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Intervista con Matteo Cremonesi — APPARTAMENTO

[nemus_slider id=”50680″] Matteo Cremonesi in conversazione con Rossella Moratto Rossella Moratto: «Quello che succede ogni giorno, il banale, il quotidiano, l’evidente, il comune, l’ordinario, l’infra-ordinario, il rumore di fondo, l’abituale, in che modo renderne conto, in che modo interrogarlo, in...

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Matteo Cremonesi in conversazione con Rossella Moratto

Rossella Moratto: «Quello che succede ogni giorno, il banale, il quotidiano, l’evidente, il comune, l’ordinario, l’infra-ordinario, il rumore di fondo, l’abituale, in che modo renderne conto, in che modo interrogarlo, in che modo descriverlo?» Con queste parole George Perec ne “L’infraordinario” pone una questione che vi accomuna: anche il tuo lavoro si concentra sugli oggetti che abitano il nostro paesaggio usuale – che non notiamo quasi più –, di cui affermi semplicemente la presenza in modo anaffettivo e neutrale. Una poetica delle cose scontate per le quali hai usato il concetto di noia e di vertigine del già visto. Cosa intendi con queste definizioni?

Matteo Cremonesi: L’esperienza della noia è centrale nel mio lavoro. La noia di cui parlo è qualcosa di quotidiano che non si può distrarre con la conversazione o gli svaghi, è una noia che si potrebbe definire fondamentale, un’oscillazione costante, che consiste in questo: più o meno duramente, ovunque mi trovi, le cose si presentano come una variazione di ciò che è effettivamente già conosciuto, già visto. Le forme, le immagini, gli argomenti, le scene si ripetono assomigliandosi sino a svuotarsi di contenuto o di senso. A partire da questa capitolazione di ogni rapporto narrativo particolare, da questa delusione di ogni evento, inizia l’esigenza di un processo rappresentativo che trova nella semplice constatazione dell’esistente il suo fulcro e in quest’impossibilità della parola, di un racconto, una forma vertiginosa.

RM: La noia ha per te una connotazione di esistenziale? Implica sentimenti negativi?

MC: Penso abbia una connotazione esistenziale, ma non necessariamente negativa, non costantemente. Se in alcuni momenti mi dispone alla percezione di vivere sottoposto a un regime panottico, in altri assume un carattere liberatorio, rivelando con chiarezza radicale, come nessun gesto, nessuna immagine, possa in definitiva soddisfarmi. Questa consapevolezza o rassegnazione, provoca una strana esultanza, un gioia inspiegabile ma corroborante, e persino vivificante.

RM: Penso che la tua ricerca sia una forma di realismo minimale e antispettacolare, che impone una pausa di silenzio in un ritmo vitale veloce e incessante. Sembra reclamare l’esigenza di fermarsi e di riflettere… Possiamo definirla come un’indagine meditativa sul paesaggio contemporaneo?

MC: Sì, per molti versi credo il mio lavoro possa identificarsi in questa definizione, una placida osservazione di ciò che è costantemente vicino, quotidiano, apertamente insignificante.

RM: Le tue opere presentano e non rappresentano, non enfatizzano l’oggetto, limitandosi a registrarne la presenza. Trattandosi di paesaggio, mi viene in mente la Scuola di Dusseldorf – i Becher, e successivamente Gursky, Ruff, Struth, Höfer, Demand – alla quale ti accomuna una visione oggettiva con un alto livello di formalizzazione linguistica… Hai mai pensato a loro come riferimento?

MC: Ho avuto modo di conoscere e approfondire questi autori durante i miei studi in Accademia. Penso che siano artisti incredibili. Adoro il modo in cui sanno comprendere la struttura e la maniera in cui la loro pratica lavorativa si rapporta al soggetto disponendosi a pratiche seriali o concretizzandosi in una qualità formale che ben interpreta l’intelligenza dei loro soggetti. L’incontro con loro opere ha sicuramente incoraggiato alcune direzioni e attitudini.

RM: Un altro elemento interessante che suggerisce la chiave di lettura della mostra – e della tua ricerca – è l’aiku scelto per il comunicato stampa, che recita: «Mentre cade la pioggia di primavera, se ne imbeve, sopra il tetto, la palla di stracci di un bambino».

