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“Una necessità di meraviglia e stupore” | Intervista con Chiara Camoni

"Tendenzialmente noi facciamo delle cose per trovare un senso, no? Un senso alla nostra vita, alla nostra giornata. Al nostro tempo, insomma. E per me questo senso passa attraverso il Fare, il dare forma a delle cose. Sembra che le forme arrivino da lontano, non solo dal passato storico ma anche da dentro di me."

Testo di Clarissa Virgilio

La strada per arrivare a Fabbiano, paese in cui da ormai diciotto anni vive l’artista Chiara Camoni (1974, Piacenza) insieme al marito Luca Bertolo (anche lui pittore), è un avvolgersi di curve sul pendio di una montagna delle alpi Apuane. Proprio in prossimità del cartello stradale che indica l’arrivo in paese, una cascata si getta sotto il ciglio di uno dei tornanti. Sto varcando una soglia, un concetto che non è nuovo ai lavori di Chiara, molti dei quali sono visitabili nella retrospettiva a lei dedicata presso Pirelli HangarBicocca dal 9 febbraio al 21 luglio 2024. Non sono due leonesse in pietra leccese a darmi il benvenuto, ma una natura vitale, rigogliosa nonostante l’inverno non sia ancora totalmente trascorso. L’influsso del mare, su cui le Alpi cadono a picco, fa sì che nei paesi situati ad una certa altitudine, come Fabbiano, non arrivi mai la neve. Chiara mi viene incontro con Bruno, il suo cane: l’ho già visto prima, scolpito nell’alluminio a Milano. Chiara mi fa iniziare il suo Studio Visit nel suo più grande spazio di stoccaggio, la distesa d’erba in cima al paese. Lì raccoglie i fiori la cui sagoma viene impressa sui veli di Arazzi, o posti nella testa della sua più famosa e longeva serie, le Sisters. Dal promontorio che gli abitanti chiamano “La croce” guardiamo la montagna di fronte a noi, scavata in blocchi da una compagnia di estrazione del marmo. Chiara mi racconta che anche a Fabbiano c’era stata una cava: ora restano soltanto detriti e qualche blocco di marmo sbozzato divorato dal muschio. “È il confine tra l’antropizzazione e la natura a colpirmi”, mi dice Chiara mentre mi mostra “Il magazzino”: si tratta di un cumulo di pietre, in cui spesso Chiara scova vecchi pezzi di ferro, biciclette arrugginite, lavatrici rotte gettate lì senza cura. Questo ferro non è altro che lo scheletro di molte delle sue Sisters. Dal promontorio osserviamo il mare. Chiara mi racconta che nei primi tempi in Versilia la verticalità del paese veniva smussata da quella linea d’acqua orizzontale mutevole, in cui si scorgevano persino le isole toscane nelle giornate più limpide. Chiara ha studiato e vissuto per molto tempo a Milano; la decisione di spostarsi era necessaria. Sentiva che un ciclo della sua vita si era chiuso. Con Luca si sono trasferiti a Fabbiano, ma non pensavano che sarebbe stato per sempre. 

La casa di Chiara Camoni è un labirintico atelier: opere di amici ed amiche artiste colorano le pareti, un forno per ceramiche a forma di sedia è appeso all’armadio della camera da letto. Chiara mi racconta che ogni giorno quando apre le finestre si ferma a guardare una fotografia della sua amica e artista Alessandra Spranzi (1962, Milano): in un’epoca di saturazione delle immagini come quella attuale, Alessandra realizza la foto di una foto (in questo caso un annuncio sul giornale che segnala la vendita di alcuni parrocchetti). Non getta nel mondo un’altra immagine, ma ferma tempo e spazio riproducendo una riproduzione. Nel giardino, su un tavolo, una corona di fiori ad essiccare che sarà parte del corpo di uno dei suoi Serpenti. In cucina, sul frigorifero, la testa della prossima Sister, accanto ad un vaso di fiori. Ci sediamo per un caffè, le tazze in cui bevo le ho fotografate incantata in HangarBicocca. 

