
Tra le tante iniziative che la Fondazione MAST di Bologna porta avanti per la valorizzazione della fotografia dell’industria e del lavoro si contano mostre di grandi autori internazionali, la Biennale di Foto/Industria, e tanti artist talk – venerdì 28 febbraio, ad esempio, il fotografo Miles Aldridge dialogherà con Federica Muzzarelli, Professoressa ordinaria di Storia della Fotografia presso il Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna. Ma nella programmazione della Fondazione ha sicuramente un ruolo di primo piano anche un concorso per giovani fotografi di provenienza internazionale, attivo con cadenza biennale sin dal 2007. Il Photography Grant on Industry and Work offre ai vincitori e alle vincitrici una borsa di studio che consente di portare avanti un progetto fotografico, i cui risultati trovano restituzione al pubblico in una mostra negli spazi della Fondazione, accompagnata da un catalogo. Per l’edizione 2025, i cinque selezionati alla fase finale del concorso – le candidature erano in totale 42 – sono stati Felicity Hammond, Gosette Lubondo, Silvia Rosi, Kai Wasikowski e infine Sheida Soleimani, che è risultata la vincitrice. Ciascun finalista è stato chiamato a sviluppare per Fondazione MAST un progetto inedito nell’arco di un anno: fino al prossimo 4 maggio i cinque esiti delle rispettive ricerche sono in mostra, con la curatela di Urs Stahel, nella Photo Gallery della Fondazione. I lavori andranno poi ad arricchire la già ricca collezione tematica di MAST, assieme ai finalisti delle passate edizioni.



La proposta di Kai Wasikowski (Canberra, 1992. Vive e lavora a Sidney) trae ispirazione dalle vicende di vita di sua nonna, emigrata con la figlia negli anni ’70 dalla Polonia all’Australia, su una nave da carico. Nonostante la nonna avesse lavorato in Polonia nel settore dei trasporti marittimi, non era poi riuscita, nel paese di arrivo, a reinserirsi nel mondo del lavoro locale. La serie di Wasikowski, dal titolo The Bees and the Ledger, ha un doppio esito: da una parte, un inventario visivo di oggetti importanti per la nonna, identikit quadrati di diverse dimensioni tutti su uno sfondo bianco uniforme (qualcosa quindi di non molto diverso dall’attività di catalogazione dei manifesti di carico delle navi da trasporto di una compagnia di spedizioni polacca, che lei stessa svolgeva in gioventù); dall’altra, una serie di istantanee di luoghi e situazioni familiari che ricostruiscono la storia della parente come “un mosaico di frammenti” (così le definisce in catalogo Stanley Wolukau-Wanambwa), o “una linea temporale spezzata” (secondo le parole dell’artista). Il titolo del progetto mette in correlazione la logica del libro mastro che governa l’operazione classificatoria del suo approccio fotografico alla cura della nonna verso le sue colonie di api, che aveva dovuto riportare indietro con sé in Polonia una volta che, dopo ormai trent’anni di stanziamento in Australia, si era dovuta ritrasferire dai suoi genitori. In Imaginary trip III, Gosette Lubondo (1993. Vive e lavora a Kinshasa) immortala gli ambienti degli edifici della cittadina industriale abbandonata di Lukula, nella Repubblica Democratica del Congo, ove, grazie all’impiego della doppia esposizione, appaiono in trasparenza gli spettri dei lavoratori un tempo addetti al funzionamento dei macchinari. Le fonti visive dell’artista sono le fotografie risalenti all’epoca coloniale sotto il controllo belga e le testimonianze delle vessazioni subite dalla popolazione, costretta con la forza a lavorare nell’industria di produzione della gomma e nello sfruttamento di altre materie prime. Dopo un primo capitolo del progetto (2016) dedicato alla costruzione della ferrovia della Repubblica, nella forma di una serie di fotografie in interni di vagoni abbandonati in cui Lubondo si mostra mentre guarda un paesaggio invisibile al di là dei riquadri opachi dei finestrini, nel 2018 l’artista si era focalizzata su un collegio di missionari del Congo centrale, instillando nuova vita nelle aule in rovina. Oggi, con la terza tappa del suo progetto, volge il suo sguardo sulle ex-fabbriche di Lukula: grazie ad una terra ricca di risorse e la vicinanza strategica al porto di Boma, la città di Lukula nei decenni di colonialismo aveva svolto un ruolo cruciale nel processo di sviluppo economico del paese, per poi andare progressivamente in decadimento a causa della sempre maggiore instabilità politica dopo l’indipendenza e il conseguente fallimento delle aziende. Lubondo coinvolge nei suoi scatti gli ex-lavoratori, che hanno mantenuto in legame con quei siti, e ne materializza i ricordi.