MC: Ho trovato questi versi casualmente in The Man in the High Castle un romanzo di Philip K. Dick che stavo leggendo proprio mentre cercavo le parole per raccontare questa mostra. Mi hanno colpito molto da subito, mi sono sembrati perfetti, adatti a indicare al tempo stesso il soggetto attorno a cui ruota la mostra e l’attitudine con cui questo è guardato. Sento molto l’influenza della letteratura Giapponese. In questa letteratura di genere, in costante equilibrio tra tradizione e innovazione, prende forma un modo di guardare il proprio tempo, il circostante, che in qualche misura impiega ancora un esperienza “contemplativa” che attiene non tanto al nuovo mondo promesso all’occidentalizzazione, quanto piuttosto alla cultura tradizionale, nella quale lo zen ha avuto un influenza enorme. In essa, di fatti, si spende un’esperienza il cui sguardo è dedito alla definizione del dettaglio, alla cura del particolare, del gesto che lo intrattiene, con una resa estetica tanto sintetica, sobria, impersonale, equilibrata, quanto al contempo ricca e profonda di senso.

RM: Un invito all’osservazione dell’oggetto nella sua realtà fenomenica che si avvicina alle filosofie orientali, al buddismo zen. Questo pensiero ha influenzato il tuo approccio?

MC: L’Oriente e il Medio Oriente hanno da sempre esercitato un potente fascino nel mio immaginario. Un fascino che ho avuto l’occasione di mitigare attraverso qualche viaggio e lettura. Attraversamenti che mi hanno indubbiamente arricchito molto, insegnandomi la possibilità di trattenere un punto di vista che ponesse nel segno, e nella sua pratica sintetica, vitale, silenziosa, lontana dalle parole, un valore rappresentativo essenziale.

RM: Nella serie Sculpture ti focalizzi sui dettagli degli oggetti fotografati che diventano entità lineari o plastiche esaltate nelle loro caratteristiche formali. Un omaggio all’estetica industriale?

MC: No, non l’ho mai inteso in questo modo, non sono interessato a questo aspetto. Più semplicemente credo si tratti del tentativo di ragionare su un modo per rapportarsi all’habitat contemporaneo in modo poetico. Un ragionamento non privo di emotività su quanto ci circonda e il modo in cui questo ci racconta.

Matteo Cremonesi,   Appartamento,   Nowhere Gallery,   Milano -  Installation view
Matteo Cremonesi, Appartamento, Nowhere Gallery, Milano – Installation view

RM: Gli oggetti che fotografi sono sempre “soli”, la presenza umana in questi paesaggi domestici è in genere assente. Però in alcuni lavori precedenti – mi riferisco ancora ad alcune opere della serie Sculture – indugi sui dettagli di fotocopiatrici, stampanti, lavatrici, evidenziando, in questo scrutare ravvicinato, la polvere,  lo sporco, il residuo che si accumula negli interstizi, legato all’uso dell’oggetto e al passare del tempo.  Mi sembra un elemento significativo alla luce degli sviluppi attuali della tua ricerca presentati in questa mostra, su cui si innesta un nuovo interesse: l’attenzione verso le tracce, anche poco visibili, che le persone lasciano sulle cose come una sorta di imprinting. È il “vissuto” degli oggetti e delle materie, che tra l’altro riprende alcune serie passate come Magma. Com’è nata questa nuova direzione?

MC: In un certo senso sono sempre stato interessato alla figura umana, credo che in quanto persona, corpo, non possa parlare d’altro che di questo. Non ho altra esperienza delle cose se non quella di uomo. Tuttavia per pensare un corpo, parlare di un corpo, non credo di aver bisogno di mostrare un corpo. Mi interessa molto la possibilità di parlarne di questo mantenendo una forma di riservatezza. Gli oggetti che ho fotografato, le scene che interrogo non avrebbero ragione di esserci se non in rapporto all’uomo. Quando guardo un oggetto o un ambiente, ciò che sto realmente guardando è l’uomo, perché riguarda l’uomo, è una definizione di ciò che siamo, di ciò che creiamo e di cui ci circondiamo, della nostra capacita di elaborare forme, relazioni, strumenti, immaginari.