CV: Hai sempre parlato, anche nella presentazione della mostra in Hangar, del tuo legame con la Storia. In un tuo scritto parlavi proprio delle botteghe degli artigiani, dove spesso la statua attribuita a dato scultore è stata realizzata anche da altre persone che lavoravano con lui. Penso a Carrozzone, forse la mia installazione preferita esposta in mostra. Nella sua realizzazione hai coinvolto molte persone: è stata una scelta dettata da un amore per le pratiche artistiche della Storia dell’arte oppure si è trattato di un processo creativo naturalmente collettivo? 

CC: A dirla tutta, per me c’è una necessità di meraviglia e di stupore che deve gratificare me per prima, più ancora che il pubblico. La verità è questa, ma così spesso accade che la collaborazione con altre persone mi porti in direzioni non contemplate. Io mi prendo cura di un processo, ci sono, lo preparo, lo avvio, lo seguo, lo concludo. Però sono l’intervento di mani esterne, l’imprevisto, il cambio di direzioni, le cose che fanno sì che alla fine il lavoro compaia anche a me stessa come non me l’ero nemmeno immaginato. Carrozzone è nato così, senza progetto. Ho cercato le ruote, da un vecchio carretto che ho trovato a Reggio Emilia e poi, pezzo dopo pezzo abbiamo iniziato ad assemblare. Vecchi lavori miei, certo; ma poi ognuno ha portato oggetti propri, scatole, cassetti, e piano piano abbiamo iniziato a tagliare, segare, assemblare, avvitare, rismontare e riaggiungere. Una follia se vuoi, nel senso che non c’è niente di architettonicamente strutturato, però non è nemmeno un’installazione semplice: dentro c’è una camera oscura per vedere il mondo al contrario, ci sono una serie di meccanismi che si muovono, che si aprono, che si possono toccare. A volte Carrozzone accoglie anche collezioni: in questo caso (Per l’esposizione “Chiamare a raduno”, nda) noi abbiamo messo tanti vasi, però altre volte è stato usato come se fosse un piccolo museo, esponendo opere di altri artisti. È nato insieme a questo gruppo di ragazzi che vedrai oggi, e con qualcun altro che era in transito. 

Open Studio – Lo scarto inconfessabile_, 2023, Chiara Camoni & Il Centro di Sperimentazione, video still Camilla Maria Santini
Glazing experiments, 2024, ph Clarissa Virgilio
Ciotole, work in progress, 2020, Chiara Camoni, video still Camilla Maria Santini

CV: Tutti artisti? 

CC: Assolutamente no. Elisa (Zaninoni) è stata cuoca e adesso lavora come psicoterapeuta. Sandra (Burchi) viene spesso da me, e lei ha una formazione filosofica. È tutto molto variegato e, secondo me, è interessante anche per questo. A volte sono laboratori per cui firmo “Chiara Camoni e i partecipanti del laboratorio…”; altre volte però il gruppo non era descrivibile, formato da persone senza una cornice possibile. È stato allora che ho cominciato a parlare di “Centro di sperimentazione”, che è una cosa molto ironica, anche perché sembra scientifica, ma in realtà è veramente molto goffa come situazione e procede senza una linea direttrice. È un gruppo formato apparentemente senza una logica, per aggregazione spontanea mi verrebbe da dire, a cui si uniscono poi le persone che magari transitano qua per un certo periodo, che in un progetto decidono di entrare e seguirlo. È tutto molto instabile però è proprio questo il suo bello, perché quello che succede è che chi arriva da fuori, anche se entra magari in maniera molto delicata, un segno lo lascia. Una delle primissime ragazze che era venuta a fare uno stage mi parlò della stampa vegetale. E da lì abbiamo iniziato a fare approfondimento e ricerca. Oppure la Burning Sister è nata scherzando con Lorenzo, che è un personaggio. (ride) Lui ha questa mania del fuoco. C’è un concetto che riassume tutto questo, elaborato dalla filosofa femminista Chiara Zamboni: lei ha descritto una cosa che si chiama pensare in presenza, che è un modo di pensare completamente diverso da quello che abbiamo quando siamo da soli e seguiamo una concatenazione logica. Con più persone e si pensa insieme ad alta voce, per cui io butto una cosa a cui tu aggiungi un’altra che mi ritorna indietro, è come se la lavorassimo insieme quest’idea. 

