Bonvicini. Il desiderio di mettere a nudo l’essenza delle cose, o meglio, di avviare una riflessione sulla loro natura strutturale, asciutta e spesso anonima — ma non per questo priva di un’estetica propria, che si direbbe plasmata sull’assuefazione del nostro sguardo — risulta in lei dominante. Le modalità con cui l’artista entra in contatto con il reale sono sia di metodo, sia di contatto. L’apparente trasparenza del suo lavoro dipende dalla chiarezza ideologica che ne muove la ricerca e che genera una coincidenza “disillusa” tra contenuto e metodologia. D’altro canto, se in ciò sembra prevalere un approccio teorico, che non a caso si coagula in lavori di superficie quali la fotografia, tutta un’altra gamma di operazioni pone al centro la pelle dei materiali, il loro intreccio e l’interazione tra superfici eterogenee.
La personale di Monica Bonvicini As Walls Keep Shifting ospitata presso le OGR di Torino a cura di Nicola Ricciardi e Samuele Piazza — e “preceduta” dal notevole percorso monografico dedicato all’artista dalla Galleria Raffaella Cortese di Milano, in corso fino al 23/11 — si realizza in un’esperienza immersiva tra i recessi di uno spazio liscio. Non prettamente visivo, mai necessariamente contemplativo: il display orchestrato dall’artista, in cui i lavori s’incastrano tra loro assecondando gli equilibri di una quinta scenica spaccata a metà – costruzione prospettica favorita dall’impiego di luci teatrali – chiama in causa il corpo del fruitore in quanto medium. Il “con-tatto” di Derrida, se da un lato prevede la separazione di occhio e sguardo, dall’altro implica una conoscenza chiastica del reale in cui le tradizionali opposizioni di vista e tatto, visibilità e invisibilità vengono a decadere. E i dispositivi di Monica Bonvicini — intendendo qui il termine dispositivo nell’accezione foucaultiana di organismo che connette e istituisce relazioni di potere eterogenee — si attivano proprio grazie allo sguardo incarnato dello spettatore. Ciò risulta particolarmente evidente guardando alla costruzione site-specific progettata per l’esposizione: lo scheletro reciso in scala reale (10 m. x 8 m. x 8 m.) di un’abitazione bifamiliare, modulo ricorrente nell’architettura del Nord Italia tra gli anni Sessanta e i Settanta.
Il visitatore può percorrere il perimetro dello stabile senza averne formalmente accesso; il visitatore può altresì decidere di abbandonarsi impunemente al desiderio voyeuristico di sbirciare attraverso le sue griglie lignee, repliche incerte di muri portanti e pareti divisorie. Di fatto la funzione coercitiva del dispositivo architettonico sembrerebbe azzerata in favore di una trasparenza diffusa.
Verrebbe da credere che, così facendo, la distinzione tra interno ed esterno possa considerarsi definitivamente neutralizzata. Eppure, una distinzione permane, sotto mentite spoglie e in forma dialogica. Così, le membrane spoglie di Bonvicini, che rimandano ad uno scenario collettivo, si fanno contenitore delle opere realizzata dall’artista stessa e, per un procedimento metonimico, delle relazioni intessute dall’artista stessa.
Come in Robert Gober l’architettura esiste in funzione del corpo, pur venendo negato nel caso di Bonvicini l’esperienza diretta di esso.
La tensione reificante del Minimalismo — che qui potrebbe essere rievocata in riferimento alle strutture modulari di Judd o Lewitt — pulsa di un afflato “carnale”: la superficie intrecciata di Belted Flat (2019) che protegge corpi nudi, il calco in vetro di Murano di due mani che si stringono di Up in Arms (2019). Ciò che rimane della concezione modernista del reale è ridotto ad un groviglio accecante di luci fluorescenti e cavi sparsi in White Out (2019).
In chiusura, dall’impianto architettonico colto nella sua essenza strutturale si giunge al fermo-immagine, l’atlante familiare, locale ed essenziale nel suo essere sistemico. La selezione cristallina operata da Dan Graham nella serie Homes for America, realizzata nel biennio ’66-67, riecheggia in Italian Homes di Bonvicini, datata al 2019 e presentata per la prima volta nella sua interezza (34 scatti). Il un movimento incessante che dal globale (l’architettura), vortica in uno spazio espanso per quanto circoscritto (il regionale) per fermentare da ultimo nel particolare (la vita domestica delle persone) trova la propria traccia nella dimensione più emblematica dell’oggi: la superficie.
MONICA BONVICINI, AS WALLS KEEP SHIFTING
A cura di Nicola Ricciardi con Samuele Piazza
31 ottobre 2019 – 9 febbraio 2020
BINARIO 1
OGR – Officine Grandi Riparazioni, Torino