RM: Il residuo umano prende corpo e autonomia nella pittura e nel disegno: per la prima volta alle fotografie e alle installazioni affianchi tele e carte. Entra un fattore di disordine: c’è una continuità tematica ma un allontanamento dalla resa impersonale e fredda dell’immagine fotografica per avvicinarsi alla dimensione più personale, soggettiva del gesto. Come nasce questa esigenza e come si concilia con il tuo lavoro precedente?

MC: Parte della genesi di questa mostra è avvenuta nel corso di un viaggio fra Balcani e Medio Oriente durante il quale il disordine della realtà è in qualche modo intervenuto cercando un linguaggio adatto per raccontarsi. Alla percezione ordinata e silente dell’habitat contemporaneo si è sovrapposta un’impressione vitale e disorganizzata. Mi sono ritrovato in un appartamento a Bucarest un giovedì mattina, fuori pioveva, e avevo voglia di dipingere un quadro…

RM: La tua pittura può essere descritta anche come un esercizio formale, una ripetizione differente di un ristretto orizzonte di oggetti con una limitata gamma di colori che si associano e relazionano tra loro in modi diversi. Nella contemporaneità mi ricorda la pratica morandiana, dello studio incessante con pochi e ricorrenti elementi…

MC: Penso il mio lavoro riguardi in un certo senso la vita quotidiana, ciò che possiamo incontrare ogni giorno. La costante, noiosa ripetizione dei medesimi soggetti, delle medesime scene e impressioni divengono il pretesto per concretizzare uno sguardo assorto nel tentativo di farsi, scoprirsi, ragionare. Un modo per scivolare al di la di ogni evento.

RM: Qual è il tuo rapporto con la pittura e il disegno? È una forma espressiva che hai praticato o a cui ti dedichi abitualmente in una fase progettuale o una strada inedita che hai deciso di intraprendere?

MC: Ho sempre avuto un rapporto importante e al contempo disimpegnato con il disegno, mi sono sempre affidato a questo per appuntare idee o impressioni che poi sviluppavo con la fotografia. In un certo qual modo i disegni e dipinti che sto realizzando desiderano non rinunciare del tutto a questo disimpegno.

RM: I tuoi disegni in particolare sono note visive, di grande freschezza, quasi degli appunti, estemporanei. In mostra ne esponi appesi e richiusi in alcune scatole, che il visitatore può sfogliare, come un diario per immagini…

MC: Del dipingere e del disegnare mi interessa la possibilità di riportare la sintesi di un impressione. Raccontare la sensazione che alcune immagini ricorrenti producono. Sono immagini che accennano a una certa tipologia di scene quotidiane, senza entrare in una descrizione dettagliata ma soffermandosi sulla loro sensazione. È un gesto che si vuole trattenere appositamente nel maldestro e nell’incompiuto, contrariamente alle fotografie non ragionano sul dettaglio ma sulla scena, che tratteggiano, accennano, per mezzo di segni elementari spesso sgraziati, quasi continuando, ampliando, la forma di un appunto. Una pratica in cui interviene in modo più incisivo il rapporto con il tempo poiché l’immagine prende vita e continua lontana dal soggetto, nutrendosi di segni che si “inventano” sulla sua impressione. Un lavoro nel quale la gestualità, il corpo, le sue capacità e incapacità, la sua noia, la sua disponibilità a stancarsi, o a perdersi e insistere in un gesto, determinano l’immagine, che ne dipende completamente. Questo sottile rapporto di dipendenza fra le possibilità del corpo e l’immagine è qualcosa che mi interessa molto, una cosa completamente nuova nel mio percorso.

RM: Alcune opere in mostra sono legate a un dato biografico, come l’installazione di metallo con i mozziconi di sigaretta (Let Them), i posacenere (Ashtray) o le piante che hai fotografato negli uffici durante alcuni colloqui di lavoro (Plants). Quanto è importante l’elemento autobiografico?