CV: È un telefono senza fili. 

CC: Esatto. E quindi tante cose nascono anche in maniera molto giocosa. Nel dialogo con le persone che ho vicino a volte è molto pratico, altre volte più teorico. Ad esempio, c’è una delle mie amiche più care, è una curatrice che si chiama Cecilia Canziani, che è di Roma, con cui ho allestito tantissime mostre. In estate si prende una casa in affitto, passiamo un mese insieme. C’è un tempo per stare che non è quello dello studio visit. Abbiamo tempo per leggere, per chiacchierare, per cenare, per vedere come nascono le cose. E di nuovo, per assurdo, vivendo qui isolata ho potuto avere studio visit più intensi di quando abitavo a Milano. Perché è come è successo per te: prendi la macchina, vieni e ti prendi una giornata intera. Non è l’ora ritagliata tra un opening e un’altra, per cui corri da un’artista, vedi due cose e già devi scappare perché stai già perdendo qualcos’altro. E in più per venire qui il desiderio deve essere forte, però è sempre molto più intenso, fruttuoso. 

CV: Vorrei tornare per un attimo indietro, al momento della creazione artistica. Tu lavori quasi esclusivamente a colombino, senza il tornio. È sempre un richiamo che senti dal passato? 

CC: Ad oggi credo di aver ormai realizzato centinaia di vasi, e anche quella (indica la testa della Sisters sul frigorifero) è tirata su con quello stesso principio. Questo gesto a spirale è un gesto di costruzione del mondo intero. Per me con quella cosa lì inizia a salire e la sensazione è quella che tu stia tirando su l’universo, anche se è un ciotolino grande così. Ed è un gesto che non mi stanca mai, posso continuare a compierlo all’infinito. 

CV: “Sul perché in natura tutto avvolge a sinistra”. (riferimento all’opera di Camoni in terracotta azzurra, 2012 – in mostra presso Pirelli HangarBicocca, nda

CC: Esatto! È un gesto degli Inizi, un atto fondativo. E salendo crea forma, costruisce pieno e vuoto. La manualità per me è fondamentale, un po’ anche perché tante volte non so neanche cosa stia facendo (ride). Inizio a tirare su e poi arriva la forma. Il rapporto con l’intangibile, con l’Indicibile, per me passa attraverso la materia. Sembra un paradosso, però toccando mi sembra di arrivare in quelle zone di cui poi è difficile parlare. La materia ti apre un varco. 

CV: è come il “neutro” della “passione secondo G.H.” di Clarice Lispector, a cui hai dedicato un mosaico pavimentale. In un tuo vecchio testo hai scritto, parlando di un orso di creta modellato da un bambino: “quel pezzo di Creta è un pezzo di Creta, un orso, un guerriero, l’universo intero, un pezzo di Creta”. Questo mi ha fatto pensare immediatamente a un passo del testo di Lispector: “cos’è quel tutto? È un pezzo di cosa, un pezzo di ferro, di argilla, di vetro. Mi sono detta, guarda un po’ per cosa ho lottato, per avere esattamente quanto avevo. Già prima il tesoro era un pezzo di metallo, era un pezzo di calcio di parete ed era un pezzo di materia sotto forma di blatta”. 

CC: Non lo avevo mai notato. Quel testo l’ho scritto molti anni fa, in riferimento a come lavorano i bambini. Però è vero, alla fine il modo di lavorare dei bambini è esattamente come la creazione dell’universo, con lo stesso grado di spontaneità. Che bella questa associazione. Sì, è così. 