Silvia Rosi (Scandiano, 1992. Vive e lavora tra Togo e Regno Unito) presenta un lavoro che prende le mosse da un evento verificatosi negli anni ’60 in Togo – paese di origine dei genitori dell’artista –, cioè la presa di controllo, da parte di un gruppo di donne influenti, del commercio dei tessuti a motivi geometrici importati dall’Europa (i cosiddetti “wax”). Queste donne presero il nome di Nana Benz: “Nana” era un’espressione locale per chiamare le madri, “Benz” era invece un riferimento alle auto tedesche che tali donne ebbero l’opportunità di acquistare grazie ai profitti. Come ricorda Clément Chéroux nel testo in catalogo, negli stessi anni Niki de Saint Phalle adottò il termine “Nanas” per riferirsi alle sue sculture di donne sprizzanti gioia e colore, che incitavano sfacciatamente all’empowerment femminile nella società patriarcale. Evocando la storia delle Nana Benz, Rosi compone una serie di ritratti femminili in studio sfoggianti degli abiti interamente ricoperti da pattern geometrici; ma anche sullo sfondo ci sono tessuti con motivi intricati, e le fotografie sono presentate in negativo, fattore che contribuisce a complicarne la decifrazione. Nella narrazione dell’artista, “il negativo è una specie di segreto, qualcosa di nascosto, prima che se ne completi lo sviluppo. […] Le immagini che appaiono in negativo rappresentano storie che non sono ancora state del tutto raccontate – storie nascoste in bella vista”. Ma il camouflage vuole anche riferirsi al fatto che proprio le Nana Benz avevano ricoperto un ruolo fondamentale nel periodo della lotta per l’indipendenza del paese in quanto insospettabili latrici di messaggi. Sul piano compositivo le immagini di Rosi hanno come modello diretto i prodotti della tradizione degli studi fotografici dell’Africa occidentale: anche questa una pratica importata dai paesi europei, ma presto adottata anche dalle popolazioni locali e poi rivendicata in epoca postcoloniale come proprio strumento espressivo identitario. Si discosta dagli altri lavori in concorso per estetica e approccio al mezzo fotografico l’installazione Autonomous Body di Felicity Hammond (Birmingham, 1988. Vive e lavora a Londra), composta dalla carcassa di un’auto schiacciata in modo da evocare un qualche incidente (un legame, questo, con eventi tragici vissuti direttamente dall’artista) e saldata a tre pannelli verticali, che funge da struttura portante di un collage digitale di immagini di siti di estrazione di carbone e litio (materia fondamentale per l’elettronica), manipolate digitalmente. In Dark Adaptation, invece, Hammond interviene su dei cerchioni in lega di automobile trasformandoli in collage tridimensionali mediante l’applicazione di idropittura, una tecnica ampiamente usata nell’industria automobilistica che consiste nel trasferimento di immagini su oggetti tridimensionali per immersione in serbatoi d’acqua la cui superficie è velata da una pellicola idrografica. Con queste opere che sfidano i consueti confini disciplinari della fotografia Hammond getta un ponte tra l’attività estrattiva di risorse vitali per le industrie elettroniche e la capacità delle auto a guida autonoma di estrarre dati dal mondo circostante, interpretarli e generare a loro volta delle immagini, come le etichette identificative degli oggetti individuati.



Infine il progetto vincitore: Flyways di Sheida Soleimani (Iran, 1990. Vive e lavora a Providence, USA) si presenta come una narrazione complessa e stratificata che incrocia le due direttrici delle violazioni dei diritti delle donne in Iran e la pratica di cura di uccelli migratori feriti, in strutture come la clinica di riabilitazione per la fauna selvatica in cui opera l’artista stessa, “Congress of the Birds”, seguendo l’esempio della madre che si prendeva cura degli animali selvatici. La serie di immagini, elaborati tableaux che l’artista assembla in studio, vede protagonisti gli uccellini ricoverati nella sua clinica, in scenari densi di rimandi simbolici che evocano con levità storie di donne iraniane oppresse, che Soleimani ricostruisce minuziosamente in lunghe sessioni di ricerca su Google Maps dei luoghi in cui si sono consumati gli abusi e le torture nei loro confronti, spesso a partire da informazioni frammentarie. Dei volatili sono evidenti le ferite che ne hanno comportato la presa in carico dal Congress of the Birds: per alcuni le cure sono giunte in tempo, per altri non c’è stato niente da fare, e sono mostrati appena deceduti. In una delle immagini, che rappresenta uno snodo della serie, è mostrata la madre dell’artista che tiene rispettivamente nelle mani un serpente e la sua muta di pelle, incarnando la bilancia della giustizia tra la vita e la morte. La donna indossa una maschera: infermiera operante negli anni ’70 e ’80, insieme al marito medico, negli ospedali da campo dei guerriglieri dissidenti iraniani contro il regime, rischia ancora di subire ripercussioni, nonostante viva da decenni in esilio negli Stati Uniti.