MC: Credo di poter lavorare solo su ciò di cui ho un esperienza diretta ed emotiva. Penso al mio lavoro come a un’osservazione ragionata, che inizia con il notare qualcosa per poi decidere su questa un’attenzione, dedicandovi del tempo per vederla, comprenderla. Tuttavia credo l’esperienza che porta al lavoro, su cui si struttura, non debba essere la ragione del lavoro, ma solo un punto di partenza, un motivo iniziale dal quale sviluppare un progetto capace di una sua autonomia formale e narrativa.

RM: Rispetto alle tue prime mostre, come Sculpture alla galleria Jarach dove si evidenziava una sorta di volontà classificatoria e archivistica, nella tua mostra dell’anno scorso a Soap, Greige e soprattutto in questa personale, il tuo lavoro si allarga a una dimensione installativa e ambientale che comprende diversi elementi, dove prevale una dimensione entropica.

MC: La mostra da Jarach è stata molto importante per diversi motivi, la disponibilità di uno spazio molto grande mi ha permesso di ragionare su un’esposizione di carattere museale. È stata un’esperienza fondamentale che mi ha aiutato a definire in modo chiaro ed esaustivo molti aspetti del mio lavoro. In quella fase avevo la necessità di ragionare in modo ordinato:  il percorso fatto fino ad allora, stringere la mia pratica attorno a qualcosa di chiaro e definito, affermando i caratteri generali di uno sguardo. Con quell’esposizione si è esaurita la necessità di  ricondurre il mio lavoro ad un unico linguaggio ed è subentrata la consapevolezza di poter far rientrare altre pratiche e linguaggi sotto la medesima poetica.

 RM: In Appartamento c’è un’attitudine all’accumulazione degli oggetti, per esempio i posacenere, i disegni… 

MC: Si, la serialità, l’accumulazione, il ripetersi dei soggetti, sono un modo per differire il rapporto seduttivo con l’immagine, un’insistenza di cui mi servo per depotenziare ed esaurire la loro impressione. Mi attrae la possibilità di suggerire una relazione con il soggetto che trattenga una traccia della sua genesi. Un inizio che avviene all’interno di una logica produttiva seriale, organizzata. In tal senso queste accumulazioni possono essere intese come il racconto di un aspetto fondamentale su cui la nostra economia – e implicitamente quindi la nostra esperienza – si posano.

RM: Il titolo della mostra – Appartamento – riprende il nome di una rivista di interni – Apartamento – e inquadra i lavori all’interno di una cornice domestica, definendo un ambito di riferimento esplicito, la realtà antropizzata in cui viviamo che è la nostra “natura”. Che ruolo hanno i titoli delle tue opere?

MC: I titoli dei miei lavori indicano semplicemente il soggetto rappresentato o l’attitudine con cui questo è guardato o inteso, ad esempio Sculpture/ Washer. Mi piace immaginare un domani il mio lavoro possa presentarsi come un elenco di soggetti. La scelta di intitolare la mostra Appartamento proviene da diverse suggestioni. L’appartamento è il luogo in cui raccogliamo e disponiamo oggetti d’uso e di memoria, in cui organizziamo e costruiamo, secondo le nostre necessità, le cose della nostra vita, decidendo per esse un ordine, un posto, un’importanza, una visibilità o meno. È un luogo in cui sono raccolte le tracce di ciò che siamo, una mappa o biografia dei nostri percorsi, delle nostre attività. Mi interessa la possibilità di ragionare in questi termini l’esposizione, portando in galleria diversi episodi e riproponendo nell’allestimento le logiche con quali i lavori sono stati disposti nel corso di questi mesi nel mio appartamento.

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Fino la 22 Gennaio [2016]

A cura di Rossella Moratto

Matteo Cremonesi,   Plants,   2015,   photopaper - Appartamento,   Nowhere Gallery,   Milano
Matteo Cremonesi, Plants, 2015, photopaper – Appartamento, Nowhere Gallery, Milano
Matteo Cremonesi,   Untitled,   2015 Oil on convas - Appartamento,   Nowhere Gallery,   Milano
Matteo Cremonesi, Untitled, 2015 Oil on convas – Appartamento, Nowhere Gallery, Milano