CV: Tu parlavi del bambino che costruisce l’orso. Il tuo Atto creativo in che relazione si pone con quell’ingenuità del bambino? 
CC: Io non parto mai dall’arte contemporanea. Poi in quanto artista, e artista che lavora Oggi, ho una visione dell’arte contemporanea, di un contesto, di codici. Istituzioni di collocazione di quello che io faccio all’interno di un sistema di cose. Tendenzialmente noi facciamo delle cose per trovare un senso, no? Un senso alla nostra vita, alla nostra giornata. Al nostro tempo, insomma. E per me questo senso passa attraverso il Fare, il dare forma a delle cose. Sembra che le forme arrivino da lontano, non solo dal passato storico ma anche da dentro di me. Hanno più a che fare con l’inconscio che con il ragionamento. C’è sicuramente una relazione con il gioco dell’infanzia, e penso che molti artisti ed artiste altro non facciano che prolungare fuori tempo massimo questa dimensione del gioco. Probabilmente io ho una voracità di creazione, mi piace un sacco (ride). Banalmente, la mia giornata comincia e non vedo l’ora di mettermi al lavoro. 

CV: Un’altra cosa interessante che ho notato è il fatto che tu lavori quasi sempre in serie. Quand’è che dici “basta”? 
CC: Quando si chiudono dei cicli, semplicemente non mi viene più voglia di andare avanti. In Hangar le due opere uniche erano i due cani là in fondo (riferimento a Cani (Bruno e Tre), 2024). E comunque erano due, una coppia. Io credo che la mia necessità di creare in serie sia dovuta all’impossibilità che io sento di un’affermazione certa: rispetto al tempo che viviamo, a questo momento storico, o forse anche alla mia vita, l’affermazione monolitica di certezza di un pezzo unico compatto io non ce l’ho. Secondo me la serie è qualcosa di femminile. È più mutevole e meno perentoria, ma questo la rende polisemica. Cioè, è questo, ma è anche così, ma è anche un’altra cosa. Sono tutte possibilità. 

Landscape in Fabbiano (C), 2024, ph Clarissa Virgilio
landscape in Fabbiano (B), 2024, ph Clarissa Virgilio
landscape in Fabbiano (D), 2024, ph Clarissa Virgilio

CV: Ritorno di nuovo sul processo creativo. Quando esponi, per te è importante che lo spettatore sappia tutto quello che c’è dietro all’opera finita? 

CC: È fondamentale. Abbiamo appena terminato di redigere il catalogo per HangarBicocca, che verrà presentato fra non molto. Per metà è realizzato dalle foto delle opere, ma l’altra metà sono tutte fotografie del processo allestitivo. Voglio che si percepiscano le opere che si coagulano intorno allo spettatore nello spazio. Ci sono dei momenti che appartengono al processo di creazione e che poi sono destinati a scomparire perché le cose vanno avanti, si trasformano, ma che hanno un’intensità paragonabile a quella dell’opera. Quindi c’è bisogno che siano visti. È una questione complicata perché l’opera ha la sua indipendenza, poi si stacca da me e va nel mondo. Quindi lei si basta, non ha bisogno né di un prima né di un dopo; lei si basta però tutto quello che accade durante, e che io sento così intenso – forse perché per sua natura effimero – deve essere testimoniato. E un gesto visto da più di una persona esiste. Questo è anche uno dei motivi per cui allargo il mio gruppo di lavoro: se non sono da sola e siamo in cinque magari a vederlo, allora quel momento esiste, esiste davvero e noi ne teniamo traccia. Questo è legato anche al pensiero di Carla Lonzi e dei primi manifesti femministi. Tra le varie cose bellissime che diceva, c’era la rivendicazione di una storia costruita su tracce deperibili. Vogliamo una storia che non sia solo di tracce indeperibili, non vogliamo solo la Storia maggiore, quella ufficiale, quella degli uomini, quella delle istituzioni. C’è una storia che 

corre a lato, che è fatta di momenti, dati da uno stare insieme, dallo Stare di un corpo accanto ad un altro. Momenti che non entrano nella storia ufficiale, perché ci hanno escluse o anche perché c’ una tale specificità che è difficile da raccontare. C’è qualcosa nel processo creativo che io sento essere irrinunciabile, molto femminile, perché lì c’è proprio una specificità del lavoro delle artiste donne. Poi è chiaro, il mio lavoro entra nell’Istituzione, nell’apparato maschile. Vogliamo anche quello. Però è come se in questi ultimi anni mi fosse stato sempre più chiaro. E c’è una cosa che fa parte sempre di quel neutro, di quella blatta schiacciata, di quella rivelazione, che risiede proprio nel processo creativo.
Il tempo per restare in casa è finito. Insieme riscendiamo i tornanti della montagna, varchiamo la soglia superando la cascata e ritorniamo nel mondo prima di Fabbiano. Siamo a Solaio, vicino a Pietrasanta. Lo studio di Chiara è avvolto, come la sua casa, dal verde. Conosco alcune delle persone che collaborano con lei: Elisa Zaninoni, Lorenzo Bottari, Camilla Maria Santini, Andrea Marinucci, Elisa Conti, Alice Ippolito, Paola Aringes. In piedi intorno a un tavolo, tutti insieme stanno realizzando con l’argilla quelli che saranno i ciondoli che formeranno la collana della prossima Sister. Mi unisco a loro. Avverto in maniera tangibile la loro unione, forse è proprio questo pensare in presenza. Chiara mi mostra i tappeti che tesse con Paola: riproducono le squame di un serpente. In un armadio a vetri sono conservate ciotoline in gres con esperimenti di smaltatura realizzati con la terra. Per pranzo ci raggiunge Sandra Burchi, teorica femminista che spesso collabora con Chiara. Torniamo a riflettere sul processo di creazione artistica, sulla differenza fra tracce deperibili ed indeperibili. 

CV: Si parlava sia prima a casa di Chiara che adesso del concetto di effimero; Chiara, tu parli di caducità anche in uno dei tuoi testi, “Mefite”. Qual è il rapporto della tua arte con la morte? Non direi che la vedi come una Fine, sempre pensando a Burning Sister, le cui ceneri sono state utilizzate per smaltare un set di piatti e collane. Mi viene da pensare che l’idea sia più quella di un ciclo di rigenerazione eterna. 

CC: C’è un aspetto particolare, secondo me in tutte le Sisters: sono molto belle, ma danno anche paura, hanno un’espressione affascinante ma inquietante, forse allo stesso modo in cui ce l’hanno tutte le Grandi madri del passato e chi lo sa, tutte le donne. In loro la relazione tra la vita e la morte è fortissima. C’è un documentario girato da Pasolini, Stendalì, ambientato nel Salento negli anni 60. È un pianto su un giovane morto di un gruppo di donne vestite di nero, che si riuniscono intorno alla salma cantando le loro litanie. Sono donne che ci sembrano lontanissime nel tempo, per come sono vestite, per i loro volti, e in questo loro cantilenare fanno quasi paura. Però sono di una bellezza incredibile. E lì il Femminile è presente mille volte di più rispetto alle immagini a cui ci rimanda il mondo contemporaneo, che invece assocerebbe loro ad un’idea di bruttezza. Oggi però questo va scardinato, mi sembra anche ora, no? (Ride) Tutti questi stereotipi di bellezza e bruttezza che ci sono stati appiccicati addosso… 

CV: Mi viene in mente la figura della tradizione sarda dell’accabadora: anche lì c’è quest’idea della donna che è sia l’ostetrica che colei che si occupa di una primordiale forma di eutanasia per chi soffre. È molto bello e forte questo accostamento fra la vita e la morte. 

SB: La società contemporanea sembra essersi piegata a un’idea di femminile sempre grazioso, accudente. Così come la natura, che è tutta rappresentata dai cuccioli e i fiorellini, mentre la Natura vera è… 

CV: Selvaggia.
CC: Aggressiva. E ti devasta.
Sappiamo benissimo tutte a cosa stiamo facendo riferimento. Pensiamo in presenza. 

Serpenti e Serpentesse, work in progress, 2024, Chiara Camoni, ph Elisa Zaninoni
landscape in Fabbiano, 2024, ph Clarissa Virgilio
Burning Sister, 2023, Chiara Camoni, ph Camilla Maria Santini